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ADE, IL SIGNORE DEI MORTI

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Ade o Hade, era il figlio di Crono e Rea, e il fratello minore di Zeus e Poseidone. Era il sovrano di quella regione sotterranea, chiamata anche essa Ade, che era abitata dalle ombre o dagli spiriti dei morti, ma anche da quelle divinità detronizzate ed esiliate che erano state sconfitte da Zeus e dai suoi alleati. Ade, il cupo e tetro monarca di questo mondo inferiore, era il successore di Erebo, l’antica divinità primordiale da cui questi regni prendevano uno dei loro nomi.

I primi Greci consideravano Ade come il loro più grande nemico; Omero ci dice che egli era “di tutti gli dei il più detestato”, essendo ai loro occhi il cupo spirito che sottraeva agli uomini le persone più vicine e più care, e alla fine privava ognuno di essi della loro stessa esistenza terrena. Il suo nome era così temuto che non veniva mai menzionato dai mortali, i quali, quando lo invocavano, colpivano la terra con le mani e nel sacrificare a lui, distoglievano lo sguardo.

La anime dei morti

La credenza del popolo riguardo alle condizioni delle anime nell’oltretomba, in epoca omerica, era che esse giacessero in uno stato di perenne tristezza, prive di ogni possibilità di beatitudine. Si supponeva che quando un mortale cessava di esistere, il suo spirito occupava l’ombra della forma umana che aveva lasciato. Questi spiriti, o appunto ombre come erano chiamate, erano guidate da Ade nei suoi domini, dove vi trascorrevano l’eternità; alcuni rimuginando sulle vicissitudini della fortuna che avevano vissuto sulla terra, altri rimpiangendo i piaceri perduti che avevano goduto in vita, ma tutti in una condizione di semicoscienza, dalla quale l’intelletto poteva essere risvegliato alla piena attività solo bevendo il sangue dei sacrifici offerti alle loro ombre dagli amici viventi, che, per un certo tempo, li dotava del loro antico vigore mentale.

Gli unici esseri che si supponeva potessero godere di una qualche felicità in uno stato futuro erano gli eroi, i cui atti di audacia e di prodezza avevano, durante la loro vita, consentito loro di essere ricordati con onore nella terra in cui erano nati; ma anche questi, secondo Omero, si struggevano dopo aver esaurito la loro vita terrena. Egli ci dice che quando Odisseo visitò il mondo inferiore per ordine di Circe, ed entrò in contatto con le ombre degli eroi della guerra di Troia, Achille gli confessò che avrebbe preferito essere il più povero dei servi sulla terra piuttosto che regnare sul regno delle ombre.

Ade e Cerbero

Ma come era il regno di Ade?

I primi poeti greci non offrono che scarse allusioni all’Ade. Omero sembra intenzionalmente avvolgere questi regni nella vaghezza e nel mistero, al fine, probabilmente, di aumentare la sensazione di timore inseparabilmente connesso con il mondo degli inferi. Nell’Odissea egli descrive l’ingresso dell’Ade come se fosse oltre l’estremo lembo dell’Oceano, nel lontano ovest, dove vivevano i Cimmeri, avvolti da nebbie e tenebre eterne.

In tempi successivi, tuttavia, in conseguenza dei sempre più crescenti rapporti con le nazioni straniere, vennero gradualmente introdotte delle nuove idee anche sull’Oltretomba.

Troviamo dunque l’influenza, per esempio, delle teorie egiziane riguardo la vita nell’Aldilà, mettere radici anche in Grecia, e alla fine diventare la credenza religiosa dell’intera nazione.

È il momento in cui i poeti e i filosofi, e soprattutto i maestri dei Misteri Eleusini, cominciano a inculcare la dottrina della futura ricompensa e della punizione delle buone e delle cattive azioni. Ade, che fino ad allora era stato considerato come il temibile nemico degli uomini – colui che si diletta nel suo lugubre ufficio e tiene le ombre imprigionate nei suoi domini, dopo averle sottratte alle gioie dell’esistenza – ora le riceve con ospitalità e amicizia, ed Hermes lo sostituisce come guida delle ombre negli inferi.

Sotto questo nuovo aspetto, Ade usurpa le funzioni di una divinità totalmente diversa, chiamata Pluto (il dio delle ricchezze), ed è ormai lui ad essere considerato come il dispensatore della fortuna agli uomini, sotto forma di quei metalli preziosi che si nascondono nelle viscere della terra.

Gli ingressi dell’Ade e i suoi fiumi

I poeti successivi menzionano vari ingressi all’Ade, che erano per lo più grotte e fessure. Ce n’era una nella montagna di Tenaro, un’altra in Tesprozia, e una terza, la più celebre di tutte, in Italia, vicino al pestifero lago d’Averno, sul quale si dice che nessun uccello potesse volare, tanto erano nocive le sue esalazioni.

Nei domini di Ade c’erano quattro grandi fiumi, tre dei quali dovevano essere attraversati da tutte le ombre. Questi tre erano l‘Acheronte (il dolore), il Cocito (lamento) e lo Stige (l’intensa oscurità), il fiume sacro che scorreva nove volte intorno a questi regni.

Caronte, il barcaiolo

Le ombre erano traghettate sullo Stige dal vecchio e arcigno barcaiolo Caronte, che però prendeva solo quelli i cui corpi avevano ricevuto i riti funebri sulla terra, e che avevano portato con loro il suo indispensabile pedaggio, che era una piccola moneta o obolo, solitamente posto sotto la lingua di una persona morta per questo scopo. Se queste condizioni non erano state soddisfatte, le ombre infelici venivano lasciate indietro a vagare su e giù per le rive per cento anni come spiriti inquieti.

La Barca di Caronte - Jose Benlliure y Gil, 1912

Minosse: signori entra la corte

Sulla riva opposta dello Stige c’era il tribunale di Minosse, il giudice supremo, davanti al quale tutte le ombre dovevano comparire: dopo aver ascoltato la piena confessione delle loro azioni sulla terra, pronunciava per quelle anime la sentenza di felicità o di miseria che essi stessi avevano meritato.

Attenti al cane

Questo tribunale era sorvegliato dal terribile cane a tre teste Cerbero, che, con i suoi tre colli irti di serpenti, giaceva su tutta la lunghezza del terreno; – una sentinella formidabile, che permetteva a tutte le ombre di entrare, ma a nessuna di tornare sulla terra.

Cerbero

I beati

Gli spiriti felici, destinati a godere delle delizie dell’Elisio, uscivano a destra e si dirigevano verso il palazzo dorato dove Ade e Persefone tenevano la loro corte reale; da questi ricevettero un gentile saluto, prima di partire per i Campi Elisi che si trovavano oltre. Questa regione beata era piena di tutto ciò che poteva soddisfare i sensi o compiacere l’immaginazione; l’aria era mite e profumata, i ruscelli increspati scorrevano tranquillamente attraverso i prati sorridenti, che brillavano con le varie tonalità di mille fiori, mentre i boschetti risuonavano dei gioiosi canti degli uccelli. Le occupazioni e i divertimenti delle ombre felici erano della stessa natura di quelli di cui si erano dilettati sulla terra. Qui il guerriero trovava i suoi cavalli, i suoi carri e le sue armi, il musicista la sua lira e il cacciatore la sua faretra e il suo arco.

Il Lete

In una valle appartata dell’Elisio scorreva un ruscello dolce e silenzioso, chiamato Lete (oblio), le cui acque avevano l’effetto di dissipare tutte le preoccupazioni e produrre una totale dimenticanza degli eventi della vita precedenti. Secondo la dottrina pitagorica della trasmigrazione delle anime, si supponeva che le ombre, dopo aver abitato l’Elisio per mille anni, fossero destinate ad incarnarsi in altri corpi sulla terra, e prima di lasciare i Campi Elisi, bevevano dal fiume Lete, affinché potessero intraprendere la loro nuova esistenza senza alcun ricordo del passato.

I dannati

Le anime colpevoli, dopo aver lasciato la presenza di Minosse, venivano condotte nella grande sala del giudizio di Ade, le cui massicce mura di solido adamante erano circondate dal fiume Flegetonte, le cui onde facevano rotolare fiamme di fuoco e illuminavano, con il loro luccicante bagliore, questi terribili regni. All’interno sedeva il temibile giudice Radamanto, che dichiarava a ciascuno dei condannati i precisi tormenti che lo attendevano nel Tartaro. I miserabili peccatori erano allora afferrati dalle Furie che li flagellavano con le loro fruste, trascinandoli fino alla grande porta che chiudeva l’apertura del Tartaro, nelle cui terribili profondità venivano scagliati, per soffrire torture senza fine.

Il Tartaro

Il Tartaro era una distesa vasta e tetra, tanto al di sotto dell’Ade quanto la terra è lontana dal cielo. Lì i Titani, decaduti dal loro alto rango, si trascinavano in un’esistenza tetra e monotona; c’erano anche Otus ed Efialte, quei giganteschi figli di Poseidone, che, con mani empie, avevano tentato di scalare l’Olimpo e di detronizzare il loro potente sovrano. I principali tra i i dannati sofferenti in questa dimora delle tenebre erano Tizio, Tantalo, Sisifo, Issione e le Danaidi.

Dante, Inferno, Canto 18, Gustave Dorè

Le pene dell’Inferno

Tizio, uno dei giganti nati sulla terra, aveva tentato di violentare Latona nel bosco di Panopeo, per cui Zeus lo gettò nel Tartaro, dove subì una terribile tortura, inflitta da due avvoltoi, che gli rosicchiavano continuamente il fegato.

Tantalo era un saggio e ricco re della Lidia, il quale godeva della personale amicizia degli stessi dèi. Gli fu persino permesso di sedere a tavola con Zeus, che si dilettava nella sua conversazione e ascoltava con interesse la saggezza delle sue parole. Tantalo, tuttavia, esaltato da questi segni distintivi del favore divino, approfittò della sua posizione e violò in vari modi il vincolo dell’ospitalità, oltre offendere perfino Zeus stesso con varie azioni; rubò anche nettare e ambrosia dalla tavola degli dei, con cui deliziava i suoi amici. Ma il suo più grande crimine consistette nell’uccidere il proprio figlio, Pelope e di servirlo in uno dei banchetti agli dèi, per testare la loro onniscienza.

Per queste efferatezze fu condannato da Zeus alla punizione eterna nel Tartaro, dove, torturato da una sete sempre bruciante, fu immerso fino al mento in un lago: ogni volta che tentava di bere, l’acqua si allontanava sempre più dalle sue labbra riarse. Alberi alti, con grossi rami carichi di frutti deliziosi, pendevano allettanti sopra la sua testa; ma non appena egli si sollevava per afferrarli, ecco che subito cominciava a soffiare un vento che li portava oltre la sua portata.

Sisifo era un grande tiranno che, secondo alcuni racconti, compì numerosi delitti, rivelò una relazione segreta di Zeus e fu autore di altri gravi inganni. Come punizione per la sua tracotanza fu condannato a spingere incessantemente un enorme blocco di pietra su per una collina ripida, che, non appena raggiungeva la cima, rotolava sempre di nuovo verso la pianura sottostante.

Issione era un re della Tessaglia al quale Zeus accordò il privilegio di partecipare ai banchetti festivi degli dei; ma, approfittando della sua posizione di privilegio, l’uomo tentò di violare Era, o una nuvola con le sembianze delle dea: Zeus, infuriato oltre ogni modo, lo colpì con le sue saette e ordinò a Hermes di gettarlo nel Tartaro e di legarlo ad una ruota sempre in movimento.

Le Danaidi erano le cinquanta figlie di Danao, re di Argo, che avevano sposato i loro cinquanta cugini, figli di Egitto. Per ordine del loro padre, che era stato avvertito da un oracolo che il genero avrebbe causato la sua morte, uccisero tutte i loro mariti in una notte, ad eccezione della sola Ipermnestra che non si macchiò di tale crimine. La loro punizione nel mondo inferiore fu di riempire d’acqua un vaso pieno di buchi, un compito infinito e inutile.

L’aspetto di Ade

Ade è solitamente rappresentato come un uomo di età matura e dall’aspetto severo e maestoso, con una sorprendente somiglianza con suo fratello Zeus; ma l’espressione cupa e inesorabile del viso contrasta forzatamente con quella particolare benignità che caratterizza il volto del potente sovrano del cielo. Possiede una barba folta, lunghi capelli neri fluenti che pendono dritti sulla sua fronte; nella sua mano porta un forcone a due punte o le chiavi del mondo inferiore, e ai suoi piedi siede Cerbero. Egli è seduto su un trono di ebano, con accanto la sua regina, la grave e triste Persefone. A volte è alla guida di un carro d’oro, trainato da quattro cavalli neri, e porta in testa un elmo fatto per lui dai Ciclopi, che rende invisibile chi lo indossa. Questo elmo è stato spesso prestato a mortali e immortali.

Culto

Ade, che era universalmente venerato in tutta la Grecia, aveva templi eretti in suo onore ad Elea, Olimpia ed anche ad Atene.

I suoi sacrifici, che avvenivano di notte, prevedevano come vittime delle pecore nere, e il sangue, invece di essere cosparso sugli altari o ricevuto in recipienti, come in altri sacrifici, veniva fatto scorrere giù in una fossa, scavata per questo scopo. I sacerdoti officianti indossavano vesti nere ed erano coronati di cipresso.

Il narciso, i capelli di fanciulla e il cipresso erano sacri a questa divinità.

Plutone

Prima dell’introduzione a Roma della religione e della letteratura greca, i Romani non credevano in un regno di felicità o miseria futura corrispondente all’Ade greco; perciò non avevano un dio del mondo inferiore identico ad Ade.

Supponevano che ci fosse, al centro della terra, una cavità vasta, tetra e impenetrabile chiamata Orco, che formava un luogo di riposo eterno per i morti.

Ma con l’introduzione della mitologia greca, l’Orco romano divenne l’Ade greco, e tutte le nozioni greche riguardo alla vita dopo la morte passarono quasi immutate ai Romani, che veneravano Ade sotto il nome di Plutone; i suoi altri appellativi erano Dis (da dives, ricco) e Orcus, dai domini su cui regnava. A Roma non c’erano templi eretti a questa divinità.

(Libera rielaborazione da E. M. Berens. “The Myths and Legends of Ancient Greece and Rome”, 1880,)

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