Negli annali della storia umana, poche civiltà hanno prodotto una serie di oratori così notevole come l’antica Grecia. Rinomati per la loro eloquenza e capacità di persuasione, questi grandi oratori hanno plasmato il paesaggio politico, sociale e culturale del loro tempo. Nel pantheon degli oratori greci spiccano tre figure esemplari: Lisia, Isocrate e Demostene.
Lisia o l’eloquenza giudiziaria
Lisia (445-380 a.C.) era un abile retore che eccelleva nella retorica giuridica, sebbene eccellesse in altre forme di eloquenza. Figlio di un fabbricante di armi metropolitano, nacque intorno al 440 a.C. Tra il 400 e il 380 compose più di duecento discorsi per varie cause in tribunale.
Ce ne restano una trentina per giudicare il talento di questo oratore, che fu senza dubbio il più dotato della sua generazione per quanto riguarda le cause civili.
La qualità maggiore del suo stile sta nella chiarezza e la naturalezza dell’esposizione dei fatti. Lisia sapeva mettersi nei panni del suo cliente e parlare al suo posto, il che lo rendeva un logografo eccezionale.
Il mestiere del logografo
Con il vostro permesso, o giudici, ricorrerò all’aiuto di qualcuno. Teofilo, sali sul rostro e di’ per me quello che hai da dire: i giudici lo permetteranno”
(Iperide, Per Licofrone)
Tutti ad Atene dovevano sapersi difendere, perché chiunque poteva denunciare il proprio vicino anche senza essere un pubblico ministero. Ma non tutti hanno conoscevano l’arte oratoria.
Per questo motivo si ricorreva a degli esperti. Il logografo, uno scrittore di professione, era incaricato di scrivere il discorso che il suo cliente inesperto avrebbe dovuto pronunciare, in cambio di un compenso; Non erano degli avvocati, perché questa figura non esisteva ancora, ma degli specialisti con esperienza nella pratica legale. il sinegoro aveva uno scopo simile, e lo faceva teoricamente a costo zero. Era una sorta i avvocato d’ufficio.
Il richiedente parlava per primo e poi, con il permesso dei giudici, chiamava il suo “assistente”. Lisia si occupò di una vasta gamma di casi, tra cui quelli riguardanti reati contro la morale, questioni di eredità, accuse di calunnia e di omicidio, tutti casi che fecero notizia e nelle sue orazioni vengono rappresentati anche diversi vividi episodi ed aneddoti che gettano per noi luce inedita sulla vita nell’Atene classica.
Secondo Dionigi di Alicarnasso, quanto più difficile era il caso, tanto più impressionante era l’abilità di Lisia. In Contro Eratostene, egli si giocò il tutto per tutto. L’imputato in questo caso era infatti lo stesso Lisia. Chiedendo a Eratostene di condurre un’arringa politica in suo favore nel 403 a.C., egli fu in grado di proteggere la sua famiglia, di vendicarsi del fratello e di lanciare un attacco a tutti i tiranni del mondo. Si riferiva in particolare al processo dei Trenta. L’accusa pronunciata è forte e piena di pathos, ma senza calcare sull’enfasi. Si dice Socrate avrebbe rifiutato un’orazione inviatagli da Lisia per difendersi in tribunale dall’accusa di empietà. Forse se Socrate avesse pronunciato quel discorso invece della sua Apologia, l’esito del processo sarebbe stata drasticamente diverso.
Isocrate e il discorso cerimoniale o epidittico
Isocrate (436-338 a.C.), invece, fu un pensatore visionario, maestro e teorico dell’eloquenza che enfatizzò l’istruzione e lo sviluppo intellettuale come strumenti essenziali per una comunicazione efficace. I suoi insegnamenti attirarono studenti da ogni angolo della Grecia.
Figlio di un ricco flautista, fu allievo di Prodico e di Gorgia. Dopo essere stato a lungo in competizione con Lisia come logografo, fondò la propria scuola.
Isocrate aveva una forte avversione nei confronti dell’eloquenza giuridica, pur avendola lui stesso praticata, e la definiva “un imbroglio”. Secondo lui, l’arte della retorica doveva servire ad uno scopo ben più alto. Vero e proprio artista della parola, portò al suo estremo sviluppo la cosiddetta letteratura cerimoniale.
C’è chi ha scelto di scrivere non di contratti privati, ma di argomenti nazionali e politici, degni delle solenni assise dei Greci; tutti ammetteranno che questi discorsi sono più simili a opere d’arte che ad arringhe pronunciate in tribunale.
Antidosi
Il Panegirico
In occasioni speciali, i Greci lodavano con dei discorsi solenni i loro antenati e i loro contemporanei. Nelle feste panelleniche, nei Giochi Olimpici, nei Giochi Pitici e nelle Panatenee, la gloria di Atene e del suo popolo veniva additata come esempio.
Il campione di questo genere di retorica era Isocrate, il cui Panegirico (380 a.C.), che significa “assemblea dei popoli greci”, cercava di unire tutti i greci di fronte ai pericoli rappresentati dalla Persia e dal mondo barbarico. Per dare peso all’argomento, era di moda sublimare il ruolo civilizzatore di Atene.
Ecco alcuni estratti di questo inno, che definiremo “nazionalista”:
È generalmente riconosciuto che la nostra città è molto antica, molto grande e, tra tutti gli uomini, ritenuta molto illustre; per quanto belli siano questi primi titoli di egemonia, ciò che segue le conferisce altri diritti ancora più grandi. […]. Non abbiamo scacciato nessuno per abitare in questa città, né l’abbiamo trovata abbandonata. […] Le nostre origini sono così belle e così pure che, per quanto si vada in alto, ci si vede ancora occupare la città che è stata la nostra culla; sì, siamo nati da questa terra, e i nomi che riserviamo ai nostri parenti più prossimi, abbiamo il diritto, noi, di darli alla nostra città; solo Greci infatti possiamo giustamente chiamare la stessa città nutrice, patria e madre.
Isocrate era uno specialista di frasi lunghe e cadenzate, il tipo di periodare oratorio che solo Cicerone poi avrebbe ripreso.
Oltre alla ricerca dello stile un fine a sé stesso, Isocrate voleva anche unire i suoi compatrioti attorno ad una causa comune. Tuttavia ciò diede origine a quella forma di nazionalismo che distingue gli “uomini” dai “barbari”.
Isocrate era famoso (e perciò anche bersaglio della satira) per i suoi lunghi tempi di composizione e revisione dei testi. Lo storico antico Timeo, ad esempio, gli lanciò una frecciata proprio in riferimento al suo Panegirico: Isocrate per scrivere e raffinare il testo ci aveva messo dieci anni! Lo stesso impiegato da Alessandro Magno per sottomettere l’Asia!
L’orazione funebre
Con l’avvento dell’eloquenza, l’orazione funebre divenne un altro generi della retorica. Inizialmente era affidata ai poeti, poi divenne presto appannaggio degli oratori. Ogni anno era consuetudine tenere un discorso cerimoniale in onore dei morti caduti sui campi di battaglia.
A questo usanza si attennero molti illustri personaggi: Pericle, in onore degli ateniesi morti sui campi di battaglia della guerra del Peloponneso, riportato da Tucidide, Gorgia, Lisia, Demostene (per i morti di Cheronea) e soprattutto Iperide.
Demostene o l’eloquenza politica
Demostene (384-322 a.C.) è probabilmente il più famoso tra questi grandi oratori. Superando ostacoli personali come la balbuzie e la debolezza fisica, affinò le sue capacità attraverso una pratica instancabile. Figlio di un armaiolo greco di una donna di origine scita (quindi non proprio greca e dunque barbara), fatto per cui Eschine, il suo avversario, lo attaccava continuamente
L’oratore che si allenò come Rocky Balboa
Derubato dell’eredità paterna da precettori disonesti, era affetto da balbuzie, come abbiamo detto, e aveva il fiato corto. Superò questo doppio handicap con la forza di volontà e la perseveranza.
Si dice che, di fronte alle onde, si infilasse dei sassolini in bocca, costringendosi a lunghe e dolorose sessioni di articolazione nel tentativo di soffocare il fragore del mare.
Lo testimonia anche Demetrio di Falero:
Per esercitare la voce, correva e si arrampicava sui pendii, pronunciando discorsi e versi in un sol fiato.
Nel 355 a.C. Demostene fu coinvolto negli affari di Stato, alternativamente come logografo e sinegoro. Con il suo grande senso pratico, cercò di intervenire in tutti i campi di attività del suo tempo e partecipò attivamente all’amministrazione dello Stato, soprattutto quando il suo partito salì al potere nel 340 a.C. Non esitò mai a farsi coinvolgere nei dibattiti politici e sociali del suo tempo.
Demostene contro Filippo
La lotta della sua vita fu contro Filippo di Macedonia, nemico dichiarato di Atene. Sebbene Filippo non facesse mistero delle sue ambizioni, gli ateniesi reagirono in modo troppo morbido per i gusti di Demostene. Con le parole e con i fatti, Demostene si scatenò contro di lui, pronunciando diversi discorsi o arringhe politiche, quattro in realtà, che sarebbero diventati famosi come le Filippiche.
Nella Prima Filippica (351 a.C.), l’oratore avanza proposte costruttive all’assemblea ateniese. Cerca di infondere coraggio ai suoi compatrioti, per spronarli all’azione.
È così che Demostene, il cui nome significa “forza del popolo”, cerca di galvanizzare le energie di tutti:
Prima di tutto, ateniesi, non disperate per lo stato attuale degli eventi, anche se sembrano andare molto male. Ciò che vi ha causato più danni in passato vi darà motivo di sperare nel futuro. […] E allora, Ateniesi, quando deciderete di agire? Che cosa state aspettando? Che la necessità vi spinga a farlo? […] Per quanto mi riguarda, non conosco necessità più pressanti per gli uomini liberi di una situazione disonorevole. […]
Ditemi, volete ancora girare per le piazze e chiedervi cosa c’è di nuovo? Cosa c’è di più nuovo di un macedone che sottomette Atene e governa la Grecia? Filippo è morto? No, ma è malato […] Cosa vi importa se vive o muore? Se non ci fosse più, fareste presto un altro Filippo, trascurando tutto come fate voi”.
Demostene ricoprì il ruolo di ministro degli Esteri del suo tempo, trascorrendo trentadue anni a combattere la minaccia macedone con un patriottismo e un coraggio civico fuori dal comune.
Demostene contro Eschine
Demostene dovette affrontare anche un altro avversario, questa da avvocato contro avvocato, l’oratore Eschine. Dopo le Filippiche, il discorso Sulla corona è senza dubbio l’altro grande capolavoro di Demostene.
Inviato in ambasciata presso Filippo di Macedonia, Eschine fu accusato da Demostene di “prevaricazione”. Tuttavia, fu assolto. Mentre Ctesifonte proponeva di assegnare a Demostene una corona d’oro per il suo servizio buono e leale, Eschine si intromise e volle dimostrare che era ingiusto onorare un uomo del genere, la cui politica gli sembrava disastrosa.
Infatti, Demostene aveva sempre esortato i Greci a combattere contro la Macedonia. Eschine condannava quindi l’uomo che aveva portato Atene al disastro.
Si tratta di una serie di attacchi frontali, e non tutti proprio corretti, fra due oratori concorrenti, ognuno dei quali cerca di screditare l’altro. Demostene veniva attaccato in quanto di lontana origine un barbara, per cui, indegno della corona. Eschine veniva screditato come uomo privo di educazione.
Demostene veniva accusato di non aveva scelto la soluzione della pace; Eschine di non aveva reagito per salvare il suo Paese, dunque uno che si era venduto venduto a Filippo. Entrambi tuttavia avevano un grande consenso. Le scelte politiche di Demostene possono sembrarci, col senno di poi, molto infelici, ma la linea politica da lui sostenuta era l’unica strada per tentare di riportare Atene agli antichi splendori.
Questo è ciò che gli ateniesi incisero come epigramma sulla base della statua di bronzo di Demostene, realizzata da Polieucto quarant’anni dopo la morte dell’oratore:
Se la tua forza, Demostene, fosse stata pari alla tua saggezza, L’Ares macedone non avrebbe mai dominato gli Elleni.
Alla fine, Demostene trionfò su Eschine. Un trionfo senza precedenti, che assolve i Greci dalla loro sconfitta!
Arringhe, suppliche e discorsi testimoniano il talento poliedrico di colui che fu senza dubbio il più grande oratore attico. Seppe conciliare il successo personale con quello pubblico, sostenendo grandi cause, come la difesa della patria e il senso della giustizia. Ha lasciato il segno di un uomo dal temperamento fiero, un maestro che ha impartito molte più lezioni di educazione civica di quante ne abbia dovute imparare.
Questo è il giudizio di Cicerone nel suo Bruto. Il primo che cita è Lisia, ma è Demostene cui egli dona idealmente la palma:
Scrittore di squisita finezza e gusto perfetto, potrebbe quasi essere definito l’oratore per eccellenza. Ma l’oratore veramente completo, colui che non lascia davvero assolutamente nulla a desiderare, è Demostene.
Questa è l’opinione di Georges Clémenceau nel suo saggio del 1926, Demostene:
Quando Filippo è in Elatea, quando Atene, crollata sotto il peso dei suoi fallimenti, cerca ispirazioni di audacia e trova solo false sorgenti, arrivò il giorno di Demostene. Non basta dire che era all’altezza del momento. Egli l’ha colto. […] Aspettavano che un uomo si alzasse, ed ecco che quest’uomo sovrumano si presentò a tutti loro. […] L’effetto oratorio scaturì prima che fosse cercato. Basta una parola: “Ho visto, ho detto, ho voluto, ho osato”. Non c’è stata risposta. La catapulta ha funzionato. Il verbo e l’atto allo stesso tempo.
L’arte della parola o il peso delle parole…
I Greci hanno sempre amato la parola. Per loro, la parola, il logos, significava sia il linguaggio come mezzo di espressione sia la ragione come mezzo di comprensione.
Tra tutti gli uomini, era il più potente con la parola […] Aveva il dono della persuasione che risiedeva nelle sue labbra. Il suo linguaggio era un incantesimo, e solo tra gli oratori lasciava un pungiglione nell’anima dei suoi ascoltatori.
Così il poeta Eupoli descriveva l’eloquenza dello statista Pericle.
Parlare era per loro naturale come il cinguettio per lgi uccelli. L’oratore Demostene arrivò persino a dire che i suoi contemporanei erano “spettatori di discorsi e ascoltatori di azioni” come ricompensa per la loro leggendaria curiosità…
Platone, pur essendo un avversario dei retori, arrivò a vedere Protagora come un nuovo Orfeo:
Quando entrammo, trovammo Protagora che passeggiava nel vestibolo. Lo scortavano nella sua passeggiata […] Altri seguivano, ascoltando la loro conversazione, per la maggior parte stranieri, che Protagora trascina con sé da tutte le città che attraversa, tenendoli sotto l’incantesimo della sua voce come un nuovo Orfeo, e che sono costretti a seguirlo per effetto dell’incantesimo; ma , ci sono nel coro, anche alcuni abitanti del luogo.
Protagora
Anche Isocrate ha un’opinione molto alta delle virtù della parola come specchio dell’anima e strumento indispensabile nei rapporti con gli altri:
è la parola che ha fissato i limiti legali tra la giustizia e l’ingiustizia, tra il male e il bene; se non fosse stata stabilita questa separazione, non saremmo in grado di vivere vicini gli uni agli altri. È attraverso le parole che confondiamo i disonesti e lodiamo i buoni. È attraverso la parola che formiamo le menti non istruite e mettiamo alla prova le intelligenze; perché facciamo della parola accurata la testimonianza più sicura del pensiero giusto; la parola vera, conforme alla legge e alla giustizia, è l’immagine di un’anima sana e leale. [..] La parola è la guida di tutte le nostre azioni e di tutti i nostri pensieri.
Antidosi
“La retorica è l’operatore della persuasione”, se vogliamo credere a Platone, nel dialogo con Gorgia di Leontini :
Socrate: Ebbene, Gorgia, dicci che cos’è questa cosa che tu dici essere il bene più grande per l’uomo e che tu professi di produrre.
Gorgia: È quello che è veramente il bene supremo, quello che dà a chi lo possiede la libertà per sé e il dominio sugli altri nella propria patria.
Socrate: Ma cosa intendi con questo?
Gorgia: Intendo il potere di persuadere con la parola i giudici in tribunale, i senatori in consiglio, il popolo nell’assemblea popolare e allo stesso modo in ogni altra riunione che sia un’assemblea di cittadini. Con questo potere, farai del tuo medico uno schiavo, e tuo schiavo il maestro di ginnastica. Quest’uomo d’affari, poi, si rivelerà accumulare ricchezze non per sé ma per un altro, ossia per te, che hai il potere di parlare e di persuadere le masse.
Socrate: Ora, Gorgia, sembra che tu abbia stabilito con la massima precisione possibile cosa consideri la retorica e, se ho capito bene, dici che la retorica è un mezzo di persuasione e che a questo sono rivolti tutti i tuoi sforzi. Vede in essa qualche potere diverso da quello di produrre persuasione negli ascoltatori?
Gorgia: Niente affatto, Socrate, e mi sembra che tu l’abbia definita perfettamente, perché questo è il suo carattere essenziale.
E Socrate conclude poco più avanti che la retorica non è altro che vile adulazione: “Avete dunque sentito cosa penso sia la retorica; essa è per l’anima ciò che la cucina è per il corpo”.
I sofisti avevano pronti dei modelli preconfezionati – topoi – su ogni tipo di argomento. Soprattutto, avevano capito che lo stile porta è tutto.
La parola, un’arma in battaglia
Nel suo dialogo Eutidemo, Platone contrappone Socrate a due fratelli sofisti decisi a battere i loro avversari nell’eloquenza. Li presenta come due pancrazisti, due campioni di “pancrazio” (un misto di lotta e pugilato):
Quanto a ciò su cui mi interroghi, la loro sapienza, è meravigliosa, o Critone: sono veramente sapientissimi. Prima io non sapevo che cosa fossero i pancraziasti perché costoro sono perfettamente pronti ad ogni genere di combattimento, ma non com’erano i due fratelli pancraziasti Acarnani. Quei due infatti erano capaci di combattere solo col corpo, questi, invece, sono in primo luogo fortissimi fisicamente – essi sono molto abili a combattere in armi e sono in grado di rendere tale un altro che paghi loro un onorario -; in secondo luogo sono eccellenti nel combattere la battaglia nelle aule di giustizia e nell’insegnare ad altri a pronunciare e a scrivere discorsi adatti ai tribunali. Prima, dunque, erano abili solo in questo, ora invece hanno raggiunto la perfezione nell’arte del pancraziaste. Infatti ora hanno praticato un genere di battaglia rimasto intentato da essi, sicché nessuno potrebbe assolutamente essere in grado di opporsi loro: talmente abili sono diventati nel combattere nelle discussioni e nel confutare ciò che di volta in volta viene detto, sia che sia falso sia che sia vero. Pertanto, Critone, ho in mente di affidarmi a questi due uomini, perché dicono anche di poter rendere abile in questo stesso campo chiunque altro in poco tempo.