- Rockstar, pervertito, assassino, tiranno, esistenzialista: il mistero Caligola
- Giovinezza di Caligola
- A scuola (di tirannide) da Tiberio
- Primi mesi di buon regno
- Incomincia a girargli il boccino...
- La giostra delle follie e delle atrocità (una miniera d’oro per le guide turistiche)
- Cavalli senatori e megalomania (ma è anche una questione di soldi)
- Una pellaccia dura, ma alla fine riescono a farlo fuori.
- Il mostro è morto. Viva il mostro!
Tiberio Cesare Augusto, comunemente noto come Tiberio, nacque col nome di Tiberio Claudio Nerone, poi dalla sua adozione da parte di Augusto, divenne Tiberio Giulio Cesare (Fondi, Italia/Roma, 16 novembre 42 a.C. - Miseno, 16 marzo, 37 d.C.); fu il secondo imperatore romano, figlio adottivo del popolare imperatore Augusto. Sedette sul trono imperiale per 23 anni, dal 14 d.C. fino alla sua morte. Può essere considerato il vero capostipite della dinastia Giulio-Claudia, in quanto membro della gens Claudia tramite il padre, Tiberio Claudio Nerone, e la madre, Livia Drusilla, ma dopo essere stato adottato da Augusto, fu inserito tra i Gulii. I suoi discendenti appartenevano dunque ad entrambe le famiglie. Tiberio salì al trono all'età di 55 anni. I cambiamenti nella situazione del potere e gli intrighi lo resero alla fine un vecchio crudele e misantropo, che forse non voleva nemmeno salire al trono. Per molto tempo il suo regno fu caratterizzato dal terrore dell'onnipotente prefetto del pretorio, Lucio Elio Seiano, mentre l'imperatore si ritirava dalla politica quotidiana e trascorreva il suo tempo nella sua dimora sull'isola di Capri.
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Rockstar, pervertito, assassino, tiranno, esistenzialista: il mistero Caligola
Con Caligola, l’immaginazione arriva al potere molto prima degli slogan e dei moti della contestazione studentesca globale del 1968. Caligola resterà per sempre il prototipo dell’imperatore pazzo e stravagante, un po’ Alex DeLarge di Arancia Meccanica, un po’ Joker (la Nemesi di Batman), un po’ Larry Flint (lo spregiudicato editore pornografico americano) e precursore di almeno un’altra dozzina di personaggi eccentrici (a dir poco) e molto chiacchierati: il Marchese De Sade, Marilyn Manson, Sid Vicious, Charles Manson e via dicendo.
Da Nerone fino a Eliogabalo, è stato probabilmente il cattivo genio ispiratore di tutti quei bad boys che si sono talvolta succeduti sul trono dell’Impero Romano.
Non è certamente un caso che per interpretarlo nel discusso e scandaloso (almeno per l’epoca) biopic cinematografico del 1979, dal titolo appunto “Caligola”, sia stato scelto proprio Malcolm McDowell , il protagonista di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick che spesso interpretò ruoli di cattivo e perverso (anche sessualmente parlando) sul grande schermo.
Anzi, proprio questa pellicola, alla cui sceneggiatura lavorò Gore Vidal (che poi ripudiò il film) e alla regia Tinto Brass (che ne prese anche lui le distanze) sembra, già nella sua tormentata produzione, un‘opera dell’imperatore Caligola in persona: una vicenda fatta di tribunali, sequestri per oscenità, versioni censurate e integrali, produttori (Bob Guccione, il patron della rivista erotica Penthouse) che aggiungono scene di scene di sesso esplicito (simulato e non) e violenza estrema (ad esempio la celebre scena del pene mozzato che viene dato in pasto ai cani).
Caligola è, nell’immaginario collettivo, il prototipo della rockstar decadente, alla deriva tra sesso estremo, droga (anche gli antichi avevano le loro; l’oppio ad esempio), alcol (il vino in Grecia e a Roma si doveva annacquare, anche perché era molto forte) e sadismo oltre ogni perversione. Il classico quadro clinico complesso che farebbe la felicità di ogni psicoanalista e che crea un misto di attrazione e allo stesso tempo di repulsione nelle masse.
Una cosa è certa: se non fosse diventato imperatore, sarebbe stato uno dei primi serial killer della storia, magari “Caligola lo Squartatore” o meglio “Cal lo squartatore”. (Nel 1982 venne prodotto anche un altro film, Caligola e Messalina, diretto da Jean-Jacques Renon; un altro prodotto di basso livello che scopiazzava anche la locandina del film di Brass.)
Scherzi a parte, è quasi impossibile ricostruire una figura storica attendibile (la pazzia improvvisa e alcune delle sue stravaganze sono davvero troppo inverosimili per poter essere prese sul serio) visto che il materiale che abbiamo si basa soprattutto sulle fonti come Svetonio, una sorta di scrittore di gossip dell’antichità, e Tacito, un grandissimo letterato e testimone prezioso, ma anche uno dei più grandi mistificatori e autori di parte mai esistiti (era di fede repubblicana, dunque avverso a quasi tutti gli imperatori).
Caligola e Camus
Certamente non si può parlare di vera e propria riabilitazione, perché comunque in tutta l’aneddotica voyeristica e pettegola dell’ipocrita storiografia romana, ci dovrà pure essere del vero. Ma si tratta di capire comunque l’uomo e le sue debolezze, come le cause della sua rovina. Non giustificarle, perché il dispotismo sanguinario, che appartenga all’antica Roma o al nostro secolo, non può e non potrà mai essere giustificato.
Ma come ci insegnano spesso gli autori tragici, dal teatro greco fino a Shakespeare e oltre, la storia di ogni despota, per quanto disumano, è paradossalmente una storia umana e come tale va raccontata. Quella vita umana che, sia che venga votata alla virtù come al delitto, rimane in ogni caso come dice Macbeth
“…un’ombra che cammina, un povero attore
che si agita e pavoneggia durante la sua ora sul palco
e poi non se ne sa più niente. È un racconto
narrato da un idiota, pieno di suoni e furore,
Che non significa niente.”
E forse, ad aiutarci a comprendere il mistero umano dell’imperatore Caligola, può servire proprio un’opera di teatro, la tragedia Caligula di Albert Camus, scrittore esistenzialista francese, premio Nobel nel 1957.
Ecco come l’autore stesso ci presenta la sua opera e la sua visione del personaggio:
“Caligola, è un principe relativamente amabile fino a quel momento, dopo la morte di Drusilla – sua sorella e amante – quando si rende conto che il mondo così com’è non è soddisfacente. Da quel punto in poi, ossessionato dall’impossibile, avvelenato dal disprezzo e dall’orrore, cerca di esercitare, attraverso l’omicidio e la sistematica perversione di tutti i valori, una libertà che alla fine scoprirà non essere quella giusta. Rifiuta l’amicizia e l’amore, la semplice solidarietà umana, il bene e il male. Prende in parola coloro che lo circondano, li costringe ad essere logici, livella tutto ciò che lo circonda con la forza del suo rifiuto e con la rabbia della distruzione a cui lo porta la sua passione per la vita.
Ma se la sua verità è ribellarsi al destino, il suo errore è negare gli uomini. Non si può distruggere tutto senza distruggere sé stessi. Per questo Caligola spopola il mondo intorno a sé e, fedele alla sua logica, fa di tutto per armare contro di lui coloro che finiranno per ucciderlo. Caligola è la storia di un suicidio superiore. È la storia del più umano e del più tragico degli errori. Infedele all’uomo, per fedeltà a se stesso, Caligola accetta di morire perché capisce che nessun essere può salvarsi da solo e che non si può essere liberi contro gli altri uomini.”
(Prefazione all’edizione americana di Caligula and Three Other Plays, del 1957)
Nella pièce teatrale di Camus, infatti, Caligola, imperatore di Roma, scompare poco dopo la morte della sorella e amante Drusilla. Lo si cerca per tutta Roma. I patrizi iniziano a preoccuparsi della sua assenza. Tornato a palazzo, l’imperatore spiega a uno dei suoi parenti – Elicone – che ciò che lo preoccupa non è tanto la perdita di Drusilla, ma un indomabile desiderio dell’impossibile (“sentivo improvvisamente il bisogno dell’impossibile”). Il mondo così com’è non gli sembra più sopportabile, quindi vuole la luna, la felicità, l’immortalità o qualsiasi altra cosa che non sia appunto di questo mondo.
Caligola, comprende, dopo la morte di Drusilla, che appunto alla fine “si muore” e che come recita il detto, chi vive si dà pace e continua l’assurda vita di ogni giorno. Quando Caligola torna a palazzo, i cortigiani lo richiamano ai suoi doveri di governante che deve reprimere i suoi dolori personali ed occuparsi degli affari di Stato, tra cui l’economia, il bilancio, il tesoro…per tutta risposta Caligola chiama i suoi attendenti e ordina di consegnare a tutti i sudditi dell’impero dei dispacci con i suoi ordini: ogni cittadino dovrà fare immediatamente testamento lasciando tutti i suoi beni personali allo Stato; dopodiché verranno subito tutti messi a morte. Alle obiezioni sdegnate dei presenti egli risponde:
Sentimi bene, imbecille : se tu dai importanza al Tesoro, non ne dai alla vita umana ; è chiaro. Tutti quelli che la pensano come te dovranno pur ammettere questo ragionamento; che non può essere niente la vita per coloro per i quali è tutto il denaro. Comunque ho deliberato di essere logico; e poiché ho il potere, vi accorgerete che cosa vi costerà la logica. Stermineremo contraddittori e contraddizioni. Incominciando da te, se sarà necessario!
Se ci riflette bene, non fa davvero una piega. Se la mostruosità del potere (e il potere abbiamo visto che era mostruoso ben prima di Caligola) è indiscutibile nel mondo – dove questa medesima mostruosità è continuamente in lotta con sé stessa, assumendo infinite incarnazioni, ma senza mai venire messa in questione in quanto tale da nessuno – allora le forme più aberranti del male sono semplicemente la logica conseguenza di un cancro che sta ben più a fondo, ma che ci rifiutiamo di riconoscere e affrontare come tale. Che siano i folli e sanguinari imperatori romani, le svastiche naziste o i gulag staliniani, alla fine il male non è altro che una questione di logica, di una logica assai più rigorosa di quella che di solito chiamiamo “necessità” storica e che serve spesso solo a coprire la nostra viltà.
Questo forse potrebbe essere il segreto per comprendere la figura, anche storica, di Caligola.
Giovinezza di Caligola
Era il terzo della serie degli imperatori romani, regnò dal 37 al 41 d.C. Il suo vero nome era Caio Cesare, e ricevette quello di Caligola nell’accampamento, dalle caligae, i sandali che portava ai piedi e che erano gli stessi dei soldati comuni, quando era ancora ragazzo con il padre in Germania.
Come imperatore, tuttavia, fu sempre chiamato dai suoi contemporanei Caio, mentre, ammesso che uno non fosse stanco di vivere, era meglio non rivolgersi a lui col nome di Caligola perché lo considerava un vero e proprio insulto. (Senec. De Constant. 18.).
Vi immaginate la scena dell’incauto interlocutore che lo avesse chiamato Caligola? Sarebbe stata un po’ come quello scambio di battute in quel film di Scorsese, “Quei bravi ragazzi”. Immaginiamo che, una volta divenuto imperatore, sia venuto a trovarlo un centurione, amico di suo padre, che l’aveva visto crescere nell’accampamento…
Centurione: …Salute a te Caligola!
Caligola: Come sarebbe “Caligola”?
Centurione: Sì Caligola, insomma, è un bel nomignolo, “scarpetta”! Daì è affettuoso, è buffo, e tu sei un tipo buffo!
Caligola: Perché, per via di come parlo o cosa?
Centurione: No, è che sei… buffo! Insomma, è il modo come sei, come ti ricordiamo, con le tue calighette, i tuoi sandali al campo quando eri ancora un ragazzino… ti chiamavamo tutti così, Caligola…Caligoletta…facevi tenerezza, eri buffo.
Caligola: Buffo come? Che ci trovi di buffo?
Senatore: Caio non hai capito…
Caligola: No, aspè aspè, è cresciutello, sa quel che dice, che dici eh? Buffo come?
Centurione: Beh…
Caligola: Come?
Centurione: Che sei buffo, tutto qua.
Caligola: No spiegami fammi capire perché magari è colpa mia, forse sono un po’ rincoglionito! D’altronde chi cazzo sono io? Solamente il cazzo di imperatore di questo impero romano del cazzo! Ma… buffo come? Buffo come un pagliaccio, ti diverto? Ti faccio ridere? Sto qua per divertirti? Come sarebbe buffo, buffo come, perché buffo?
Centurione: Per… per… per come porti i sandali, le caligae, capisci?
Caligola: No, no, io non capisco, tu l’hai detto, lo saprai no? Tu hai detto che sono buffo; ma com’è che sono buffo, che ci trovi di tanto buffo in me, eh, dimmelo, di’, che c’è di buffo?
Centurione: [Pausa] …ah, vaffanculo, piantala Caligola! [ridendo]
Caligola [ridendo a sua volta]: Certe volte mi vengono dubbi su di te, Centurione, potresti mollare sotto un terzo grado! [ride ancora]
Centurione: [Pausa] …Mi hai fatto quasi paura…sembrava che volessi mettermi a morte [ridendo]
Caligola [ridendo anche lui] Ma figurati! Io non potrei mai mettere a morte gli amici di mio padre! [ride]
Centurione: te ne sono grato Caligola [sorridendo]
Caligola: e tu Centurione sei davvero come un secondo padre per me!
Centurione: Che bella cosa che hai detto Caligola! sei davvero buono Caligoletta!”
Caligola : Fate venire qui subito Mastro Titta!
Senatore: Ma come? Il boia di Roma? E che devi fare?
Caligola: Devo fargli tagliare la testa di questo figlio di puttana che continua a chiamarmi Caligola!
Il luogo di nascita
Figlio minore di Germanico, nipote di Tiberio, da parte di Agrippina, nacque il 31 agosto del 12 d.C. (Suet. Cal. 8.). Il luogo di nascita è stato oggetto di dubbi da parte degli antichi: secondo alcuni era Tibur (Tivoli), secondo altri Treves (Treviri) sulla Mosella in Germania, ma Svetonio ha dimostrato dai documenti pubblici di Antium (Anzio) che nacque in quella città. I suoi primi anni di vita furono trascorsi nell’accampamento del padre in Germania e crebbe tra i soldati, tra i quali divenne quindi molto popolare. (Tac. Annal. 1.41, 69; Suet. Cal. 9; D. C. 57.5.).
L’ultimo periodo felice della sua vita
Caligola accompagnò il padre anche nella spedizione in Siria e, dopo il suo ritorno, visse prima con la madre e, quando questa fu esiliata, nella casa di Livia Augusta. Quando anche quest’ultima morì, Caligola, allora sedicenne, pronunciò l’orazione funebre a lei dedicata dai Rostra. In seguito visse alcuni anni con la nonna Antonia. Caligola, come i suoi due fratelli maggiori, Nerone e Druso, era odiato da Seiano, ma il suo favore presso Tiberio e la sua popolarità come figlio di Germanico gli salvarono la vita. ( D. C. 58.8.)
A scuola (di tirannide) da Tiberio
Dopo la caduta di Seiano, nel 32 d.C., quando Caligola aveva appena compiuto vent’anni, Tiberio lo convocò a Capri. Qui il giovane nascose così bene i suoi sentimenti per le pene inflitte alla madre e ai fratelli, così come per i torti che lui stesso aveva subito, che non manifestò neppure il minimo risentimento e si comportò in modo così sottomesso, che coloro che avevano assistito alla sua condotta dichiararono che non c’era mai stato uno schiavo così sottomesso per un padrone così crudele. (Suet. Cal. 10; Tac. Annal. 6.20.)
Ma il suo carattere autentico fu comunque intravisto da Tiberio. Quasi nello stesso periodo sposò Junia Claudilla (Claudia), figlia di M. Silano, evento che Dione Cassio (58.25) colloca nell’anno 35 d.C. Poco dopo ottenne la carica di questore e, alla morte del fratello Druso, fu nominato augure al suo posto, essendo stato creato pontefice due anni prima. (D. C. 58,8; Suet. Cal. 12.)
Dopo la morte della moglie, nel marzo del 36 d.C., Caligola cominciò a pensare seriamente a come assicurarsi la successione, nella quale Tiberio gli aveva fatto sperare, senza però decidere nulla. Per assicurarsi il successo, sedusse Ennia Naevia, moglie di Macrone, che allora aveva il comando delle coorti dei pretoriani. Promise di sposarla se fosse salito al trono e riuscì a ottenere il consenso e la collaborazione anche di Macrone stesso; anzi secondo alcune testimonianze fu proprio Macrone a spingere sua moglie tra le braccia del giovane. ( Suet. Cal. 12; Tac. Annal. 6.45; D. C. 58.28 ; Filone, Legat. ad Cai. p. 998, ed. Parigi, 1640).
Tiberio morì nel marzo del 37 d.C. e alcune fonti sostengono che Caligola abbia causato o accelerato la sua morte. In seguito egli si vantò spesso di aver tentato di uccidere Tiberio per vendicare i torti che la sua famiglia aveva subito per causa sua. Si dice anche che Caligola avesse somministrato a Tiberio un lento veleno, o che gli avesse negato il cibo necessario durante la malattia, o infine che lo avesse soffocato con un cuscino. Alcuni sostengono ancora che avesse compiuto l’assassinio del vecchio tiranno con la complicità di Macrone, mentre Tacito ( Ann d. 6.50) cita solo Macrone come colpevole.
Quando il corpo di Tiberio fu trasportato da Miseno a Roma, Caligola lo accompagnò in abito da lutto, ma a Roma fu salutato dal popolo con il più grande entusiasmo come figlio di Germanico. Tiberio nel suo testamento aveva designato suo nipote omonimo Tiberio Gemello come coerede di Caio Cesare Caligola, ma il senato e il popolo diedero il potere sovrano solo a quest’ultimo, nonostante le disposizioni dell’imperatore scomparso. (Suet. Cal. 14; D. C. 59.1; cfr. J. AJ 18.6.9.)
Primi mesi di buon regno
Per quanto riguarda tutti gli altri punti, invece, Caligola portò a compimento la volontà di Tiberio: pagò al popolo e ai soldati le somme che il defunto imperatore aveva lasciato loro in eredità, e addirittura aumentò questi lasciti con la propria munificenza. Dopo aver pronunciato l’orazione funebre in onore di Tiberio, adempì immediatamente al dovere di pietà verso la madre e il fratello: fece trasportare le loro ceneri da Pandataria e dalle isole Ponziane a Roma e le depositò nel Mausoleo con grande solennità.
Ma nonostante il desiderio di riabilitare l’immagine dei propri cari defunti, cosa che lo spinse a questo atto, perdonò tutti coloro che si erano lasciati strumentalizzare contro i membri della sua famiglia e ordinò di bruciare nel Foro i documenti che contenevano le prove della loro colpevolezza. Coloro che erano stati condannati al carcere da Tiberio furono liberati e quelli che erano stati esiliati furono richiamati in patria.
Restituì ai magistrati il pieno potere di giurisdizione senza appello alla sua persona e si sforzò anche di far rivivere l’antico carattere dei comitia, permettendo al popolo di discutere e decidere le questioni portate davanti a loro, come nei tempi passati. Verso i principi stranieri che erano stati privati del loro potere e delle loro entrate dal suo predecessore, si comportò con grande generosità. Così Agrippa, nipote di Erode, che era stato messo in catene da Tiberio, fu liberato e restituito al suo regno, e anche Antioco IV di Commagene ricevette di nuovo il suo trono, e i suoi domini furono accresciuti dal distretto marittimo della Cilicia.
Incomincia a girargli il boccino…
Il primo luglio del 37 d.C. Caio Cesare assunse il suo primo consolato insieme a Claudio, fratello di suo padre, e mantenne la carica per due mesi. Poco dopo fu colto da una grave malattia dovuta al suo stile di vita irregolare. Si rimise in salute, ma da quel momento apparve essere diventato una sorta di squilibrato. Fino a quel momento la gioia del popolo per la sua ascesa sembrava perfettamente giustificata dalla giustizia e dalla moderazione di cui aveva dato prova nei primi mesi di regno, ma da quel momento in poi sembrò sempre più un essere diabolico piuttosto che umano, agendo di fatto come un pazzo scatenato.
Una sorta di ferocia e di voluttà grossolana erano sempre state caratteristiche di spicco del suo carattere, ma non è giustificato supporre, come molti fanno, che egli abbia semplicemente gettato la maschera e che fino a quel momento avesse semplicemente nascosto la sua vera indole; è molto più probabile che la malattia abbia minato le sue facoltà mentali, lasciando così libero sfogo a tutte le passioni represse nel suo animo, alle quali ora si abbandonava senza esercitare alcun controllo su di esse.
Subito dopo la guarigione ordinò di mettere a morte Tiberio, il nipote del suo predecessore, che aveva innalzato al rango di princeps juventutis, accusandolo con il pretesto di aver desiderato che l’imperatore (cioé Caligola stesso) non sopravvivesse dalla malattia; anche quei suoi amici che avevano promesso di sacrificare la loro stessa vita per la salvezza del sovrano convalescente, furono ora costretti a mettere in atto il loro voto ponendo fine alla loro esistenza.
La giostra delle follie e delle atrocità (una miniera d’oro per le guide turistiche)
Ordinò anche a diversi membri della sua stessa famiglia, tra cui la nonna Antonia, Macrone e la moglie Ennia Nevia, di darsi alla macchia. La sua sete di sangue sembrava aumentare con il numero delle sue vittime e l’omicidio cessò presto di essere la conseguenza del suo odio, diventando per lui una questione di piacere e divertimento. Una volta, durante un combattimento pubblico di bestie feroci nel Circo, quando il numero di criminali da gettare nell’arena si era ormai esaurito, ordinò di prendere delle persone a caso tra gli spettatori e di darle in pasto alle belve, ma per evitare che potessero gridare o maledire chi aveva dato l’ordine, ordinò di tagliare loro la lingua.
Spesso, durante i pasti, ordinava che degli uomini venissero torturati a morte sotto i suoi occhi, per il solo piacere di assistere alla loro agonia. Una volta, quando durante una corsa di cavalli il popolo tifava con più entusiasmo per uno dei concorrenti che non era il suo favorito, si dice che abbia esclamato: “Se tutto il popolo romano avesse una sola testa!”.
Ma la sua crudeltà non era superiore alla sua voluttà ed oscenità. Intratteneva rapporti incestuosi con le sue stesse sorelle e, quando Drusilla, la seconda di esse, morì, impazzì letteralmente (o meglio, ulteriormente) per il dolore e ordinò che la defunta fosse venerata come una divinità. Nessuna nobildonna romana era al riparo dalle sue insidie e i suoi matrimoni venivano contratti in modo tanto vergognoso quanto poi ignominiosamente sciolti. L’unica donna che esercitò un’influenza duratura su di lui fu Cesonia.
Cavalli senatori e megalomania (ma è anche una questione di soldi)
Un fatto che fa capire ancora di più lo stato di disordine in cui versava il suo cervello è che nella sua auto-venerazione arrivò a considerarsi un dio: a volte appariva in pubblico con gli abiti di Bacco, Apollo o Giove, e persino di Venere e Diana; spesso si piazzava nel tempio di Castore e Polluce, tra le statue di queste divinità, e ordinava alle persone che entravano nel santuario di adorarlo. Costruì persino un tempio a se stesso come Giove Laziale e nominò dei sacerdoti che si occupassero del suo culto e gli offrissero sacrifici.
Questo tempio custodiva una statua in oro che lo raffigurava a grandezza naturale, ed era vestita esattamente come lui. I romani più ricchi venivano nominati suoi sacerdoti, ma dovevano acquistare questo onore versando immense somme di denaro. A volte officiava di persona come sacerdote di sè stesso, facendo diventare suo collega il cavallo Incitatus, che in seguito elevò al rango di console, secondo altri di senatore (mi chiedo: con tutti gli asini calzati e vestiti che noi ancora oggi votiamo e mandiamo in Parlamento, oltre che al senato, perché mai questa stravaganza di Caligola debba fare ancora grosso scalpore dopo tanto tempo!) . Nessuno, se non uno completamente pazzo, avrebbe potuto cose come queste.
Le somme di denaro che sperperò superano quasi l’immaginazione. Durante il primo anno di regno prosciugò quasi l’erario, nonostante Tiberio vi avesse lasciato la somma di 720 milioni di sesterzi. Un esempio può servire a far capire in che modo insensato spendeva questi soldi:
per potersi vantare di aver marciato sul mare come sulla terraferma, ordinò di costruire un ponte di barche attraverso il canale tra Baiae e Puteoli (Baia e Pozzuoli), a una distanza di tre miglia romane e seicento passi (circa 5km). Dopo averlo ricoperto di terra e averci costruito sopra delle case, lo attraversò in trionfo e diede uno splendido banchetto proprio al centro del ponte. Per divertirsi in questa occasione nel suo solito modo, ordinò poi di gettare in mare alcuni degli spettatori che aveva invitato.
Poiché le entrate regolari dello Stato non erano sufficienti a fornirgli i mezzi per le sue folli stravaganze, egli ricorse a vere e proprie rapine, vendite pubbliche dei suoi possedimenti, tasse inaudite e ogni tipo di estorsione che potesse essere escogitata. Affinché nessun mezzo per procurarsi denaro rimanesse trascurato, istituì un bordello pubblico nel suo stesso palazzo e mandò i suoi servi a invitare gli uomini di ogni ceto a servirsene. Alla nascita della figlia avuta da Cesonia, si atteggiò regolarmente a mendicante per ottenere il denaro necessario ad allevarla.
Fece anche sapere che avrebbe ricevuto regali il giorno di Capodanno e il primo gennaio si mise nel vestibolo del suo palazzo per accettare i doni che gli venivano portati da folle di persone. Cose del genere fecero gradualmente nascere in lui l’amore per il denaro in sé, senza alcun riguardo per i fini a cui doveva servire, e si dice che a volte si dilettasse a rotolarsi fra cumuli d’oro come Zio Paperone.
Dopo che l’Italia e Roma furono prosciugate dalle sue estorsioni, il suo amore per il denaro e la sua avidità lo costrinsero a cercare altre risorse. Volse lo sguardo alla Gallia e, con la scusa di una guerra contro i Germani, marciò, nel 40 d.C., con un esercito per estorcere denaro ai ricchi abitanti di quel Paese. Qui le esecuzioni erano frequenti come lo erano state in precedenza in Italia. Lentulo Gaetulico ed Emilio Lepido furono accusati di aver formato una congiura e furono messi a morte, mentre le due sorelle di Caligola furono mandate in esilio in quanto colpevoli di adulterio e complici della congiura. Tolomeo, figlio del re Giuba, fu esiliato solo per impadronirsi delle sue ricchezze e poi fu messo a morte.
Sarebbe interminabile e disgustoso riportare qui tutti gli atti di crudeltà, follia e rapacia di cui il suo intero regno, ad eccezione dei primi mesi, costituisce una successione ininterrotta. Concluse la sua campagna predatoria in Gallia conducendo il suo esercito sulla costa dell’oceano, come se volesse attraversare la Britannia; li schierò in assetto di battaglia e poi diede loro il segnale: raccogliere le conchiglie, che chiamò il bottino dell’Oceano conquistato. Poi tornò a Roma, dove agì con una crudeltà ancora maggiore di prima, perché riteneva gli onori che il Senato gli aveva conferito fossero troppo insignificanti e di livello troppo “umani” per essere degni di un dio come lui si riteneva. Contro di lui si formarono diverse congiure, che però vennero tutte scoperte, finché Cassio Cherea, tribuno di una coorte di pretoriani, Cornelio Sabino e altri ne organizzarono una che finalmente riuscì.
Una pellaccia dura, ma alla fine riescono a farlo fuori.
Quattro mesi dopo il suo ritorno dalla Gallia, il 24 gennaio del 41 d.C., Caligola fu assassinato da Cherea nei pressi del teatro o, secondo altri, nel suo stesso palazzo mentre ascoltava alcuni ragazzi che provavano la parte che avrebbero dovuto recitare a teatro. Anche la moglie e la figlia furono messe a morte. Il suo corpo fu segretamente trasportato dai suoi amici agli horti Lamiani, bruciato e ricoperto da un leggero strato di erba. In seguito, però, le sue sorelle, dopo il loro ritorno dall’esilio, ordinarono di riesumarne il cadavere e lo fecero bruciare completamente e poi seppellire di nuovo (Sueton. Caio Cesare; Dio Cass. lib. lix.; J. AJ 19.1; Aurel. Vict. De Caes. 3; Zonar. 10.6.)
Il mostro è morto. Viva il mostro!
« No, Caligola non è morto. È qui… e qui. Egli è in ognuno di voi. Se vi fosse dato il potere, se aveste un cuore, se amaste la vita, lo vedreste scatenato, questo mostro o questo angelo che portate dentro di voi. La nostra epoca sta morendo per aver creduto nei valori e che le cose potessero essere belle e smettere di essere assurde. Addio, entro nella storia dove coloro che temono di amare troppo mi hanno tenuto rinchiuso per tanto tempo.»
Albert Camus, appunti per un finale alternativo del Caligula
(Libero adattamento e rimaneggiamento da A Dictionary of Greek and Roman biography and mythology William Smith, 1848, con aggiunte e integrazioni)
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