Il ritorno di Odisseo a Itaca
Travestito da mendicante dalla benevola cura di Atena, Odisseo cercò l’umile dimora di Eumeo, suo porcaro, e da lui apprese tutto ciò che voleva sapere su sua moglie e suo figlio. Seppe che Penelope era insistentemente assediata da corteggiatori, i quali già ora banchettavano e si divertivano nel suo palazzo come usurpatori, e dal quale si rifiutavano di sloggiare finché non avesse scelto un secondo marito.
Anche Telemaco, ormai divenuto un giovane uomo, era indignato e pieno di rabbia per via della condotta dei Proci, i principi pretendenti al trono di Itaca, e guidato e accompagnato dal suo tutore Mentore, era partito alla ricerca del padre che non poteva credere fosse morto.
Suo mentore era in realtà ancora Atena travestita, che guidò il giovane alle corti di Nestore e Menelao, e infine in sogno gli ordinò di tornare a Itaca, dove avrebbe trovato il genitore che tanto cercava. Il giovane principe subito obbedì, e sbarcò presso la capanna di Eumeo, sottraendosi ad un’abile agguato ai suoi danni, organizzato dai pretendenti all’ingresso del porto.
Atena ora permise al padre e al figlio di riunirsi, nonostante i vent’anni di separazione, e insieme progettarono il modo migliore per punire gli insolenti usurpatori. Alla fine concordarono che Telemaco tornasse a palazzo e non facesse alcuna menzione del ritorno di suo padre; mentre Odisseo, ancora nelle vesti di un mendicante, sarebbe dovuto entrare in casa sua e chiedere la consueta ospitalità.
Tutto venne eseguito come previsto.
Nessuno riconobbe l’eroe tanto atteso nel miserabile vecchio mendicante, nessuno tranne la sua anziana nutrice Euriclea e il suo fedele vecchio cane Argo, che morì di gioia ai piedi del suo signore perduto da tempo.
Mentre su Argo la notte nera della morte
giunse all’improvviso non appena ebbe visto
Odisseo, ormai assente da vent’anni.Omero, Odissea, XVII
La tela di Penelope
Penelope, udito che un estraneo era entrato nel suo palazzo, lo mandò a chiamare per chiedergli se sapeva qualcosa di suo marito. Anche lei non riuscì a riconoscere Odisseo sotto il suo travestimento. La regina continuava a lavorare ad un’opera che aveva abilmente ideato per confondere i suoi corteggiatori: spinta insistentemente a risposarsi, avevauna volta risposto che l’avrebbe fatto non appena avesse finito di tessere la sua tela.
Siccome era abile nell’arte dell’ordito, i Proci, pretendenti alla sua mano e al trono di Itaca, si aspettavano che presto ella avrebbe preso la sua decisione, non sapendo che di notte Penelope disfaceva tutta la tela che aveva così accuratamente tessuto durante il giorno.
Per tre anni interi
aveva agito così, e con l’inganno aveva raggirato
i giovani Greci.Omero, Odissea, XIX
L’arco di Odisseo
Alla fine suo il sotterfugio venne scoperto, e la disgraziata Penelope fu costretta a finire la sua opera; ma prima che fosse tutto compiuto, trovò un altro espediente per rimandare la scelta di un nuovo marito. Portò l’arco di Odisseo e annunciò che avrebbe sposato l’uomo che poteva piegarlo e lanciare una freccia attraverso dodici anelli posti a questo scopo.
Vi porto
il possente arco che apparteneva al grande Odisseo.
Chiunque tra voi possa maneggiarlo, la cui mano
piegherà questo arco stesso e scoccherà attraverso questi dodici anelli
una freccia, lui io seguirò da ora, e lascerò
questa bella dimora dei miei giovani anni,
con tutta la sua ricchezza, sebbene la sua memoria,
io penso, mi perseguiterà anche nei miei sogni.Omero, Odissea, XIX
Morte degli usurpatori
Tutti i pretendenti si sforzarono invano di piegare il possente arco, che fu poi afferrato da Odisseo travestito, mentre i giovani ridevano ad alta voce di scherno e disprezzo, finché Telemaco ordinò loro di far provare le sue forze al vecchio. Con stupore di tutti, Odisseo compì facilmente l’impresa richiesta; e poi, volgendo la mira verso Antinoo, il più bello e il capo di tutti i traditori pretendenti al trono, gli trafisse il cuore.
Seguì una scena di selvaggio furore, in cui Odisseo, Telemaco, Eumeo e Atena travestita da Mentore, si scagliarono sui Proci, uccidendoli tutti. Penelope, inconsapevole di tutto questo spargimento di sangue, dormiva nella sua stanza, finché fu dolcemente svegliata da Euriclea, che annunciò il ritorno del marito da tempo assente.
Svegliati, Penelope, cara fanciulla, e guarda
con i tuoi stessi occhi ciò per lui a lungo tu ti sei struggita.
Odisseo è tornato; il tuo signore è qui, anche
se in ritardo, e ha ucciso l’arrogante ciurma
di corteggiatori, che ha disonorato la sua casa, che puntava
alla sua ricchezza come a un bottino e che ha osato insultare suo figlio.Omero, Odissea, XXII
Ma Penelope aveva creduto troppo a lungo che suo marito fosse morto per credere a questa meravigliosa notizia; e fu solo dopo che Odisseo le ebbe dato una prova infallibile della sua identità, dicendole un segreto che era condiviso da lei sola, che lo ricevette. Penelope infatti ordinò alla servitù di spostare il letto nuziale, ma Odisseo intervenne affermando che ciò sarebbe stato impossibile: quel letto era stato fabbricato da lui stesso, in gioventù, intagliato utilizzando un enorme tronco di albero, attorno al giaciglio aveva poi costruito tutta l’intera reggia.
L’ultimo viaggio di Odisseo
Odisseo era ora al sicuro a casa, dopo vent’anni di guerre e di avventure, e dapprima godette grandemente la quiete e la pace della sua vita familiare; ma dopo un po’ queste gioie domestiche gli vennero a noia, e decise di riprendere le sue peregrinazioni.
Quindi preparò una flotta e salpò “verso l’Occidente”, da dove non tornò mai più. I Greci, tuttavia, affermavano che era andato alla ricerca delle Isole dei Beati, dove dimorava in perfetta pace, e godeva della costante compagnia di eroi coraggiosi e famosi come lui.
Venite, amici miei,
non è troppo tardi per cercare un mondo nuovo.
Spingetevi, e seduti in buon ordine, battete coi remi
i solchi sonori, perché il mio scopo è quello di
di navigare oltre il tramonto e là dove si bagnano
tutte le stelle occidentali, fino alla morte.
Può darsi che i golfi ci sommergano:
Forse toccheremo le Isole Felici,
e vedremo il grande Achille, che abbiamo conosciuto.
Anche se molto è stato conquistato, molto rimane; e anche se
non siamo ora quella forza che fummo nei tempi passati
che un tempo muoveva la terra e il cielo, quello che siamo, siamo;
un’uguale tempra di cuori eroici,
resi deboli dal tempo e dal destino, ma forti nella volontà
di lottare, di cercare, di trovare e di non cedereTennyson, Ulisse
L’Ulisse di Dante
Dante e Virgilio, nel Canto XXVI dell’Inferno, conosciuto anche come il “Canto di Ulisse”, si ritrovano nell’ottava Bolgia dell’ottavo Cerchio dell’inferno, dove sono condannati i consiglieri di frode.
Nel buio appaiono tante fiammelle vive che rappresentano le anime dei consiglieri fraudolenti, avvolti in lingue di fuoco. Dante viene attratto in particolar modo da una di queste fiammelle con la punta doppia. Virgilio rivela al poeta che all’interno di quel fuoco vi sono le anime di Ulisse e Diomede, gli eroi della guerra di Troia che più volte hanno fatto ricorso all’inganno.
Dante vorrebbe parlare con loro, Virgilio però gli consiglia di far rivolgere a lui stesso le domande ai due dannati.
A quel punto, il poeta mantovano, guida di Dante nell’Inferno, chiede alle due anime di conoscere la loro morte.
È Ulisse a prendere la parola, raccontando che, quando si fu liberato della maga Circe, dimenticando la patria abbandonata, decise di prendere il largo con alcuni fedeli compagni, spinto dallo spirito d’avventura e da un’inesauribile smania di scoprire e conoscere cose nuove.
Essi navigarono nel Mediterraneo, verso ovest, fino allo stretto di Gibilterra, dove si trovavano le colonne d’Ercole. Ulisse persuase i suoi compagni a varcare quel limite e a proseguire verso sud fino a raggiungere il monte del Purgatorio. Ma improvvisamente una tempesta su di loro, facendo ruotare la nave tre volte su se stessa, finché non s’inabissò.
Ulisse, dunque è responsabile non solo delle mille astuzie con le quali causò la rovina e la morte di molte persone – come nella sua impresa più famosa: la creazione del cavallo di Troia – ma anche di aver convinto i suoi compagni, con le sue parole, a seguirlo nella sua ambizione, mandandoli così incontro alla morte.
Dante vede in Ulisse la grandezza dell’intelligenza umana viziata però dalla superbia e dimentica dei suoi limiti di fronte a Dio.
Ulisse però non è l’astuto condottiero che conosciamo, ma rappresenta l’eterno anelito dell’umanità alla conoscenza, che di per sé è un positivo elemento di grandezza.
Ma il suo è un «seguir virtute e canoscenza» tipicamente pagano, che fa appello alle sue sole forze e ignora la Grazia divina, sfociando in un gesto di pura follia.
La ragione, il coraggio, la fede nelle proprie capacità, il rifiuto o la dimenticanza della infinita Grazia e Misericordia di Dio, fanno di Ulisse uno sconfitto che va incontro a una seppur bella morte di fronte al monte del Purgatorio.
ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta. “O frati,” dissi, “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo, quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”.Inferno, Canto XXVI |
Ma, in alto mare, aperto su tutti i lati, mi lanciai con una sola nave e un piccolo numero di compagni che non mi abbandonarono mai. Su entrambe le sponde ho visto, fino alla Spagna e al Marocco, l’isola di Sardegna e le altre che questo mare bagna. Io e i miei compagni eravamo vecchi e stanchi, quando arrivammo a quello stretto in cui Ercole pose i suoi limiti, per avvertire l’uomo di non andare oltre: io lasciai Siviglia alla mia destra; dall’altra Ceuta mi aveva già lasciato. Poi dissi: “O fratelli, che attraverso mille pericoli avete raggiunto l’Occidente, seguendo il sole e ai vostri sensi, che sono ormai così poco desti, non rifiutate l’esperienza del mondo inesplorato. Pensate a ciò che siete: non siete stati fatti per vivere come bruti, ma per cercare la virtù e la conoscenza. Con queste brevi parole eccitai talmente i miei compagni a proseguire il viaggio che difficilmente avrei potuto trattenerli in seguito. Con la poppa rivolta verso est, i remi facevano da ali per farci volare all’impazzata, dirigendoci sempre a sinistra. Già di notte potevo vedere tutte le stelle dell’altro polo, e il nostro così basso che non si alzava sopra il mare. Cinque volte la luna aveva acceso la sua torcia e altrettante l’aveva spenta, da quando eravamo entrati in mare aperto, quando ci apparve una montagna, oscura a causa della distanza, e che mi sembrò più alta di qualsiasi altra che avessi visto. Ci rallegrammo, ma presto la nostra gioia si trasformò in pianto, perché dalla nuova terra arrivò un turbine che colpì la prua della nave. Per tre volte la fece turbinare con tutte le acque; alla quarta alzò la poppa in alto, e in basso affondò la prua, secondo il volere del cielo, finché il mare si chiuse su di noi”. |
(Libera traduzione da Myths of Greece and Rome / Narrated with Special Reference to Literature and Art, H. A. Guerber, 1893 con aggiunte e integrazioni)