Data: 496 a.C.
Luogo: Lago Regillo, vicino a Tuscolo (odierna Frascati)
La battaglia del Lago Regillo è una delle prime leggendarie vittorie della Repubblica romana. L’anno in cui si svolse la battaglia non è del tutto certo, ma in genere si situa nel 496 a.C. Tuttavia, secondo Tito Livio, i dittatori furono creati nel consolato di Tito Ebuzio Helva e Gaio Veturio Gemino Cicurino, quindi potrebbe aver avuto luogo nel 499 a.C.
Ecco un riassunto degli eventi:
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Antefatto:
- Dopo essere stato cacciato da Roma, Tarquinio il Superbo cercò aiuto in varie città vicine.
- Il principale sostegno gli venne da Porsenna, lucumone di Chiusi.
- Tuttavia, Porsenna, ammirato dall’eroismo di vari personaggi romani come Orazio Coclite, Muzio Scevola e Clelia, decise di interrompere gli attacchi a Roma e di liberarsi dell’alleanza con l’ormai anziano deposto re romano.
- Tarquinio e i suoi seguaci, espropriati dei loro beni a Roma, dovettero trovare rifugio a Tusculum, governata dal genero di Tarquinio, il dittatore Ottavio Mamilio.
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Evento scatenante:
Tarquinio il Superbo, cacciato da Roma, cerca di riconquistare il potere con l’aiuto dei suoi alleati.
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Schieramenti:
- Roma: guidata dal dittatore Aulo Postumio Albo Regillense, con l’aiuto dei Latini
- Tarquinio il Superbo: esule re di Roma, sostenuto da Etruschi e Volsci
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La battaglia:
- Ottavio Mamilio passò i successivi tre anni a preparare la guerra contro Roma, aizzando i Latini.
- I Romani, sospettati di parteggiare per la fazione dei Tarquini, si trovarono in una condizione di guerra fredda con continue provocazioni dai popoli confinanti.
- La battaglia si svolse nei pressi del Lago Regillo, vicino a Tuscolo, Lazio.
- I Romani, guidati da Aulo Postumio, ottennero una vittoria schiacciante contro i Latini, che sostenevano Tarquinio il Superbo.
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Svolgimento della battaglia:
- Battaglia campale cruenta e incerta.
- La leggenda narra dell’intervento divino dei Dioscuri (Castore e Polluce) a favore dei Romani.
- Momento decisivo: scontro tra cavalieri romani e cavalieri di Tarquinio.
- Tarquinio è sconfitto e costretto a fuggire in esilio.
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Castore e Polluce:
- Secondo la leggenda, durante la battaglia, i gemelli divini Castore e Polluce apparvero a cavallo e combatterono al fianco dei Romani.
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Conseguenze:
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- Vittoria decisiva per Roma che consolida la sua supremazia sul Lazio.
- Firma del Foedus Cassianum, alleanza tra Roma e le città Latine.
- Fine delle ambizioni di restaurazione di Tarquinio il Superbo.
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Critica storica:
- Alcuni dettagli della battaglia sono leggendari e potrebbero essere stati amplificati nel corso del tempo.
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Localizzazione:
- Il Lago Regillo è noto per la battaglia e si trova nei pressi di Tuscolo, nell’agro tuscolano, forse dove è oggi il Pantano Secco a nord di Frascati.
Significato:
La battaglia del Lago Regillo è un evento fondamentale nella storia di Roma:
- Segna la definitiva affermazione della Repubblica Romana.
- Rafforza il prestigio e l’autorità di Roma nel Lazio.
- Diventa un simbolo della resistenza romana contro i tiranni.
Curiosità:
- La leggenda narra che i Dioscuri, dopo aver aiutato i Romani in battaglia, si lavarono nel lago Regillo e poi sparirono nel tempio di Vesta.
- La battaglia è stata celebrata in numerose opere letterarie e artistiche.
Ecco come viene narrata la battaglia in Lays of Ancient Rome, una raccolta di poesie narrative , o lays, del 1842 di Thomas Babington Macaulay, uno storico e politico britannico, tradotta in italiano col titolo di Canti di Roma antica e pubblicato dall’editore Hoepli nel 1869. Il poema è stato ridotto in prosa, basandosi proprio su quest’ultima traduzione italiana, e diviso in paragrafi per agevolare la lettura e la comprensione del testo:
CANTO PER LA FESTA DI CASTORE E POLLUCE NEGLI IDI DEL QUINTILE ANNO DELLA CITTÀ, CCCCLI
Questa è la festa di Castore e Polluce, e l’anniversario della battaglia del lago Regillo, che essi fecero tanto per vincere. Ricordiamoli e cantiamo le loro lodi.
Suono di trombe guerriere risuoni! Littori, sgombrate ogni sentiero! I cavalieri, gagliardi e nel pieno del loro orgoglio, cavalcheranno oggi per ogni via dell’alma Roma. Le porte e i balconi sono già ornati di ghirlande, da Castore nel foro a quel delubro che là fuori delle mura è sacro a Marte.
Ogni cavaliere è cinto di porpora e coronato di pacifico ulivo. Un bellicoso destriero, che altieramente calca con gli zoccoli l’arena e spande la polvere al cielo, docile al loro comando.
Finché l’onda del biondo fiume scorrerà feconda nel mare, finché la cima del sacro monte sorgerà altera, gli Idi del Quintile avranno sempre questo onore.
I. I cavalieri avranno onore e gloria.
I cavalieri, in tutto il loro splendore, sfileranno per le strade di Roma. Le calende di marzo sono liete, le none di dicembre sono liete, ma il giorno degli Idi, quando lo squadrone cavalca con la chioma cinta di verdi fronde, saranno il giorno più glorioso di Roma.
II. Agli incliti Gemelli (Castore e Polluce)
Noi consacriamo questo giorno solenne. I due grandi fratelli, su ali divine, corsero rapidissimi dal sole nascente.
Passarono sul Partenio, folto di pini che piegano la chioma all’alitare di ogni aura in onda rilucente; sui portici di Cirra, sulle bianche acque spumose dell’Adria, sull’Appennino purpureo.
Correndo di là, dove le armonie festose si levano dalle due sedi degli eroi con flauti e danze, nella potente e signorile Sparta, nella città padrona, dove due re insieme hanno scettro e corona, fino al lago di Regillo, dove sotto l’altura dei colli Porciani fu combattuta la famosa guerra sulla terra tusculana.
Là dove un tempo si combatté una strage, ora si vedono capanne di pastori e ovili, vigneti, campi di frumento e verdi alberi carichi di frutti gentili.
Il maiale affamato schiaccia le ghiande che cadono dalle querce di Comus. Sul praticello fiorito, presso la bella fonte zampillante, fuma il semplice pasto del mietitore.
Il pescatore colloca l’esca nell’amo, il cacciatore prepara l’arco. Ah, poco costoro pensano alle robuste membra infrante e alle nude ossa che si disfano nel profondo qui sotto a questo suolo! Poco hanno pensiero di come in quel giorno le bellicose trombe suonavano severe!
Come il cavaliere feroce traballasse in quella paurosa battaglia fra il sangue col suo cavallo; come alla luce della luna i lupi ululando corressero al cumulo di cadaveri e carogne, e i neri corvi sopra le avide ali giù calassero gracchiando, e delle carni facessero strazio di campioni egregi, e dei re caduti cavassero gli occhi con l’ingordo becco.
Come frequenti i morti giacessero sotto la Porciana altura; come per entro alle annerite mura di Tusculo corresse con furia insana l’onda dei fuggenti; e come il lago di Regillo si ergesse gorgogliando spuma sanguigna, al tempo in cui si combatterono tra loro trenta città, e schierarono il loro esercito fiero e potente contro Roma e la romana gente.
Ma tu, o Romano, quando ti poserai su quel sacro terreno, guarda memore il nereggiante scoglio che tutto circonda l’oscuro lago.
Allora vedrai profonda nel sasso un’orma di cavallo; nessun destriero mortale poté dare un colpo tale sulla pietra.
Là piega l’orgoglio, porgendo voti ai grandi Gemelli Dioscuri, e prega che nel furore di guerra o di tempesta ti serbino la testa incolume.
I Latini inviano un messaggio in cui chiedono ai Romani di rimettere sul trono i Tarquini. Il console rifiuta fieramente e viene nominato un dittatore. L’esercito romano si accampa presso il lago Regillo.
Molto tempo era trascorso, dall’ultima volta che i Grandi Fratelli Gemelli erano stati visti da occhi mortali. Quell’estate un certo Virginio era il primo console; il secondo il robusto Aulo, di razza postumia.
L’araldo dei Latini giunse da Gabi in stato di guerra, passò attraverso la porta orientale di Roma, si fermò nel nostro Foro e lì fece il suo annuncio, con lo scettro in mano:
– “O Senatori e popolo della prode città di Roma, udite: Le trenta città vi comandano di ricondurre a casa loro i Tarquinii dal bando. Se siete ancora ostinati contro di loro, le trenta città vi avvertono: Soprattutto, o Romani, abbiate cura che le mura di Quirino siano forti.”
Allora il console Aulo prese la parola e pronunciò una battuta amara: “Un tempo le gazze osarono mandare un messaggio al nido dell’aquila. – “Ora, o cedi il tuo nido al nibbio, carogna, oppure esci con coraggio e affronta le gazze in una lotta mortale.”
L’aquila li guardò con ira; e il nibbio e la gazza, non appena videro il suo becco e il suo artiglio, fuggirono urlando lontano.”
L’araldo dei Latini riportò ai suoi la risposta: i padri della città sono riuniti in un’importante discussione.
Allora parlò il console anziano, un uomo antico e saggio: “Ora ascoltate, padri coscritti, a ciò che vi consiglio. Nelle stagioni di grande pericolo è bene che uno solo regga il potere; allora scegliamo un dittatore a cui tutti gli uomini dovranno obbedire.
Camerio sa quanto profondamente la spada di Aulo morde, e tutta la nostra città lo chiama “L’uomo dei settanta combattimenti”. Allora che sia lui il dittatore per sei mesi e non di più, e che abbia un maestro dei cavalieri e ventiquattro asce”.
Così Aulo fu dittatore, l’uomo dei settanta combattimenti; egli fece di Ebuzio Elva il suo capo della cavalleria. Il terzo giorno successivo al tramonto del giorno, Aulo e Ebuzio partirono con la loro schiera.
Sempronio Atratino fu lasciato a casa al comando, circondato da giovani e uomini dai capelli grigi, per tenere le mura di Roma. Vicino al lago Regillo il nostro accampamento fu piantato di notte: verso est, a un miglio di distanza, si trovavano i Latini, sotto l’altura di Porcia.
Sui colli e nelle vallate stava sparsa la loro potente schiera; e con i loro mille fuochi di guardia il cielo di mezzanotte era ormai rosso.
I nomi delle città che contribuirono all’esercito latino di sessantamila uomini e il loro ordine di battaglia. Tutto il Lazio era presente per combattere con Roma
Sull’altura di Porcia si alzò il mattino dorato, mentre le orgogliose Idi di Quintile si avvicinavano sempre più. I nostri più coraggiosi guerrieri non videro il nemico senza segreti timori, poiché i trenta stendardi si alzarono, circondati da sessantamila lance.
Quel valoroso esercito proveniva da ogni città bellicosa che vanta un nome latino: dai vigneti rosseggianti di Sezia, dalle antiche mura di Norba, dalle bianche strade di Tuscolo, la città più orgogliosa di tutte; dalla Fortezza della Strega che incombe sui mari blu scuro; dal lago di vetro che dorme sotto gli alberi di Aricia, dove l’orrendo sacerdote regna nell’ombra fioca, uccisore dell’uccisore e destinato a essere ucciso a sua volta; dalle tetre rive dell’Aufente, dove giocano in volo gli uccelli palustri e i bufali sguazzano nel caldo giorno d’estate; dalle gigantesche torri di guardia di Cora, non opera di uomini mortali, da cui le sentinelle sorvegliano l’infinita palude; dalle selve di Laurento, dov’è di casa il maiale selvatico; dai verdi pendii da cui l’Anio si slancia cascate di schiuma bianca come la neve.
Cora, Aricia, Norba e Velletri, con le falangi unite di Tuscolo e di Sezia, erano schierate sul lato destro del campo di battaglia. Il loro duce era Mamilio, principe del nome latino. Il suo cimiero d’oro rosso brillava come una fiamma. Baldanzoso e fiero, cavalcava un nobile destriero grigio-scuro. Sulla sua dorata armatura una veste di porpora scorreva, opera tessuta dalle figlie siriane dai folti e neri capelli, là dove il sole spunta. Era stata portata da lontano da navi puniche che solcavano a mezzogiorno i flutti infidi. Una veste rara e preziosa, giunta sino ai lidi italici.
Lavinio e Laurento attendevano la battaglia sulla sinistra. Le loro bandiere sventolavano sulla palude e sulla riva. Il loro capitano era l’infame Sesto, che aveva compiuto l’atto esecrato. Con piede incerto e volto scolorato, giunse ultimo al campo di battaglia.
Si diceva che avesse avuto una visione strana e che udisse strani rumori, che nessun altro poteva vedere o udire. Spesso una donna maestosa e bella, ma pallida come i morti, sedeva accanto al suo letto, traendo il filo dalla conocchia mentre le veglie notturne scorrevano silenziose.
Girando il suo fuso, cantava dolcemente delle antiche famiglie illustri e delle battaglie combattute un tempo. Filava e cantava fino a che non vedeva la stella dell’alba.
Quindi, accennando al petto insanguinato, gridava in modo che l’anima ne inorridiva. Si alzava minacciosa e fuggiva via.
Inizia la battaglia. Il falso Sesto fugge da Erminio, uno dei difensori del ponte. Ebuzio uccide Tiburi, ma viene gravemente ferito da Mamilio di Tuscolo e si ritira dalla battaglia.
Ma gli scudi delle falangi ostili erano più spessi al centro, e da lì il grido bellicoso si levava sempre più forte. Sotto le ciglia già canute, fiammeggiava ancora una scintilla di rabbia e di furore negli occhi di Tarquinio. Se la lancia gli tremava in pugno, era più per odio che per età.
Su un destriero apulo, al suo fianco, stava Tito, il più giovane dei Tarquini, uomo di indole troppo buona e virtuosa per quella razza infame e infedele.
I condottieri di entrambi gli schieramenti diedero il segnale della battaglia. I fanti si mossero in avanti, muniti di lancia e scudo, mentre i cavalieri di entrambe le parti spronavano i cavalli. Le potenti falangi si scontrarono frontalmente con un ruggito ferale.
Il terreno si arrossò subito sotto l’urto, e una polvere simile a nebbia pontina che si alza al mattino si levò sopra le schiere. Il suono delle armi si fece ancora più forte e feroce dal campo insanguinato e scuro, mescolato al suono dei ferri che si percuotevano, al galoppo veloce delle squadre combattenti che spazzavano la pianura davanti a sé come un vorticoso infuriare di venti, e alle urla degli uccisori e agli ultimi lamenti dei moribondi.
Tiburi e Pedo, sotto l’altero comando di Tarquinio, procedevano superbamente, e il fiero Ferentino, che prendeva il nome dallo scoglio omonimo, e Gabio che si chiamava come lo stagno. Là cavalcavano i rinforzi dei Volsci; in un cupo cerchio si stringevano intorno al vecchio re coloro che erano stati banditi da Roma.
Benché la sua grande barba bianca scorresse giù per la maglia e la cintura come la neve del Soratte a notte fonda, il suo cuore era ancora saldo e la sua mano forte.
La lotta al centro, dove l’antico Tarquinio viene colpito. I Latini si battono su di lui mentre giace, e Tito uccide Valerio, attorno al cui corpo si accende la lotta.
Cavalcava in prima fila l’infame Sesto, con lo sguardo alto e fiero. Indossava una corazza di pelle di bisonte, risplendente di acciaio e oro. Come l’aquila dal masso fissa avidamente l’agnella che, scelta da lontano, saltella davanti al gregge, così Erminio fissa sull’infame Sesto lo sguardo avido, e rapido come un’aquila gli si avventa contro. Erminio, prode campione e prode destriero sopra il nero Austro, stringe nella mano destra la spada che custodiva così bene il ponte del Tevere, e sull’elmo glorioso il serto che vinse a paragone del morto, quando cadde l’empia Fidene.
Guai alla vergine il cui amante in questo giorno incontrerà sulla sua strada l’infame Sesto! Lo vide e palpitante voltò la faccia, e fuggì via. Così l’infame Sesto si voltò e fuggitivo si nascose nel retroguardo suo, dietro le spalle delle potenti schiere di Lavinio, irte di lance, di spade e di bandiere.
Ma lontano, al nord, il maestro dei cavalieri Ebuzio diede agli avvoltoi di Norba le membra sanguinose del Norbese Tubero. Sotto l’unghia cruenta del destriero si vede poi stramazzato e pesto Fiacco di Sezia; oh, meglio se in quel giorno fosse rimasto potatore fra i suoi olmi modesti!
Mamilio vide la strage e, scuotendo la cresta dorata nel furore, si spinse contro il maestro dei cavalieri tra una folta schiera. Percosse lo scudo di Ebuzio con un colpo così fiero che il signore di Tuscolo ne fu quasi travolto e rotolò sul campo. Poi Mamilio percosse Ebuzio dove la spalla si unisce al collo, e lo ferì così crudelmente che il ferro nudo passò dall’altro lato. Ebuzio cadde a terra privo di sensi e fu subito circondato da un muro di scudi. Poco lontano dal campo fu deposto dai suoi.
Un elmo fu riempito dal nero lago e l’onda spruzzò sul volto del nobile guerriero. Quando finalmente aprì le pupille nuotanti al raggio del sole, si narra che con cuore affannato chiese per primo ai suoi vicini: “Amici, come volge il fato della battaglia?”
Nel frattempo, al centro della battaglia si compivano gesta mirabili. Qui combattevano in gara Aulo il Dittatore e Valerio. Con la sua grande spada, Aulo si aprì una strada sanguinosa fino a quando, nel folto più denso dei nemici, vide biancheggiare la lunga barba di Tarquinio. Abbassò la spada sulla fronte antica del superbo re, che lasciò cadere briglia e lancia e cadde a terra come un corpo morto.
Aulo, con gli occhi rossi come brace, balzò a terra per trucidarlo. Ma Tito fu più rapido e si pose a cavallo sul corpo del padre. Allo stesso modo, i cavalieri romani balzarono a terra contro i capitani latini. Tutti impugnarono la spada contro l’avversario, si combatté corpo a corpo e mano a mano intorno al vecchio re.
Tito fu il primo a ferire mortalmente il vecchio Ceso in volto. Ceso era il miglior campione della gens Fabia. Aulo trafisse il re di Gabio, che era ministro di Giunone. Giulio, raggiunto da Valerio, cadde a terra colpito. Era un membro della gens Giulia, una grande famiglia di Roma. Giulio aveva lasciato la sua dimora a Velia. In ogni momento, nel bene e nel male, si era sempre tenuto fedele a Tarquinio. Ora giaceva cadavere ferale accanto all’orgoglioso principe.
Tito fremette di rabbia e dolore. Scagliò un colpo poderoso contro Valerio, che a sua volta lo colpì alla cresta, tagliandola a metà. Ma Tito, ahimé, affondò il suo brando di una spanna nel petto di Valerio.
Come un albero di mare che la tempesta furibonda ha troncato, così Valerio cadde dopo un breve vacillare. Ahimè, ahimè, per la famiglia che ama tanto la patria e il popolo di Roma! I Latini gridarono ancora forte e spinsero indietro i combattenti romani di più di tre lanciate. Quattro robusti uomini presero l’orgoglioso Tarquinio e lo portarono esanime su uno scudo fuori dalla battaglia, sul terreno nudo.
La battaglia divenne ancora più feroce intorno al corpo esanime di Valerio. Tito lo afferrava per i piedi, mentre Aulo lo tirava a sé per la testa.
“Avanti, Latini!” gridava Tito. “Vedete come i ribelli si danno alla fuga!”
Con altrettanta forza, Aulo diceva: “Romani, siate costanti nella battaglia! Ora o vinciamo o moriamo. No, per il cielo, non dobbiamo lasciare Valerio ai corvi e agli avvoltoi! Lui che ha sempre avuto in orrore l’ingiustizia e si è sempre schierato dalla parte del giusto. Ha combattuto in prima linea per le vostre mogli e i vostri figli, ed è caduto combattendo. Ora combattete con valore per quella famiglia che è il simbolo del valore, che ama la patria e il popolo di Roma!”
Il fragore della lotta mortale si intensificò intorno al corpo, simile al rombo di una foresta infiammata quando spira il turbine e la tempesta. La battaglia infuriò, ora avanti ora indietro, in maniera multiforme.
Non si poteva più vedere dove fosse Valerio, tanto era l’ingombro di bandiere stracciate, armi infrante, membra monche, corpi agghiacciati. Moribondi e pesti tutti si sballottavano sul suolo, e tra gli strazi funesti della morte mordevano furiosamente l’arena insanguinata.
Destrieri feriti rotolavano a terra, scalciando e sbuffando schiuma fumante di color purpureo dalle narici. Valerio giaceva nascosto tra quei corpi, degno riposo per un console romano.
Mamilio si vede arrivare in aiuto dei Latini. Cosso parte al galoppo per chiamare Erminio, che arriva subito. Mamilio si lancia contro la sua rotta ed entrambi i campioni vengono uccisi.
Ma il Dittatore guardò verso nord. A lungo e fisso; poi, rivolto a Caio Cosso, capo della guardia, così prese a parlare: “Tu, Caio, fortissimo campione, il cui sguardo acuto supera quello di tutti i Romani, dimmi, se puoi, quale esercito ci vola incontro dal terreno laziale su quel piano polveroso?”
Caio Cosso gli diede una risposta grave: “Ahimè, che brutta vista si presenta ai miei occhi! Vedo in aria sventolare la grande bandiera di Tuscolo, che ci vola incontro dal terreno laziale. Tra scintille belliche vedo i cavalieri piumati. Vedo il grande destriero grigio-scuro di guerra correre in avanti, e la veste purpurea, e il cimiero dorato che fiammeggia da lontano e sembra avvampare. Così cavalca sempre ardito e truce il duce del nome laziale, Mamilio.”
“Ora, Caio Cosso, ascolta attentamente: salta in groppa al tuo feroce cavallo e cavalca come se avessi ai fianchi tutti i lupi dell’Appennino. Attraverso balze e dirupi e dirigiti verso la battaglia a mezzogiorno, e non rallentare il freno finché, raggiunto Erminio, gli avrai detto che qui lo aspetto e che voli qui rapidamente.”
Detto questo Aulo, tornò in campo pieno di sdegno. Caio Cosso ubbidì, sciolse le briglie al cavallo, consegnando la sua vita e la sua morte all’animale.
Sotto le ferree zampe del veloce destriero cupo rumore facevano gli elmi dei caduti e le armi. Il calpestio lo ricoprì di sangue schizzato dalle pozze.
Così giunse intrepido alla strage di mezzogiorno, dove l’esercito romano compiva gesta memorande e degne, contro le insegne che convergevano dalle alture e dalle paludi.
Come frumento che la falce atterra, così cadevano in guerra i poderosi Lavini sotto i colpi del ferro memorando che custodiva così bene il ponte del Tevere di fronte ai nemici.
“Erminio, Erminio!” gridò Aulo. “Affrettati a sostenere la battaglia centrale, perché il pericolo per le nostre armi è grande dove combatte il più giovane dei Tarquini e il Tuscolano Mamilio, principe e duce del nome laziale, dalla cresta d’oro fiammeggiante. Combattendo da forte e alla lesta, il nostro prode Valerio è già caduto: e Aulo solo, dalle settanta guerre, sostiene oggi l’onore su queste terre.”
Erminio si percosse il petto esagitato e non disse nulla. Batté la mano sulla criniera di Austro, scosse il freno del cavallo nero: immantinente, come una freccia scoccata dall’arco risonante, Austro si slanciò in avanti, quel nero Austro, primo corsiero dalle rive dell’Eridano alle chiare onde del pugliese Aufido.
I guerrieri romani si rallegrarono, perché in quel momento fatale reggevano i pericoli della grande lotta intorno al corpo di Valerio, quando liete grida si alzarono da mezzogiorno: “Ecco Erminio! Egli viene, fonte di gloria, che custodiva così bene il ponte del Tevere!”
Mamilio vide Erminio e si avventò contro di lui con un grido feroce: “Vieni, Erminio! Ti ho cercato per molti giorni di crudele strage: ora, Erminio, solo uno di noi tornerà lieto al proprio nido! Io difenderò la fama tusculana, tu la romana!”
Tutto il fragore della terribile lotta tacque all’improvviso, mentre i due campioni di Tuscolo e di Roma, su destrieri grigi e neri, si fronteggiavano.
Mamilio ebbe una ferita mortale dal prode Erminio, che gli forò la corazza e gli aprì il petto. E subito il sangue porporino scorse sulla veste purpurea in un largo rio. Da Mamilio, Erminio ebbe un colpo dritto alla testa, dato con tanta forza che gli fracassò l’elmo.
Entrambi gli orgogliosi campioni caddero a terra morti, immersi nel loro stesso sangue.
Gli spettatori, stupefatti, immobili e silenti, rimasero a guardare per un tempo che si poteva contare fino a venti.
Il cavallo di Mamilio si allontanano verso Tuscolo, mentre Austro il Nero rimane accanto al corpo del suo padrone. Tito tenta di montarlo, ma viene ucciso da Aulo il Dittatore.
Il cavallo di Mamilio, scuotendo i loro zoccoli sia a destra che a sinistra, si diresse in quella direzione: irrompendo tra le file dei combattenti, saltando sui cumuli di morti e moribondi. Le briglie volavano via, i fianchi sanguinanti e coperti di schiuma, mentre si dirigevano verso i colli del meriggio, i colli del loro natale. Il sentiero era ripido e scosceso, con i lupi ululanti che si lamentavano tra i boschi. Infuocato dalla furia, come un vento vorticoso, velocemente il destriero attraversò la cima, lasciando i lupi indietro. Il passo fragoroso risuonò attraverso i morbidi casolari temendo un evento spaventoso; attraversò la porta di Tuscolo con slancio.
Si precipitò lungo un sentiero bianco; passò accanto al tempio, accanto alla torre; e continuò a volare senza fermarsi finché non arrivarò nella piazza maestosa, di fronte alla porta del padrone.
Immediatamente attorno a destriero si radunò una folla pallida, muta, palpitante; e quando lo videro e lo riconobbero, un grido di rabbia, di furia, di pianto si levò:
E per il destino dell’amato Principe che le donne piangevano, strappandosi i capelli; e gli anziani tornavano alla loro vecchia armatura per proteggere le mura.
Ma simile a una statua immobile, il nero Austro rimase fermo e impassibile, osservando tristemente il volto del suo padrone. E la capigliatura nera e lucente, che ogni sera la giovane Erminia accarezzava, distribuendo con amore, pettinandola e sistemandola in trecce uguali, adornata con variopinti nastri, ora giaceva sui resti miserabili del padre di lei, avvolto nella strage e nel sangue.
Con impeto si alzò il furioso Tito, afferrando le briglie del cavallo nero. Aulo allora pronunciò un giuramento tremendo e con feroce impeto si lanciò su di lui.
«Giuro con me le furie del tuo fratello e insieme con tutti del mio sangue, prima che qualcuno della tua stirpe maledetta cavalchi mai Austro!» Come una sentinella dell’Appennino innevato che scagli un fulmine dall’alto con fragore, così la spada scese sul collo di Tito.
E il sangue scaturì copioso e rosso, che ricadendo sul terreno formava un grande arco; così come sorge ricco di acque chiare una fonte nel cortile del signore di Capua.
Le ginocchia di tutti i latini tremarono , quando videro Erminio morto sopra il morto, con orrore disperato dei superbi Tarquini, anche il migliore.
Aulo si prepara a montare il nero Austro, quando scorge due strani cavalieri al suo fianco. Sono Castore e Polluce, che caricano alla testa dell’esercito romano
Accarezzando il cavallo
Ed il dittatore Aulo accarezzò dolcemente con la mano amica la criniera nera del cavallo, guardando con premura le briglie e i cinturoni. “Ora portami bene, o nero Austro, laggiù tra i nemici; e per il bene del tuo signore, avremo entrambi piena e perfetta vendetta,” disse. E assicurò la cintura del destriero nero, quando vide con stupore una coppia principesca cavalcare a destra.
L’apparizione dei cavalieri
I cavalieri erano così simili l’uno all’altro che confondevano la vista: l’armatura candida come la neve, i loro cavalli altrettanto candidi. Un’arma così rara non ha mai brillato sulla terra, né un corridore così audace ha mai rallentato il freno d’argento per bere da un fiume terreno.
Tremore e stupore
E tutti tremarono a vederli, e ogni guancia divenne pallida. Il dittatore, commosso dallo splendore, raccolse a stento la voce per parlare: “Dite, quali nomi vi sono dati tra gli uomini mortali? E quale terra o città è la vostra patria? Perché cavalcare così di fronte alle schiere romane, anime guerriere?”
Il dialogo con i cavalieri Dioscuri
“Gli uomini ci chiamano con nomi diversi qui in basso. Abitiamo tra le dolci terre degli uomini: noi conosciamo Samotracia e nemmeno Cirene ci è sconosciuta; ogni mattina la nostra dimora a Taranto si copre di lauro verde e di splendide corone; sulle antenne marine che circondano solennemente Siracusa svettano le mura marmoree del nostro tempio; ma la nostra amata culla giace presso il superbo Eurota; e per combattere per la giustizia, siamo venuti dalle nostre terre, davanti alle spade romane.”
Rinnovato ardore
Così risposero gli stranieri; e ognuno piegò la lancia verso la battaglia, e le schiere di Roma ripresero ardimento, mentre il dubbio e lo stupore scendevano su trenta schiere. Ardea vacillò nel cuore dalla sinistra, e Cora dalla destra. “Avanti, o Roma!” gridò Aulo, “il nemico cede. Avanti, per il venerato focolare di Vesta, e per lo scudo d’oro! La lancia in resta! Nessuno resti a saccheggiare, ma uccida! Uccida! Uccida! Oggi gli eterni dei ci volgono benigni.”
I Latini si rivoltano e fuggono. Molti dei loro capi vengono uccisi e soprattutto il falso Sesto, che muore da codardo.
Il suono della tromba e la furia di Aulo
Il cupo suono della tromba della guerra risuonò fiero dal suolo fino alle stelle. Oh! ben nota è ai corvi la risonanza, quando impone ai Romani di spezzare lance e sguainare spade! La spada di Aulo allora si levò con un orrendo bagliore verso la strage: simile a un masso precipitante dalle cime dell’appennino scosceso, Austro fremendo si lanciò in mezzo al combattimento. Ma sotto i due stranieri giacevano i caduti più numerosi; e dietro ai loro destrieri invano Austro, volando, si sforzava di divorare le strade.
L’avanzata romana
Dietro di loro le schiere romane avanzavano a minare l’esercito nemico, con le bandiere sventolanti alte e sotto i ferri spargendo ordinate e oscure fiamme.
Così come il fiume Elidano riversa le sue onde ribollenti sui campi; così si scatena sul mare Adriatico, più nero e tumultuoso della notte, la tempesta del vento nordico.
La fuga dei nemici
Ora, per nostro padre Quirino, fu sublime vedere trenta bandiere spazzare via in un lampo le fuggenti schiere insanguinate. Così le onde del mare Adriatico fuggono velocemente dal feroce vortice; così le spighe di grano agile sono portate giù per i gorghi del Po.
L’infamia di Sesto
Il vile Sesto fu il primo a voltare codardamente il suo cavallo verso le montagne; e Ferentino fuggì rapidamente, così come Lanuvio, e i veloci cavalieri di Nomentum spronavano i loro cavalli; per evitare di cadere sul campo, i fanti di Velletri gettarono via scudi e lance lontano dai Romani, che lampeggiavano.
I Dioscuri arrivano a Roma con la notizia della vittoria. Nessuno osa chiedere chi siano e, dopo aver lavato i loro destrieri nella fontana di Vesta, scompaiono dalla vista dei mortali
L’attesa
Ora Sempronio Atratino sedeva gravemente presso la porta, rivolto verso oriente. Vicino a lui, altri tre padri avevano preso posto sulla loro solenne sedia: Fabio, con i suoi nove prodi nipoti, valoroso avolo, che combattevano tutti sul campo per Roma; Manlio, il più anziano dei dodici che custodivano lo scudo d’oro; e Sergio, l’alto Pontefice, la cui fama di saggezza si diffondeva fino a terre remote. Nessuna città etrusca aveva l’eguale.
E dappertutto, intorno alla porta e sopra le mura romane, c’era una folla immensa ma silenziosa, trepidante d’ansia: giovani imberbi, anziani ormai malfermi nella loro armatura, e madri meste e venerande, con labbra palpitanti, e vergini con il volto pallido e smorto.
Sin dalle prime luci dell’alba, Sempronio non smetteva di ascoltare, nell’attesa di udire qualche rumore provenire dall’orto, il nitrito e il calpestio dei cavalli.
L’arrivo dei messaggeri
Ormai la nebbia vespertina si alzava e il sole volgeva verso l’occidente, quando vide due guerrieri, una coppia sovrana, correre verso la città, spronando via i loro destrieri rapidamente e macchiati di sangue. Mai nessuno aveva visto e ammirato due gemelli così simili; i cavalieri erano macchiati di sangue e lo erano anche i loro cavalli.
“Salve al celebre rifugio! Salve ai sette colli della città! Salve al fuoco sacro che mai si spegne, e allo scudo che gli dèi hanno fatto cadere dal cielo! Oggi, presso Regillo e sotto la Porciana altura, il suolo tuscolano è stato teatro di una gloriosa e furiosa battaglia insieme. Domani vedrete il vostro dittatore, famoso vincitore, portare le spoglie di trenta città, per adornare con esse gli altari, gli atri e le soglie dei templi romani.”
L’esultanza della folla
Allora un grido così grande e fragoroso si levò dalla folla, che le torri tremarono fin dalle fondamenta; alcuni correvano verso sud, altri verso nord, gridando: “La giornata è nostra!” Ma la coppia di cavalieri stranieri non deviò dal proprio cammino retto e proseguì avanti con nobiltà e calma; nessuno osò chiedere il loro nome o la loro origine. Cavalcando dritto, si fermarono al Foro, mentre dalle case e dai balconi cadeva una bella pioggia di fiori e rami d’alloro sulle loro teste trionfali.
Quando si avvicinarono al tempio di Vesta, scesero entrambi dai loro poderosi destrieri e fecero il bagno nella fontana che scorreva vicino al santuario. Poi risalirono di nuovo sui loro cavalli e cavalcarono fino alla porta dorata; lì, come un lieve soffio di vento, scomparvero dalle loro pupille. Nessun occhio mortale li vide mai più.
Il Pontefice spiega ai romani chi fossero i loro visitatori divini e chiede ai cittadini di costruire un tempio in loro onore e di organizzare una processione annuale
La paura e l’intervento di Sergio
L’intero popolo fu preso dallo sgomento; il pallore si diffuse su ogni viso. E solo Sergio, il sommo Pontefice, prese vigore nel suo discorso segreto:
“Gli dei, che vivono eternamente lassù, oggi hanno combattuto per noi! Questi sono i Fratelli che regnano dal Cielo, grandi Gemelli, ai quali il popolo dorico innalza le sue preghiere con devozione. Gioisce in trionfo quel capitano che in quel momento della battaglia vede ai suoi lati i potenti Gemelli coperti dall’elmo e circondati dall’armatura. Torna incolume al porto tra i cavalli tempestosi la nave, se mai, in cima alle antenne, i due potenti protettori Gemelli hanno seduto in mezzo a una luce aurea, per rendere sicuro il cuore pulsante del condottiero.
Il trionfo e la protezione dei Gemelli
“So che hanno lavato i cavalli alla fontana santa di Vesta e li hanno cavalcati fino alla porta della dea, ma un divieto severo mi impone di tacere.”
Il mistero e il nuovo tempio
“Qui, vicino al luogo dove si trova il tempio di Vesta, dobbiamo con un bell’esempio erigere un altro tempio ancora più grande agli invitti Gemelli, che hanno combattuto così bene per noi, per Roma.”
Le celebrazioni annuali
“E quando torneranno i mesi e questo giorno di battaglia e trionfo ci sarà di nuovo favorevole, il popolo, fiero degli Idi del mese di Quintile, marcato sempre di bianco, si affollerà all’altare dei Gemelli con offerte di fiori e ghirlande, con inni e canti; e i balconi e le porte saranno adornati con corone preziose, mentre al di fuori delle mura i valorosi cavalieri chiamati da Marte procederanno, coperti di nobile porpora, al suono gioioso delle trombe festive, ciascuno lungo il proprio corridoio di guerra, con un ramo d’ulivo e in una processione solenne passeranno davanti al venerato tempio dove i Gemelli siedono beati, essi che hanno scacciato i nemici di Roma.”