Momo, figlio di Nyx, era il dio o lo spirito personificato (daimon) della derisione, del ridicolo, del biasimo e del disprezzo, che si dilettava a criticare con amaro sarcasmo le azioni degli dèi e degli uomini e si sforzava di scoprire in ogni cosa qualche difetto o qualche macchia (Hes. Theog. 214). Fu espulso dal cielo da Zeus per aver ridicolizzato tutte le divinità. Il nume opposto a Momos era Eupheme (la Lode).
Quando Prometeo creò il primo uomo, Momo considerò la sua opera incompleta perché non aveva pensato a fornirgli anche una piccola apertura nel petto attraverso la quale si potessero leggere i suoi pensieri più intimi (Luciano, Hermotim. 20.). Trovò da ridire anche su una casa fatta costruire da Atena perché, sprovvista di mezzi di locomozione, non poteva mai essere spostata da una località malsana. Solo Afrodite sfidò la sua critica, perché, con suo grande dispiacere, egli non poté trovare difetti nelle sue forme perfette (Philostr. Ep. 21).
Non si sa in che modo gli antichi rappresentassero questo dio. Nell’arte moderna è raffigurato come un giullare del re, con berretto e campanelli.
“La storia racconta che Zeus, Poseidone e Atena stavano discutendo su chi potesse fare qualcosa di veramente buono. Zeus fece il più eccellente di tutti gli esseri viventi, l’uomo, mentre Atena fece una casa in modo che la gente potesse viverci, e, quando fu il suo turno, Poseidone fece un toro. Momo (Momus, il brontolone) fu scelto per giudicare la competizione, perché a quel tempo viveva ancora tra gli dei. Dato che Momo era incline a disprezzarli tutti, cominciò subito a criticare il toro perché non aveva occhi sotto le corna per permettergli di prendere la mira quando incornava qualcosa; criticò l’uomo perché non gli era stata data una finestra sul suo cuore in modo che il suo prossimo potesse vedere cosa stava progettando; e criticò la casa perché non era stata fatta con ruote di ferro alla sua base, che avrebbero reso possibile ai proprietari della stessa di spostarla da un posto all’altro quando andavano in viaggio.”
Esopo, Favole 518 (da Babrio 59) [N.B. Parti di questa favola sono citate in Ateneo, Deipnosophistae 15.50 – l’assenza di una finestra sul cuore – e in Aristotele, Parti di animali 3.2 – il toro e le sue corna].
(Libera rielaborazione e adattamento da E. M. Berens. “The Myths and Legends of Ancient Greece and Rome”, 1880)