La dea col turcasso
Artemide, adorata dai Romani sotto il nome di Diana, aveva talmente tanti attributi e di genere così diverso, che sarebbe difficile concepire come essi potessero essere riuniti in una stessa divinità, se non si sapesse che la fervida immaginazione dei Greci amava attribuire ai loro numi i caratteri più opposti.
Nei poemi di Omero e di Esiodo essa è figlia di Zeus e di Leto o Latona, sorella di Apollo e dea della caccia. Correva per i boschi armata di arco e frecce e accompagnata da un gran numero di ninfe. Col suo arco cacciava non solo le fiere del bosco, ma anche gli uomini volendo (intendiamo caccia vera e propria, non solo e non tanto caccia amorosa).
Nelle poesie più antiche viene rappresentata come vergine casta e pura, invincibile con le seduzioni dell’amore. Negli Inni Orfici la troviamo dotata anche di altri attributi: assiste le puerpere, è mitigatrice del dolore, veglia con occhio benigno sulle fatiche dell’uomo e lo favorisce di abbondanti raccolti, nella pace e nella salute.
Pare che in ciò le vengano associate le qualità di Demetra e infatti secondo Eschilo lei era figlia proprio di questa dea. In un tempio a Megalopoli, in Arcadia, la sua statua sorgeva a lato a quella di Demetra ed era vestita della pelle di una cerva, aveva un turcasso o faretra sulle spalle, una lampada in una mano e due serpenti nell’altra (Pausania, Descrizione della Grecia, VIII, 37).
Sacrifici umani?
Presso i poeti tragici greci essa compare sotto un altro carattere, secondo il quale il favore della dea era da ingraziarsi con sacrifici umani: Ifigenia figlia di Agamennone, sarebbe stata la prima vittima immolata dal padre alla dea, mentre secondo Euripide, proprio la figlia di Agamennone, arrivata dalla Tauride in Aulide (tratta in salvo sull’altare dalla stessa Artemide), praticò lei medesima questa usanza nel culto di questa divinità.
L’offesa di Niobe
Era, come tutte le divinità greche, spietata e vendicativa. Quando Niobe, nel corso di una celebrazione sacra si vantò di avere avuto più figli di Leto in questo modo insolente:
“Che follia è mai anteporre dèi solo supposti”, dice, “a quelli che vedete? Perché mai si onora Latona sugli altari e non si degna d’incenso il mio nume? Figlia di Tantalo sono, l’unico a cui fu concesso di sedere alla mensa degli dei. Sorella delle Pleiadi è mia madre; il grandissimo Atlante, che regge sul collo la volta celeste, è mio nonno; Zeus l’altro mio nonno, che in più mi glorio d’avere come suocero.
Temuta sono dalle genti di Frigia e signora della reggia di Cadmo; le mura sorte al suono della cetra di mio marito sono rette, con chi vi vive dentro, da me e dal mio uomo. In qualunque parte della casa io volga gli occhi, si ammirano immense ricchezze; a ciò si aggiunga la bellezza mia, degna veramente di una dea, e in più sette figlie, altrettanti maschi e presto generi e nuore.
Chiedetevi ora se il mio orgoglio non abbia ragione d’essere, e non permettetevi di preferirmi Latona, nata da Ceo, un Titano qualunque, Latona, a cui per sgravarsi, la terra pur vastissima negò a quel tempo il più piccolo luogo. Né in cielo né in terra né in mare fu accolta la vostra dea; bandita dal mondo, se ne andava errabonda, finché impietositasi Delo le disse: “Straniera tu vaghi sulla terra, io sul mare”, e le offrì un malfermo approdo.
Così divenne madre di due figli: un settimo di quelli che ho partorito io! Sono felice: chi mai potrebbe negarlo? e sempre lo sarò: anche di ciò chi può dubitarne? L’abbondanza mi rassicura. Troppo grande sono perché la Fortuna mi possa nuocere: anche se molto mi togliesse, molto di più dovrebbe lasciarmi.
La mia prosperità allontana i timori. Mettiamo pure che da questa folla di figli me ne venga sottratto qualcuno: per quanto spogliata, mai sarò ridotta ad averne solo due, come Latona. Che differenza c’è fra lei e chi non ha figli? Via, andatevene da questa cerimonia e toglietevi il lauro dai capelli!”.
(Ovidio, Metamorfosi VI)”
la punizione fu inesorabile, Apollo e Artemide, abbatterono a colpi di frecce tutti i suoi figli. Niobe rimase davvero impietrita dal dolore, tanto che gli Dei, la mutarono appunto in roccia, restando per sempre a piangere i suoi quattordici figli assassinati.
“Sono salito sul monte Sipilo e vidi la Niobe: vista da vicino, questa rupe non sembra certamente l’immagine di una donna che piange; ma guardandola da lontano invece, par di riconoscere effettivamente una figura in lacrime.
(Pausania, Descrizione della Grecia I, 21, 3)”
Orione: gelosia incestuosa di Apollo, rifiuto del matrimonio o tentativo di stupro?
Orione era figlio del titano Gaia e Poseidone. La leggenda narra che Orione fosse un cacciatore di giganti, amava Artemide e la voleva sposare. Ma Apollo era infastidito da una tale vicinanza tra i due, poiché sua sorella aveva giurato di essere vergine per sempre. Quindi aveva allertato Artemide.
Di solito Impeccabile nella mira, stavolta la dea colpì il suo amante, che stava fuggendo da uno scorpione che Gaia aveva mandato per ucciderlo. Il corpo morente di Orione fu riportato a riva da Poseidone. Rendendosi conto dell’errore commesso, Artemide, tra le lacrime, chiese a Zeus di collocare Orione e lo scorpione tra le stelle: il gigante vestito di una cintura, con indosso la pelle di leone, armato di spada e della sua mazza è accompagnato da Sirio, il suo cane, mentre fugge dallo Scorpione (Sirio è la stella più luminosa del cielo e si trova nella costellazione del Cane Maggiore, vicino alla costellazione di Orione).
Un’altra versione sostiene che Orione cercò di violentare la dea Artemide. Per punirlo, Artemide stessa gli fece mordere il tallone da uno scorpione gigantesco, uccidendolo. Per il servizio reso alla dea, lo scorpione fu trasformato in una costellazione, a simboleggiare la rabbia di Artemide per essere stata minacciata di stupro o, secondo alcune versioni, per aver rifiutato di avere un rapporto sessuale.
Esiste ancora un’altra leggenda alternativa in cui Orione era solo un cacciatore, figlio degli dei, ma pur sempre mortale. Egli si innamora di Artemide, che ricambia il suo amore, ma un sempre geloso Apollo lancia uno scorpione gigante all’inseguimento del ragazzo per ucciderlo. Mentre é in spiaggia con la sorella, Apollo la sfida a colpire un punto nero nell’oceano, insinuando che non sia brava quanto lui come arciere. Artemide recrimina con orgoglio di essere la migliore e tendendo l’arco con la freccia prepara il tiro, colpisce il bersaglio. Il mare si tinge subito di rosso e il corpo morente di Orione viene portato a riva dalla risacca, dove la dea lo prende tra le braccia, piangendo profusamente e chiedendo il suo perdono.
Fu allora che pregò suo padre, Zeus, di elevare Orione alle stelle (secondi altri, lei stessa lo trasforma in un astro) assegnando il giovane alla costellazione di Orione. Gli giurò amore eterno e che da quel momento in poi non si sarebbe più innamorata, voltando le spalle agli uomini. Un po’ come Orfeo fece nei confronti delle donne, dopo aver perso per sempre Euridice. È da qui che nacque la sua avversione per il sesso maschile, spinta dal suo odio per Apollo, poiché gli aveva mostrato che l’uomo può essere un grande ingannatore e un bugiardo.
Ma c’è anche chi racconta che fu Apollo invece, in un impeto di gelosia per via dell’amore tra i due, Artemide e Orione, che fece impazzire il cacciatore, risvegliando in lui un’estrema sete di sangue, finché non fu ucciso da uno scorpione gigante. Fu allora che, addolorata, Artemide trasformò il suo amato cacciatore in una stella per onorare la sua memoria.
Atteone: il guardone punito
Atteone era figlio di Aristeo e di Autonoe, un giorno stava cacciando nella foresta: vide Artemide nuda, accompagnata da ninfe, mentre faceva il bagno in un lago (o in una sorgente). Famosa per la sua castità, Artemide si indignò, si bagnò le mani e gettò dell’acqua sul cacciatore, trasformandolo in un cervo o in una gazzella per poi farlo sbranare dai suoi stessi cani, che ovviamente non lo riconobbero.
“Mentre Artemide fa il bagno nella fontana di Gargafia, Atteone vagando incerto in questo boschetto a lui sconosciuto, giunge nel recinto sacro, portato via dal destino che ve lo conduce. Appena entrato nella grotta dove scorre un’onda fugace, le ninfe, vedendolo, rabbrividiscono all’apparire nuda della dea, si battono il petto, fanno risuonare la foresta con le loro grida e si affrettano intorno alla diva per rapirla a occhi indiscreti.
Ma, più alta delle sue compagne, la dea sporgeva con tutta la testa sopra di esse. Come la sera una nuvola si colora dei fuochi del sole che scende all’orizzonte; o come brilla al mattino l’incarnato dell’aurora nascente, tale era il rossore della carnagione di Artemide, esposta senza veli allo sguardo di un mortale. Anche se le sue compagne sono in cerchio intorno a lei, ella gira dall’altra parte il suo volto augusto. Se avesse in mano il suo arco e le sue frecce rapide! In mancanza di esse, si arma dell’onda che le scorre sotto gli occhi; e gettando quest’acqua vendicativa sulla fronte di Atteone, pronuncia queste parole, presagi di imminente sventura:
“Vai ora e dimentica di aver visto Artemide al bagno. Se puoi, acconsento”. Dice e all’improvviso sulla testa del principe sorgono rami; il suo collo si allunga; le sue orecchie si alzano; le sue mani sono piedi; le braccia, le gambe affusolate e tutto il suo corpo è coperto di pelle chiazzata. A questi rapidi cambiamenti la dea aggiunge la paura. Fugge egli; e nella sua corsa si stupisce della sua leggerezza. Appena in acque limpide vede riflesso il suo nuovo volto: disgraziato che sono! voleva esclamare; ma non ha più voce. Gemeva e quella era la sua lingua. Lunghe lacrime gli scorrevano lungo le guance, che non avevano più la loro forma originaria. Ahimè! aveva preservato dell’uomo solo la ragione.
Cosa farà questo sfortunato? tornerà al palazzo dei suoi padri? la vergogna gli impedisce di farlo. Si nasconderà nelle foreste? la paura lo trattiene. Mentre stava deliberando, i suoi cani lo videro. Melampo, nato a Creta e l’abile Icnòbate, venuti da Sparta, danno il primo segnale con i loro latrati. Improvvisamente, più veloci del vento, accorrono tutti gli altri. Pànfago, Dorceo e Orìbaso, tutti e tre dell’Arcadia; l’orgoglioso Nebròfono, il crudele Terone, seguito da Lelape; il leggero Pterela, Agre, abile a ritrovare le tracce di selvaggina; Ileo, recentemente ferito da un feroce cinghiale; Nape generato da un lupo; Pemenide, che un tempo camminava a capo delle mandrie; Arpia, seguita dai suoi due figli; Ladone, di Sicione, dai fianchi stretti; e Dromade, Canace, Sticte, Tigri, Alce e Leucone, il cui candore è uguale a quello della neve; il nero Asbolo, e il vigoroso Lacone; i veloci Aello e Mille; Licisca, e suo fratello il cipriota; Arpalo, con la fronte nera macchiata di bianco; Melaneo, Lacne, dai capelli ispidi; Labro, Agriodo e Ilactore dalla voce stridula, tutti e tre nati da padre cretese e madre laconica; e infine tutti gli altri che ci vorrebbe troppo tempo per nominare.
Questo branco, portato via dall’ardore della preda, insegue Atteone e si precipita attraverso le montagne, attraverso le rocce scoscese o senza via. Atteone fugge, inseguito in questi stessi luoghi dove tante volte ha inseguito le schiere delle foreste. Ahimè! lui stesso fugge i suoi fedeli compagni; vorrebbe gridare loro: “Io sono Atteone, riconosci il tuo padrone”. Ma non riesce più a far sentire la sua voce. Tuttavia, innumerevoli latrati fanno risuonare l’aria. Melanchete gli infligge la prima ferita alla schiena; Terodama poi lo morde; Oresitrofo lo colpì alla spalla. Erano partiti per ultimi all’inseguimento, ma seguendo i sentieri di montagna erano arrivati per primi.
Mentre arrestano lo sfortunato Atteone, il branco arriva, piomba su di lui, lo fa a pezzi e presto su tutto il suo corpo non c’è più spazio per ulteriori ferite. Geme e i suoni lamentosi che emette, se differiscono dalla voce dell’uomo, non assomigliano nemmeno a quello del cervo. Riempie con le sue grida questi luoghi che ha percorso tante volte; e come un supplicante, piegando il ginocchio, ma incapace di stendere le braccia, gira silenziosamente intorno a sé il suo capo languido.”
(Ovidio, Metamorfosi III)
Diodoro Siculo presenta un’altre versione: Atteone avrebbe offerto il frutto della sua caccia al tempio di Artemide e avrebbe tentato di chiederla in sposa nel suo tempio o si sarebbe vantato di essere un cacciatore migliore della dea. Anche qui fu poi inseguito dai suoi stessi cani da caccia che finirono per dilaniarlo, uccidendolo. I cani, dopo la sua morte, guairono di dolore per la scomparsa del padrone. Allora, il centauro Chirone, impietosito, creò una statua con le fattezze di Atteone.
Tempio e culto
A Sparta c’era un tempio di Artemide Ortia in cui si mostrava una vecchia statua di legno che si diceva essere stata portata proprio da Ifigenia e sebbene in tempi meno antichi non le si facessero più sacrifici umani, la sete di sangue che si attribuiva alla dea veniva soddisfatta da una severa flagellazione della gioventù spartana davanti alla sua statua (Paus. II 16).
Il culto di Artemide era generalmente sparso per tutta la Grecia, ma essa era più radicato presso gli Arcadi se dobbiamo giudicare dalle numerose divinità a lei associate che si trovano nel loro distretto. In questi luoghi quasi ogni altura, fontana, fiume aveva un eponimo a lei riferito, cosicché il poeta greco Alcmane che fiori probabilmente nel 672 a.C., scrisse che la dea ha donato il suo nome a diecimila montagne, città e fiumi. Viene infatti chiamata amnium domina (signora dei fiumi) da Catullo, λιμένεσσιν ἐπίσκοπος (protettrice dei porti) in Callimaco.
Nell’arte
Artemide era un soggetto prediletto degli artisti della Grecia: generalmente rappresentata come cacciatrice, colma di tutta la freschezza e di il vigore della gioventù nello stile antico, generalmente vestita con una stola.
Gli artisti, in generarle, seppero darle un’immagine di figura slanciata e ben proporzionata. Nelle opere degli scultori Scopas, Prassitele e Timoteo, Artemide era rappresentata come Apollo, con forme sottili, piccoli seni, senza la pienezza della maturità.
L’aspetto è quello appunto di un Apollo, temperato da un’espressione più soave e con capelli più lunghi, talvolta legati sopra la fronte, ma più spesso raccolti in un viluppo dietro o in cima al capo, alla maniera peculiare dei Dori.
L’abbigliamento, una vesta dorica (Χιτών), rialzata e succinta o stesa fino ai piedi, i calzari ai piedi alla maniera alla cretese. Talvolta giace ai suoi piedi un cervo morto o moribondo.
È questione ancora dibattuta se essa sia stata in origine un’unica dea o piuttosto, si trattasse di più divinità distinte l’una dall’altra e poi ridotte ad attributi di Artemide, ma quest’ultima non è un’ipotesi del tutto improbabile. Essa è forse la stessa divinità adorata col nome di Bubasti dagli Egizi, dea-gatta eponima dell’antica città, oggi Tell Basța.
(Fonte: Nuova Enciclopedia Popolare, 1841 – con aggiunte e integrazioni)