La guerra gallica, dal 58 al 51 a.C., fu la guerra di conquista intrapresa dall'condottiero romano (generale romano vittorioso) Giulio Cesare e la resistenza che dovette affrontare da parte delle tribù galliche. La vittoria romana fu assicurata nel 52 a.C. dalla battaglia e dall'assedio di Alesia, dove i Galli, guidati da Vercingetorige, furono sconfitti. La guerra si concluse nel 51 a.C. dopo la cattura dell'oppidum di Uxellodunum (nel Lot), dove resisteva ancora la tribù dei Cadurchi. Il resoconto dettagliato di questa guerra fu fornito da Giulio Cesare nei suoi Commentari sulla guerra gallica (De Bello Gallico). Dopo questa guerra iniziò l'era della Gallia romana.
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Crasso in Oriente
Nell’anno 56 a.C., mentre Cesare era nel pieno delle guerre galliche, trovò il tempo di incontrare Pompeo, Crasso e duecento senatori e magistrati che collaboravano con i triumviri, a Lucca, in Etruria, dove, in una sorta di convenzione, furono presi accordi per un altro mandato di cinque anni. (La nomina da parte di questa lega o “cerchia” di politici e generali equivaleva a un’elezione).
Fu deciso che il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prolungato di cinque anni e che Crasso e Pompeo sarebbero stati nominati consoli. Tutte queste misure furono pienamente attuate, poiché le elezioni a Roma furono garantite dalle intimidazioni e dal voto dei soldati delle legioni galliche, ai quali Cesare aveva concesso dei permessi per questo scopo. Il governo delle due Spagne fu affidato a Pompeo, mentre quello della Siria fu assegnato a Crasso.
Quest’ultimo si precipitò in Oriente, sperando di rivaleggiare con le brillanti conquiste di Cesare in Occidente. In questo periodo il grande impero partico occupava l’immenso territorio che si estendeva dalla valle dell’Eufrate fino a quella dell’Indo. Nonostante i Parti fossero in pace con il popolo romano, Crasso condusse il suo esercito oltre l’Eufrate e invase il loro territorio, intenzionato a una guerra di conquista e di bottino. Nel mezzo del deserto mesopotamico fu abbandonato a tradimento dalle sue guide e il suo esercito, attaccato improvvisamente dalla cavalleria partica, fu quasi annientato. Crasso stesso fu ucciso e la sua testa, come si dice, fu riempita dai suoi rapitori di oro fuso, affinché si saziasse del nobile metallo che aveva tanto desiderato in vita.
Con la morte di Crasso, Cesare perse il suo più prezioso alleato, colui che non lo aveva mai abbandonato e le cui ricchezze erano state da lui liberamente usate per la sua scalata al potere. Quando Cesare, prima del suo consolato, aveva ricevuto un comando in Spagna e le immense somme che doveva ai suoi debitori a Roma lo mettevano in imbarazzo e ne impedivano la partenza, Crasso si era fatto avanti e aveva generosamente pagato più di trenta milioni di euro a nome dell’amico.
Rivalità tra Cesare e Pompeo
Dopo la morte di Crasso il mondo apparteneva a Cesare e Pompeo. Era inevitabile che l’insaziabile ambizione di questi due rivali li portasse prima o poi a scontrarsi. La loro alleanza nei triumviri era semplicemente una convenienza egoistica, non un’amicizia. Mentre Cesare portava avanti le sue brillanti campagne in Gallia, Pompeo era a Roma e assisteva gelosamente alla crescente reputazione del suo grande rivale. Si sforzò, con una liberalità principesca, di conquistare l’affetto della gente comune. – Sul Campo di Marte eresse un immenso teatro con 40.000 posti a sedere. Organizzò magnifici giochi e allestì pubblici banchetti; e quando l’interesse del popolo per gli sport del Circo si affievoliva, allora lo intratteneva con i combattimenti di gladiatori. In modo simile Cesare rafforzò la sua influenza sul popolo per iniziare la lotta che prevedeva chiaramente sarebbe scoppiata di lì a poco. Cercò in tutti i modi di ingraziarsi i Galli: aumentò la paga dei suoi soldati, conferì i privilegi della cittadinanza romana agli abitanti di diverse città e inviò a Roma enormi somme d’oro da spendere per l’erezione di templi, teatri e altre strutture pubbliche e per la celebrazione di giochi e spettacoli che avrebbero dovuto rivaleggiare in magnificenza con quelli di Pompeo.
La terribile condizione della capitale favorì l’ambizione di Pompeo. I membri del senato erano così egoisti e corrotti, il popolo era ormai così insensibile a ogni virtù e a ogni sentimento patriottico, che persino uomini come Catone e Cicerone non vedevano alcuna speranza per salvare la repubblica. Il primo era favorevole alla nomina di Pompeo a console unico per un anno, il che equivaleva a nominarlo dittatore. “È meglio”, disse Catone, “scegliere subito un padrone, piuttosto che aspettare il tiranno che l’anarchia ci imporrà”. Il “tiranno” nella sua mente e in quella di tutti era Cesare. Pompeo quindi ruppe con Cesare e si riagganciò al vecchio partito aristocratico, che aveva abbandonato per l’alleanza e le promesse del triumvirato. La morte della moglie Giulia, figlia di Cesare, spezzò anche i legami di parentela, nello stesso momento in cui si erano interrotti quelli dell’apparente amicizia.
Cesare attraversa il Rubicone (49 a.C.)
Cesare pretendeva ora il consolato. Sapeva che la sua vita non sarebbe stata al sicuro dalla gelosia e dall’odio dei suoi nemici a Roma, con la certezza che sarebbe stata intentata una procedura di impeachment a suo carico e dunque un processo, da cui solo quella carica lo avrebbe protetto. Il Senato, manipolato proprio da quegli stessi nemici, emanò un decreto che imponeva le dimissioni di Cesare dalla sua carica e lo scioglimento delle legioni in Gallia entro una data stabilita. La crisi era ormai giunta al culmine. Cesare ordinò alle sue legioni di affrettarsi dalla Gallia verso l’Italia. Senza attendere il loro arrivo, alla testa di un piccolo corpo di veterani che aveva con sé a Ravenna, attraversò il Rubicone, un piccolo fiume che segnava il confine della sua provincia. Era una dichiarazione di guerra. Dirigendosi col suo cavallo, nelle acque del torrente, esclamò: “Il dado è tratto! ”
(Libera traduzione da “Ancient History, Greece and Rome” di Philip Van Ness Meyers, Toronto, 1901)
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