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GLI IMPERATORI DA CASERMA

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L'economia dell'Impero è favorita dalla romanizzazione delle province. La Gallia diventa il centro dell'agricoltura in Occidente, la Spagna è un grande esportatore di alimenti e metalli. L'Africa fornisce beni pregiati, grano, schiavi e belve feroci per gli spettacoli del Circo. L'industria non riesce davvero a svilupparsi, come in tutta l'antichità, per via della disponibilità di schiavi. L'Oriente ha una superiorità economica superiore all'Occidente, fornendo prodotti artigianali di squisita fattura e merci preziose, oltre a far da tramite negli scambi con l'India e la Cina. Ma il risultato è che l'Occidente si impoverisce per via della concorrenza delle province e l'Italia ne soffre grandemente. La bilancia commerciale è spesso in deficit e i tributi degli stati sottomessi non bastano a colmare il deficit. A ciò si aggiunge la diffusione della malaria e il calo demografico. Intere aree geografiche d'Italia si spopolano, con conseguente abbandono delle campagne e diffusione del latifondo. I provvedimenti imperiali non bastano a fronteggiare la crisi e si diffonde il colonato.
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Per circa un secolo dopo la morte di Commodo (dal 192 al 284), gli imperatori furono eletti dall’esercito, per cui i governanti di questo periodo sono stati chiamati anche  “imperatori da caserma” o ancora “imperatori soldato”. Il carattere del periodo è rivelato dal fatto che dei venticinque imperatori che salirono al trono in questo lasso di tempo tutti, tranne quattro, morirono di morte violenta. La guerra civile, la pestilenza, la bancarotta, erano tutte minacce per l’impero. I soldati avevano dimenticato come si combatte, i governanti come si governa. Da ogni parte i barbari irrompevano nell’impero per rubare, uccidere e mettere tutto a ferro e fuoco.

L’inizio di questi tempi difficili fu segnato da una serie di azioni vergognose da parte dei pretoriani.

Elvio Pertinace (193)

Busto di Pertinace
Busto di Pertinace

Ucciso Commodo, i congiurati offrirono la corona a P. Elvio Pertinace, nato a Diano presso Alba; di condizione umile, era salito ai gradi più elevati nella milizia ed era diventato prefetto di Roma.

Pertinace era un uomo eccellente e retto, ma governò solo per pochissimo tempo e poi fu messo fuori gioco dai soldati. Mentre la sorte di Commodo rimaneva ancora segreta, i seguaci di Leto ed Eccleto andarono da lui e lo informarono di ciò che era stato compiuto; infatti, per la sua eccellenza e il suo rango, erano felici di sceglierlo come imperatore.

Egli, dopo averli visti e aver ascoltato la loro storia, mandò il suo compagno più fidato a vedere il corpo di Commodo. Quando quest’uomo ebbe confermato la notizia del fatto, Pertinace si recò di nascosto nell’accampamento.

All’inizio il suo arrivo mise in allarme i soldati, ma grazie alla presenza degli sostenitori di Leto e alle offerte che Pertinace fece (promise di dare loro dodicimila sesterzi a testa), li conquistò.

In effetti, sarebbero rimasti perfettamente tranquilli, se egli non avesse concluso il suo discorso con un’osservazione come questa: “Ci sono molte circostanze penose, compagni soldati, nella situazione attuale; ma il resto, con il vostro aiuto, sarà rimesso a posto”.

All’udire ciò, essi sospettarono che tutti i privilegi concessi loro da Commodo in violazione dei precedenti sarebbero stati aboliti e questa cosa ovviamente non gli piaceva per nulla; tuttavia, rimasero tranquilli, nascondendo la loro rabbia.

Lasciato l’accampamento, egli giunse alla sala del Senato mentre era ancora notte e, dopo averci salutato, per quanto fosse possibile per chiunque avvicinarsi a lui in mezzo a una folla così agitata, disse a braccio: “Sono stato nominato imperatore dai soldati; tuttavia, non voglio questa carica e mi dimetterò subito, proprio oggi, a causa della mia età e della mia salute cagionevole, e per lo stato penoso delle cose”.

Non appena disse questo, gli demmo la nostra sincera approvazione e lo scegliemmo in tutta sincerità, perché non solo era nobilissimo d’animo, ma anche forte di corpo, a parte il fatto che soffriva di un leggero impedimento a camminare a causa dei piedi.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

La piaggeria del popolo verso il nuovo sovrano appena salito al trono e la velocità con cui avevano già dimenticato quello di prima, raggiunse livelli ingnobili, ma anche comici

In questo modo Pertinace fu dichiarato imperatore e Commodo nemico pubblico, dopo che sia il senato che il popolo si erano uniti nel gridare molte parole ingiuriose contro quest’ultimo. Volevano trascinare via il suo corpo e farlo a pezzi, chi da una parte, chi all’altra, come avevano fatto, in effetti, con le sue statue; ma quando Pertinace li informò che il cadavere era già stato inumato, risparmiarono le sue spoglie, ma sfogarono la loro rabbia contro di lui in altri modi, chiamandolo con ogni sorta di nomi.

Nessuno lo nominava infatti Commodo o imperatore, ma si riferivano a lui come a un miserabile maledetto e a un tiranno, aggiungendo per scherzo termini come “il gladiatore”, “l’auriga”, “il mancino”, “il rotto”.

A quei senatori sui quali aveva gravato maggiormente la paura di Commodo , la folla gridò: “Urrà! Urrà! Siete salvi, avete vinto”. In effetti, tutte le grida che erano stati abituati a pronunciare con una sorta di oscillazione ritmica nell’anfiteatro, per rendere omaggio a Commodo, ora le cantavano con alcune modifiche che le rendevano del tutto ridicole.

Infatti, ora che si erano liberati di un sovrano e non avevano ancora nulla da temere dal suo successore, stavano sfruttando al massimo la loro libertà nell’intervallo e si stavano guadagnando una reputazione di audacia di parola nella sicurezza del momento. Infatti, non si accontentavano solo di essere sollevati da ulteriori terrori, ma nella loro sicurezza volevano anche abbandonarsi a una sfrenata insolenza.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

Avrebbe potuto essere uno dei principi migliori dell’impero per le sue ottime qualità:

Fu così che Pertinace salì al potere. Ottenne tutti i titoli consueti di quella carica e anche uno nuovo per indicare la sua volontà di essere democratico: fu infatti chiamato capo del Senato secondo l’antica prassi. Subito riportò all’ordine tutto ciò che prima era sregolato e confuso; infatti, non solo dimostrò umanità e integrità nelle amministrazioni imperiali, ma anche nella gestione economica e la più attenta considerazione per il benessere pubblico.

Oltre a fare tutto ciò che un buon imperatore dovrebbe fare, eliminò la stigmatizzazione di coloro che erano stati messi a morte ingiustamente e giurò inoltre che non avrebbe mai più approvato una simile pena. E subito alcuni piansero i loro parenti e altri i loro amici con un misto di lacrime e di gioia, dato che in precedenza non era consentito mostrare queste manifestazioni di commozione. Dopo di che esumarono i corpi, alcuni dei quali furono trovati intatti e altri mutilati o decomposti, a seconda del modo in cui avevano trovato la morte o del tempo trascorso in ciascun caso; e dopo averli debitamente sistemati, li depositarono nelle tombe degli antenati.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

La sua unica “colpa” fu di voler risanare le finanze
dello stato disastroso in cui le aveva lasciate il suo predecessore, e tutto ciò scatenò l’ira ai pretoriani, che dopo tre mesi lo assassinarono.

Ma Leto […] procedette a mettere fuori gioco molti dei soldati, fingendo che fosse per ordine dell’imperatore. Gli altri, quando se ne accorsero, temettero di dover morire anche loro e ne nacque un tumulto; ma duecento, più audaci dei loro compagni, invasero davvero il palazzo con le spade sguainate.

Pertinace non fu avvertito del loro avvicinarsi finché non furono già sulla collina; allora sua moglie accorse e lo informò dell’accaduto. Quando seppe tutto, si comportò in un modo che si può definire nobile, o insensato, o come si vuole.

Infatti, anche se con ogni probabilità avrebbe potuto uccidere i suoi assalitori, dato che aveva a portata di mano la guardia notturna e la cavalleria per proteggerlo, e dato che in quel momento c’era anche molta gente nel palazzo, o che avrebbe potuto almeno nascondersi e fuggire in un luogo o nell’altro, chiudendo le porte del palazzo e le altre porte interposte, tuttavia non adottò nessuna di queste soluzioni.

Invece, sperando di sopraffarli con la propria autorità e di conquistarli con le sue parole, andò incontro alla banda di ammutinati  che si avvicinava e che era già all’interno del palazzo; infatti nessuno dei loro commilitoni aveva sbarrato la strada e i portinai e gli altri liberti, lungi dal chiudere qualsiasi porta, avevano aperto tutti gli ingressi.

I soldati, alla sua vista, dapprima rimasero sconcertati, tutti tranne uno, e tennero gli occhi a terra, ricacciando le spade nei foderi; ma quell’unico uomo invece balzò in avanti, esclamando: “I soldati ti hanno mandato questa spada”, e subito gli si gettò addosso, ferendolo. Allora i suoi compagni non si trattennero più, ma colpirono l’imperatore insieme a Ecletto.

Solo quest’ultimo non lo aveva abbandonato, ma lo aveva difeso come meglio poteva, ferendo anche diversi dei suoi assalitori; perciò io, che già prima mi sentivo di dire che si era dimostrato un uomo eccellente, ora lo ammiravo profondamente.

I soldati tagliarono la testa di Pertinace e la infilarono in una lancia, gloriandosi dell’impresa. Così Pertinace, che si era impegnato a ripristinare tutto in un attimo, giunse alla sua fine.

Non capì, pur essendo un uomo di grande esperienza pratica, che non si può riformare tutto in una volta e che la restaurazione di uno Stato, in particolare, richiede tempo e saggezza. Era vissuto sessantasette anni, li avrebbe compiuto quattro mesi e tre giorni dopo, e aveva regnato ottantasette giorni.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

Didio Giuliano: l’Impero in vendita su Ebay…ehm, all’asta! (193)

Scena finale dal film La Caduta dell'Impero Romano, 1964
Scena finale dal film La Caduta dell’Impero Romano, di Anthony Mann, 1964. Dopo aver ucciso in un duello il perfido Commodo (Christopher Plummer), Livio (Stephen Boyd), l’immaginario eroe della pellicola, rifiuta il trono di Roma che gli viene offerto (“ Non mi trovereste adatto.” dice “Perché il mio primo atto ufficiale sarebbe di farvi crocifiggere tutti.”) e se ne va con la sua bella Lucilla (Sophia Loren).
Allora l’Impero Romano viene messo subito all’asta:
– : “Due milioni di dinari per il trono di Roma! Due milioni di dinari per il trono!”
– : “Due milioni e cinquecentomila dinari!”
– : “Due milioni e settecentocinquantamila dinari!”
– : “Due milioni…per essere Imperatore del più grande impero della storia? Dalla Britannia all’Egitto? Governatore del mondo? No! Molto di più!”
– : “Tre milioni di dinari! Per il trono e l’impero di Roma!”
E poi la voce fuori campo recita queste parole: “ Questo fu l’inizio della caduta dell’impero romano. Una grande civiltà non viene mai conquistata dall’esterno, finché prima non si è distrutta da sé dall’interno.”

I soldati allora annunciarono che avrebbero venduto l’impero al miglior offerente. L’impero fu quindi messo in vendita nell’accampamento dei pretoriani e Didio Giuliano, un ricco senatore, che versò a ciascuno dei 12.000 soldati che in quel momento componevano la guardia, la somma di ben 25.000 sesterzi ciascuno, cioè circa 30.000 euro attuali, la vinse e ottenne la corona. Il prezzo dell’impero era quindi di più 300 milioni di euro.

Quando si seppe della sorte di Pertinace, alcuni corsero alle loro case e altri a quelle dei soldati, tutti temendo per la propria vita. Ma Sulpiciano, che era stato inviato da Pertinace nell’accampamento per mettere ordine, rimase sul posto e si adoperò per farsi nominare imperatore.

Nel frattempo, Didio Giuliano, un insaziabile usuraio e spendaccione, sempre pronto a scatenare disordini e per questo esiliato da Commodo nella sua città natale, Mediolanum, quando seppe della morte di Pertinace, si diresse in fretta e furia verso l’accampamento e si fermò appena fuori dalle tende.  

Ne seguì un’azione vergognosa e indegna di Roma. Infatti, proprio come se si fosse trattato di un mercato o di una sala d’aste, furono messi in vendita al miglior offerente sia la città che l’intero impero. Questo mercanteggiare era gestito da coloro che avevano ucciso il loro imperatore e gli aspiranti acquirenti erano Sulpiciano e Giuliano, che facevano a gara per superarsi a vicenda, l’uno dall’interno, l’altro dall’esterno dell’accampamento.

Gradualmente aumentarono le offerte fino a ventimila sesterzi per soldato. Alcune delle guardie riferivano a Giuliano: “Sulpiciano offre tanto; tu quanto metti di più?”. E a Sulpiciano a sua volta: “ L’offerta di Giuliano è questa; quanto offri di più?”

Sulpiciano avrebbe avuto la meglio, essendo prefetto della città e quello che fino a quel momento aveva fatto l’offerta più alta: la cifra di ventimila sesterzi, se Giuliano non avesse alzato la posta non di poco, ma di altri cinquemila sesterzi in un colpo solo, sia gridandolo a gran voce, sia indicando con le dita la cifra. Allora i soldati, conquistati da questa ricca offerta e allo stesso tempo temendo che Sulpiciano potesse vendicarsi di Pertinace (idea che Giuliano stesso mise loro in testa), accolsero Giuliano all’interno e lo dichiararono imperatore.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

Busto di Didio Giuliano
Busto di Didio Giuliano

Il senato fu obbligato a convalidare la nomina di Giuliano. Ma questi soldati turbolenti e insolenti che facevano il comodo loro nella capitale dell’impero, non potevano continuare impunemente a fare come gli pareva.

Non appena la notizia del vergognoso mercimonio raggiunse le legioni alla frontiera, queste si sollevarono come un solo uomo, in una rivolta piena di indignazione. Ognuno dei tre eserciti che tenevano l’Eufrate, il Reno e il Danubio, proclamò imperatore il suo comandante prediletto.

Il capo delle truppe danubiane era Settimio Severo, un uomo di grande energia e forza di carattere. Sapeva che c’erano altri concorrenti al trono e che l’impero sarebbe spettato a chi lo avesse conquistato per primo. Immediatamente mise in moto i suoi veterani e giunse presto a Roma. I pretoriani non erano all’altezza degli addestrati legionari di frontiera e non tentarono nemmeno di difendere il loro imperatore, che fu fatto prigioniero e messo a morte dopo un regno di appena sessantacinque giorni.

Dopo essersi impadronito del potere in questo modo, Giuliano gestì gli affari in modo servile, facendo la corte sia al Senato sia a tutti gli uomini di una certa influenza, ora facendo promesse, ora elargendo favori, e ridendo e scherzando con chiunque. Allestiva continuamente giochi e spettacoli teatrali, e continuava a organizzare banchetti; insomma, non lasciava nulla di intentato per corteggiare il nostro favore. Eppure non solo recitava bene la parte, ma incorreva nel sospetto di indulgere in servili lusinghe. Infatti, ogni atto che va al di là della correttezza, anche se ad alcuni sembra cortese, viene considerato dagli uomini di buon senso come un inganno.

Quando il Senato gli votò una statua d’oro, egli rifiutò di accettarla, dicendo: “Datemi una statua di bronzo, perché possa durare; osservo infatti che le statue d’oro e d’argento degli imperatori che hanno governato prima di me sono state distrutte, mentre quelle di bronzo sono rimaste”. In questo si sbagliava, perché è la virtù che conserva la memoria dei governanti; e infatti la statua di bronzo che gli era stata concessa fu distrutta dopo il suo stesso rovesciamento.

Questi furono gli avvenimenti a Roma. Ora parlerò di ciò che accadde fuori e delle varie ribellioni. In questo periodo, infatti, tre uomini, ciascuno dei quali comandava tre legioni di cittadini e molti stranieri, tentarono di assicurarsi il controllo degli affari: Severo, Nigro e Albino.

Quest’ultimo era governatore della Britannia, Severo della Pannonia e Nigro della Siria. Questi, dunque, erano i tre uomini raffigurati dalle tre stelle che improvvisamente si presentarono intorno al sole quando Giuliano, in nostra presenza, offriva i sacrifici d’ingresso davanti al Senato.

Queste stelle erano così distinte che i soldati continuavano a guardarle e a indicarle l’un l’altro, dichiarando che qualche terribile destino sarebbe toccato all’imperatore. Quanto a noi, per quanto sperassimo e pregassimo che si rivelasse così, la paura del momento non ci permetteva di guardarle se non con sguardi furtivi. Questo è l’episodio che racconto per mia esperienza. […]

Giuliano, venuto a conoscenza di ciò, fece dichiarare al senato Severo nemico pubblico e si preparò contro di lui. Nei sobborghi costruì un bastione, munito di porte, in modo da poter prendere posizione là fuori e combattere da quella base.

In quei giorni la città divenne niente di più e niente di meno che un accampamento, per così dire, nel paese del nemico. Grande era l’agitazione delle varie forze che si accampavano e si esercitavano – uomini, cavalli ed elefanti – e grande era anche la paura che le truppe armate incutevano al resto della popolazione, perché quest’ultima le odiava.

Eppure, a volte, ci veniva da ridere: i Pretoriani non facevano nulla di degno del loro nome e della loro promessa di fedeltà, perché avevano imparato a vivere nell’ozio; i marinai chiamati dalla flotta di Miseno non sapevano nemmeno esercitarsi; e gli elefanti trovavano pesanti le loro torri e non volevano nemmeno più portare i loro conducenti, ma li buttavano giù. Ma ciò che ci ha divertito di più è stata la fortificazione del palazzo con cancelli a grata e porte robuste. Infatti, poiché sembrava probabile che i soldati non avrebbero mai ucciso Pertinace così facilmente se le porte fossero state ben chiuse, Giuliano credeva che, in caso di sconfitta, avrebbe potuto rinchiudersi lì e sopravvivere.

[…] Giuliano fece uccidere anche molti ragazzi come rito magico e propiziatorio, credendo di poter scongiurare alcune delle sue future disgrazie se ne fosse venuto a conoscenza in anticipo. E continuò a mandare uomini contro Severo per ucciderlo a tradimento.

Ma Severo raggiunse presto l’Italia e si impadronì di Ravenna senza colpo ferire. Inoltre, gli uomini che Giuliano continuava a mandare contro di lui, sia per convincerlo a tornare indietro sia per bloccare la sua avanzata, passavano subito dalla parte di Severo; e i Pretoriani, nei quali Giuliano riponeva la massima fiducia, si stavano logorando per le continue fatiche e si stavano allarmando molto alla notizia dell’avvicinarsi di Severo.

A questo punto Giuliano ci convocò e ci disse di nominare Severo per condividere il suo trono. Ma i soldati, convinti da lettere di Severo stesso, che se gli avessero consegnato gli uccisori di Pertinace e avessero mantenuto la pace, non avrebbero subito alcun danno, arrestarono gli uomini che avevano assassinato il precedente imperatore e annunciarono il fatto a Silio Messalla, che era allora console.

Quest’ultimo ci riunì nell’Ateneo, così chiamato per le attività educative che vi si svolgevano, e ci informò dell’azione dei soldati. Allora condannammo a morte Giuliano, nominammo imperatore Severo e conferimmo gli onori divini a Pertinace.

E così avvenne che Giuliano fu ucciso mentre se ne stava sdraiato su triclinium nel suo stesso palazzo ; le sue uniche parole furono: “Ma che male ho fatto? Chi ho ucciso?”. Era vissuto sessant’anni, quattro mesi e altrettanti giorni, di cui sessantasei di regno.

Dione Cassio, Storia Romana, Epitome libro LXXIV

Morte dell'imperatore Vitellio. Dipinto di Gustave Housez
Morte dell’imperatore Vitellio. Dipinto di Gustave Housez. Sicuramente Didio Giuliano avrà subito più meno lo stesso trattamento.

(Libero adattamento da “Ancient History, Greece and Rome” di Philip Van Ness Meyers, Toronto, 1901 e da Manuale di Storia Romana di G. Bragagliolo, 1896)

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Settimio Severo, un africano, appartenente all'esercito del Danubio, divenne imperatore. Severo era un abile soldato. Disarmò i pretoriani, li bandì da Roma e li sostituì con cinquantamila legionari, che fungevano da guardia del corpo. La persona che egli mise al comando di questa guardia fu messa al suo fianco, con poteri legislativi, giudiziari e finanziari. Il Senato fu ridotto a una nullità. Dopo essersi assicurato la capitale, Severo condusse una campagna contro i Parti e fu vittorioso sui regni della Mesopotamia e dell'Arabia. Nel 203 fece erigere, a ricordo di queste vittorie, un magnifico arco, che si trova ancora alla testa del Foro a Roma. Morì a Eboracum (York), in Britannia, mentre si preparava a una campagna contro i Caledoni.

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