Caio Marcio Coriolano è l’eroe romano vincitore dei Volsci e appartenente alla famiglia dei Marcii, il cui antenato era Anco Marcio, quarto re di Roma. Durante la prima secessione della plebe, sostenne coloro che si opponevano ad essa. Conquistò con alcuni alleati, Corioli, che si trovava a sud-est di Roma. Finché, approfittando delle difficoltà di fornire grano a Roma, tentò di vendicarsi del popolo e propose di sopprimere la magistratura dei tribuni della plebe. Esiliato, passa dalla parte dei Volsci e li persuade a rompere il trattato con Roma e invaderla. Quando le truppe dallo stesso Coriolano assediano la città, le matrone romane, tra cui sua moglie Volumnia e sua madre Veturia, vengono inviate da lui per dissuaderlo dall’attaccare….
Guerra con Veio
Il raddoppio del numero dei questori era richiesto dalle necessità della guerra, affinché due di questi magistrati seguissero l’esercito. E la guerra tuonava minacciosa intorno a Roma da parte dell’Etruria. Già l’Urbe aveva combattuto più guerre contro Fidene, città etrusca sulla sponda latina del Tevere, alleata con la più potente Veio. Fidene nel 426 era stata presa e distrutta e con Veio era stata conclusa una pace di vent’anni.
Decadenza dei Re Etruschi
Era questo il periodo in cui la potenza etrusca si trovava ormai in decadenza. Nel 474 a.C. la flotta etrusca aveva subito una disfatta a Cuma da parte della marina di Gerone, re di Siracusa. Nel 423 a.C. i Sanniti scendendo dalle montagne, invasero la Campania e distrussero la federazione meridionale etrusca con la presa di Volturno, cui essi diedero il nome di Capua.
E intorno allo stesso periodo, le invasioni celtiche dalle Alpi si estesero nella valle del Po e con esse andò distrutta la federazione etrusca settentrionale, la cui principale città era Felsina.
Roma intanto faceva guerra alle città più vicine al Lazio. Questo dissolversi dell’impero etrusco diede una buona occasione a Roma, scaduta la pace dei vent’anni, di riprendere la guerra contro Veio. È questa la prima grande impresa militare romana.
La possente città etrusca non potè essere abbattuta se non con un lungo e continuato assedio. Le legioni dovettero stare per molto tempo accampate, per cui fu necessario introdurre il soldo militare per pagare i salari, mentre prima la milizia non era retribuita. Nel 406 a.C. cominciò l’assedio di Veio e durò dieci anni.
La memoria di quest’impresa ci fu tramandata nella forma di splendida epopea con eroiche imprese, prodigi ed intervento dei numi. Si trascorse molto tempo nelle opere d’assedio; i Veienti, alleati coi Capenati e Falisci, ruppero le trincee romane e invasero l’accampamento. Si rinnovò la guerra, fu rimesso in campo un ulteriore nuovo esercito ma a causa di discordie intestine e ambizioni personali dei capi, i Romani furono un’altra volta sconfitti.
Il Primo Tribuno Militare Plebeo
Fu in mezzo a queste vicende che i plebei ottennero, con P. Licinio Calvo, la prima elezione al tribunato militare (400 a. C.). Le sorti romane si risollevarono per opera di Furio Camillo, che prima come tribuno militare vinse i Capenati e i Falisci e poi come dittatore strinse di un forte assedio la città combattuta.
Furio Camillo
Narra la tradizione che nel cuore di un’arida estate, nel 396 a. C, il lago di Albano traboccò. Fu riferito ai Romani il vaticinio di un aruspice etrusco, il quale rivelava che la città non sarebbe stata mai espugnata se prima le acque del lago non fossero state ricondotte entro le loro sponde. Quel vaticinio concordava con un altro responso dell’oracolo di Delfi. Fu allora scavato un emissario per scaricare le acque. (Il fenomeno del traboccare delle acque del lago è spiegato come effetto di movimenti vulcanici nel terreno laziale e l’emissario scavato si vede ancora oggi).
Nello stesso tempo, Camillo fece realizzare un cunicolo sotterraneo, che dal campo conduceva fin dentro Veio. Finita l’opera, fu dato l’assalto alla città. Mentre i difensori combattono dalle mura, un corpo scelto di soldati, guidati da Camillo in persona, scende giù per il cunicolo introducendosi all’interno della città: quindi assaltano i cittadini e fanno stragi e saccheggi.
Così fu vinta e distrutta l’opulenta Veio (396 a. C.). La guerra presto si rivolse contro le città che erano alleate con i Veienti e nemiche di Roma: Capena fu vinta, Faleria divenne tributaria; Nepete e Sutri furono prese e la frontiera romana verso l’Etruria si estese fino alla impenetrabile selva Ciminia. Camillo celebrò le sue vittorie con uno splendido trionfo in Roma. Ma nel pieno della sua gloria, egli fu vittima dell’instabile fortuna degli uomini: invidiato per le sue imprese ed odiato per la sua fierezza contro la plebe, fu accusato d’aver sottratto parte del bottino di Veio. Amareggiato per le accuse, ritenendo un disonore il dover difendersi e attendere la sentenza, si ritirò in volontario esilio ad Ardea.
I Galli: l’incendio di Roma
Invasioni galliche in Italia
Già dai tempi di Tarquinio Prisco alcune tribù celtiche e galliche, cacciate dalle loro terre da invasori che venivano da oltre il Reno, avevano valicato le Alpi arrivando in Italia, condotte da Belloveso e stanziatesi fra il Po ed il Ticino, fondarono Mediolanum (Milano).
È questa la prima invasione gallica ricordata nella storia. Seguirono poi altre orde, come quelle dei Cenomani, dei Boi, dei Lingoni, dei Senoni, che si spinsero oltre il Po, nell’Appennino, lungo la costa Adriatica e varcati i monti, penetrarono nell’Etruria. Si Narra che mentre i Romani vincevano a Veio, i Galli conquistavano Melpo, città dell’Etruria settentrionale e che un cittadino di Clusio (Chiusi) offeso da un lucumone, chiamasse per vendetta i Galli Senoni contro la sua patria.
Nell’ anno 391 apparvero appunto le orde dei Senoni sotto le mura di Clusio. La città minacciata chiese soccorso a Roma. ll senato mandò ambasciatori tre Fabii, per ingiungere ai Galli di levare il campo. Al loro rifiuto e chiedendo questi invece una terra in cui stanziarsi, si accese una zuffa fra loro e gli assediati. Nella battaglia che ne seguì, furono visti combattere anche gli ambasciatori romani.
Battaglia dell’Allia (390 a.C.)
I Galli, indignati per il diritto delle genti violato, chiesero che fossero loro consegnati quegli ambasciatori; avutone in risposta un rifiuto, levarono il campo e mossero contro Roma. I Romani uscirono ad affrontarli con un esercito di 40 mila uomini, mentre quello dei Galli era di 70 mila.
Si scontrarono presso il piccolo fiume dell’Allia, affluente di sinistra del Tevere, il 18 luglio del 390 a.C. L’esercito romano, sbaragliato, fu fatto a pezzi; pochi fuggitivi scamparono a Veio. i Galli esaltati dalla baldanza per tanta vittoria indugiarono sul campo. Solo dopo tre giorni mossero contro Roma.
I Romani raccolsero nella rocca del Campidoglio i tesori della città e gli uomini atti alle armi. Per le cose sacre e le donne e i fanciulli si cercò scampo a Cere.
Incendio di Roma
I Galli invasero la città abbandonata e la diedero alle fiamme, quindi posero l’assedio di Roma alla fortezza del Campidoglio. Gli assediati resistevano valorosamente, sebbene oppressi dalla fame. I fuggiaschi dell’Allia riparati a Veio, si recarono a soccorrerli. Ponzio Cominio scende nottetempo il Tevere, s’arrampica di nascosto sulla rupe capitolina, dà notizia dell’arrivo degli aiuti, rinfranca gli animi degli assediati.
Ma i Galli, venuti a sapere della cosa, tentano per la stessa via una invasione notturna nella rocca. Le sacre oche di Giunone vigilanti, schiamazzando, danno l’allarme e Marco Manlio corso per primo agli spalti, respinge i primi assalitori che erano già arrivati sul ciglione delle mura. Rovesciati, precipitano trascinando anche tutti gli altri nella loro stessa rovina.
Il tentativo andò dunque fallito, ma la cosa pur non giovò agli assediati, che vinti dalla fame, dovettero venire a patti col nemico. I Galli chiesero mille libbre d’oro per potersene andare. Così fu deciso. Già si pesava l’oro sulle bilancie, quando Brenno volle ottenere un ulteriore riscatto, rubando sul peso. Accusato di ciò da qualche cittadino, il capo gallico gettò sui piatti della bilancia la sua spada, pronunciando la terribile frase: Guai ai vinti! Quindi le pretese del tributo in oro divennero più esose di quanto pattuito, quand’ ecco comparire Camillo con una forte schiera, che assale subito i Galli mettendoli in fuga. Infine riprende l’oro all’ insolente Brenno. Roma fu salva, dopo un assedio durato cinque mesi (390 a.C.)
Così dice la leggenda, ma l’improvvisa partenza dei Galli non fu per il fulmineo sopravvenire di Camillo, bensì perché i Veneti avevano invaso le terre oltre l’Appennino e occupate proprio dai Galli, così essi furono costretti ad accorrere in difesa di queste.
Roma era distrutta; il popolo guardando a tanto miseranda rovina, pensò di trasferirsi a Veio. Camillo, che per la recente vittoria era stato proclamato secondo fondatore di Roma, invano cercò dissuaderli. Ma più che le sue parole valse l’augurio casuale per bocca d’un centurione, il quale, mentre il popolo era riunito nel Foro e già sul punto di deliberare dello sgombro della città, giunse con un drappello in quello stesso luogo e fermatosi, disse all’alfiere: «Pianta qui la bandiera: qui staremo bene!» Il popolo, accogliendo quella parola come un segno propizio di Giove, decise di non abbandonare più la patria. Nei popoli energici l’avversità ritempra il coraggio. Roma rinacque dalle sue rovine.
I disastri della guerra e dell’incendio avevano impoverito la cittadinanza e più di tutti la plebe; la quale – una volta contratti di nuovo i debiti per ricostruire le case, acquistare il bestiame, gli attrezzi e suppellettili – ricadde sotto il giogo dell’oppressione patrizia. Quindi ricomparvero le proposte agrarie.
Marco Manlio Capitolino
Marco Manlio, il difensore della rocca a cui era stato dato il nome di Capitolino, cittadino patrizio di grande valore e coraggio, venne in soccorso dei poveri con le sue ricchezze, meritandosi il nome di patrono della plebe e riscattando anche dalla prigionia molti infelici debitori. Intorno a lui si accalcava una folla di sostenitori. Il patriziato, sempre geloso e sospettoso di chiunque con provvedimenti di giustizia o di generosità acquistasse autorità presso il popolo, accusò Manlio di cercare il favore popolare per spianarsi la strada al regno. Per ordine di Cornelio Cosso, allora nominato dittatore per la guerra scoppiata con i Volsci, Manlio viene fatto incarcerare.
La plebe insorse e lo liberò. Manlio sembrò inasprirsi d’animo, come se aspirasse davvero alla tirannide e fu accusato da due tribuni di perduellione e portato davanti al popolo. Bastò che Manlio, ricordando le sue imprese e gli onori militari conseguiti, scoprisse le sue cicatrici e indicasse con la mano il Campidoglio da lui salvato: il popolo lo assolse.
Fu accusato di nuovo, ma questa volta il giudizio fu tenuto fuori Porta Flumentana, nel bosco Petelino, da dove il Campidoglio non era visibile. Qui fu data un’assemblea in cui a prevalere era il patriziato. Manlio fu stavolta condannato e venne gettato giù dalla rupe Tarpea. I suoi beni furono confiscati e le case che egli aveva sul Campidoglio (da cui probabilmente il nome di Capitolino) vennero distrutte. Fu proibito ad altri di edificare abitazioni su quel colle; nella gens Manlia più nessuno portò il nome di Marco. La morte del benefattore della plebe rese sempre più inviso il patriziato.
Conseguimento dell’eguaglianza politica
Le leggi Licinie-Sestie
Non dobbiamo intendere la plebe romana nel significato moderno della parola; dobbiamo pensare che in questa parte della cittadinanza, inferiore per diritto rispetto al patriziato, vi erano anche famiglie ricche ed insigni per valore e per virtù cittadine, oltre a quelle umili e povere. Gli interessi della plebe erano di duplice natura.
Ai maggiorenti di essa premeva di conseguire il diritto d’eleggibilità alle cariche ed agli onori dello stato. Per ottenere questo diritto, già da molto tempo si conduceva una dura lotta. I plebei avevano appena conseguito l’elezione alla questura ed al tribunato militare, ed ora aspiravano alla magistratura maggiore, cioè al consolato.
Agli umili ed ai poveri non importava tanto di conseguire il diritto ad onori che non avrebbero né raggiunto né potuto sostenere mai, quanto assai più di trovar sollievo dalle condizioni di miseria in cui essi giacevano. Vi erano dunque, per usare dei termini moderni, una questione politica ed una questione sociale. Le due questioni furono unite nel confluire di comuni interessi, così le plebi, quella ricca come quella povera sostennero concordi le loro rivendicazioni contro il patriziato.
L. Sestio Laterano e C. Licinio Stolone, tribuni della plebe nell’a. 376 a. C. fecero le seguenti proposte: per sollevare le condizioni dei plebei indebitati, si dovevano detrarre dai capitali mutuati gli interessi già pagati ; il debito restante doveva essere saldato in rate per tre anni. Inoltre, chiesero che nessuno potesse possedere più di 500 iugeri di agro pubblico e che la parte rimanente, dopo tale limitazione, fosse divisa fra i poveri. Infine che in luogo del tribunato militare fosse ristabilito il consolato e che dei due consoli, uno dovesse essere eletto fra la plebe.
Le prime due leggi intendevano risolvere la questione sociale; la terza soddisfaceva alla questione politica. Su queste proposte si combatté una lotta estrema; il patriziato guadagnò per sé l’intercessione degli altri tribuni. Ma nello spazio di nove anni consecutivi, la plebe con fermezza e concordia rielesse sempre gli stessi autori di quelle leggi.
All’ultimo il patriziato dovette cedere e finalmente, nell’anno 367 a. C., le leggi Licinie-Sestie furono votate.
Sestio primo console plebeo
Nel 366 si ebbe il primo console plebeo, che fu anche uno degli autori delle leggi, Lucio Sestio Laterano. Camillo con la veneranda autorità di salvatore della patria, si era fatto garante della pace fra patriziato e plebe. In memoria di tale avvenimento si eresse il Tempio alla Concordia. Le barriere della rocca in cui si difendeva il patriziato furono abbattute, la plebe fu assunta agli onori della sedia curule.
La Pretura
Il patriziato, cedendo alle proposte Licinie-Sestie, cercò tuttavia in compenso di salvar parte delle sue prerogative. L’amministrazione della giustizia, ch’era parte della potestà consolare, ne fu separata e confluì in una nuova magistratura detta pretura, la cui eleggibilità fu una prerogativa riservata al patriziato.
Il primo pretore eletto fu Spurio Camillo, figlio del dittatore. Il pretore era in dignità prossimo ai consoli. Eletto dai comizi centuriati, in assenza dei consoli stessi, veniva a lui assegnata la custodia della città e la presidenza del senato. Egli aveva diritto di convocare il popolo nei comizi tributi e aveva sei littori coi fasci.
Principale attribuzione del pretore era l’amministrazione della giustizia per la giurisdizione civile; ma anche per la penale, giacché egli presiedeva i comizi centuriati, che erano costituiti come corte giudiziaria. Il pretore all’entrare in funzione, pubblicava un editto pretorio, esponendo in esso i principi secondo i quali avrebbe amministrato la giustizia, riconfermando le antiche disposizioni e aggiungendone di nuove. Sotto questo aspetto, il pretore partecipava in certa misura al potere legislativo in materia di diritto civile.
Nell’anno 247 a.C. i pretori divennero due, essendo ad uno riservate le controversie dei cittadini (pretore urbano), all’altro le controversie fra cittadini e stranieri, o degli stranieri fra di loro (pretore peregrino). Il numero dei pretori crebbe poi a 4 e ancora a 6. Con Silla si arrivò fino ad 8, con Cesare addirittura a 16.
L’edilità curule
Insieme al tribunato erano stati istituiti gli edili plebei, con la pretura si istituirono gli edili curuli. Per celebrare la pace composta fra i due ordini, venne aggiunto ai grandi ludi romani un nuovo giorno di feste. Per provvedere alle spese della nuova, ampliata festività, giovani patrizi se ne assunsero l’onere. Fu così costituito l’ufficio di due edili curuli, pur esso di esclusivo diritto patrizio.
A quest’ufficio si diedero, insieme con gli edili plebei, le attribuzioni della pulizia e dell’ordine della città, della sorveglianza dei mercati, della cura dell’annona e della direzione dei pubblici spettacoli. Ben presto l’edilità curule fu resa accessibile anche alla plebe. Sebbene nell’anno 366 si fosse avuta l’elezione di un console plebeo, tuttavia fra gli anni 355 e 343 a.C. si ebbero per ben sette volte, contro le leggi Licinie, due consoli patrizi.
Ma a poco a poco, tutte le prerogative patrizie caddero: nel 356 si ebbe l’elezione di un dittatore plebeo, C. Marzio Rutilo e nel 351, di un censore plebeo. Nel 336 la plebe ottenne anche l’idoneità alla pretura con l’elezione di Publilio Filone e finalmente, a cominciare dal 171, le elezioni di due consoli plebei furono assai più frequenti, cosicché ogni distinzione di ceto nelle cariche fu cancellata.
Come le leggi politiche di Licinio e di Sestio, così furono eseguite anche le leggi sui debiti e sulla divisione del terreno pubblico. Ma è doloroso veder ricordato fra coloro che presto infransero la legge agraria, occupando un possesso maggiore di quello acconsentito, vi fosse lo stesso Licinio Stolone, cosa per cui egli fu giustamente punito.
La nobiltà curule
Colle leggi Licinie Sestie comincia una nuova fase, fondata sul principio di uguaglianza civile e politica di tutti i cittadini, la quale però esisteva in teoria non di fatto. Cessata la divisione fra patriziato e plebe, se ne formò una nuova: cioè dei nobili e dei non nobili.
I plebei che venivano assunti alle cariche o come si diceva, agli onori della repubblica, parvero essere con questo insigniti di una particolare dignità e considerazione inerente alle cariche amministrate. Le famiglie serbavano e custodivano con amore ed orgoglio i nomi, i ricordi, i titoli e le immagini degli antenati, che per le cariche sostenute avevano ottenuto in senato il seggio curule.
Le immagini degli avi o dei maggiori, modellate di cera, si conservavano nell’atrio della casa romana, disposte in modo che rappresentassero la discendenza e le rispettive relazioni di parentela. Vi aggiungevano brevi scritti coi singoli nomi e con una menzione delle imprese compiute, degli uffici e degli onori ottenuti. Erano in certo modo degli alberi genealogici, oppure come degli stemmi o dei blasoni. Il diritto di custodire tali imagini e di esporle in occasioni solenni, divenne il titolo di una nuova aristocrazia, ossia della nobiltà curule.
Questa, col procedere del tempo, divenne tanto orgogliosa, gelosa ed opprimente quanto prima era stato il patriziato: con il potere, le ricchezze e le clientele, si costituì in una classe separata e privilegiata, in seno alla quale si perpetuavano le cariche, escludendo quelli che non avessero nobili antenati.
Chi ancora non aveva il diritto delle immagini era non nobile e quand’anche egli fosse riuscito ad arrivare alle magistrature curuli (pretura, consolato, dittatura, censura), ottenendo per primo quel diritto, veniva designato come uomo nuovo (homo novus) e da lui incominciava la nobiltà della sua famiglia. Il primo uomo nuovo fu L. Sestio, il console plebeo del 366.
Questa nobiltà diede alla repubblica uomini di sapienza e di valore, che difesero, ampliarono e ressero bene lo stato. Ma poi, a poco a poco quella stessa aristocrazia, impossessatasi del governo, divenne faziosa e soverchiante. Col nome di ottimati, i nobili costituirono un partito conservatore, col quale la parte democratica e quella popolare vennero allo scontro politico.
(Adattamento da Iginio Gentile. “Storia romana”, 1885)
Le guerre sannitiche videro fronteggiarsi due nascenti potenze d’Italia, la Repubblica Romana, padrona del Lazio e poi della Campania, e la confederazione sannitica, cioé varie tribù del Sannio.
La prima guerra sannitica è un breve conflitto intorno al 343/341 aC. dC che rappresenta il primo passo di Roma fuori dal Lazio e la prima tappa della conquista romana dell’Italia. La seconda guerra sannitica è la più lunga e difficile, coprendo oltre vent’anni, dal 327 al 304 a.C. Infine, la terza guerra sannitica, con una coalizione di vari popoli contro Roma, si estende tra il 298 e il 290 a.C. I sanniti furono alla fine sottomessi e Roma divenne la potenza dominante in Italia.