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I CICLOPI

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Pastori o manovali, comunque selvaggi

Secondo la tradizione omerica, i Ciclopi erano una razza insulare, selvaggia ed empia, di pastori cannibali, di forme gigantesche, che vivevano senza leggi, nutrendosi del latte delle loro pecore e delle loro capre, ignorando l’agricoltura e il commercio. Abitavano in Sicilia o Trinacria

Uno di loro, Polifemo, che gioca un ruolo importante nell’Odissea, era figlio di Poseiclone e della ninfa Toosa. Nonostante la sua natura rozza e violenta, il divino Polifemo era tuttavia abile nell’arte di pascolare le greggi e di trarne profitto; Ulisse ammira l’ordine che regna nella sua grotta. Altri poeti hanno seguito la stessa tradizione, riproducendo la favola omerica dello stratagemma usato da Ulisse per trascinare lui ei suoi compagni fuori dalla grotta del Ciclope, bruciandogli un occhio dopo averlo fatto ubriacare. 

Questa avventura è oggetto di un poema satirico di Euripide, l’unica opera di questo genere giunta fino a noi. Troviamo Polifemo nei testi greci  nell’undicesimo idillio di Teocrito che ha come titolo appunto: Il Ciclope, che fu imitato da Ovidio. Gli amori di Polifemo e Galatea furono un soggetto spesso rappresentato dai mimi. Lo storico Tucidide considera i Ciclopi gli abitanti più antichi della Sicilia insieme  ai Lestrigoni.

Un’altra tradizione fu tracciata da Esiodo: secondo questa i Ciclopi sono Titani, figli di Urano e Gea. Sono geni del fuoco e delle tempeste, formano una triade e portano i nomi significativi di Bronte, Sterope e Arge, personificando tuoni, fulmini e e l’elettricità atmosferica in generale. Precipitati giù dal cielo da Urano, essi vengono liberati da Zeus dalla loro prigione sotterranea e divengono i suoi ausiliari nella guerra contro i Giganti. Servi di Zeus, forgiano per lui tuoni e fulmini. Fu per aver fabbricato il fulmine con cui Zeus colpì Asclepio che dovettero perire per la vendetta di Apollo.

Polifemo. Villa Romana del Casale, Piazza Armerina, Sicilia, Italia

Operai dell’officina di Efesto

La tradizione che fa dei Ciclopi operai di Efesto sembra essere uno sviluppo di questa tradizione esiodica. In un punto si avvicina alla tradizione omerica: fa della Sicilia la patria dei Ciclopi. Infatti, è nell’Etna e nelle isole vulcaniche del mare di Sicilia che sono poste le fucine sotterranee dove lavorano, sotto il comando del grande divino fabbro.

Lo studioso M. Decharme scrive: “All’epoca dei primi insediamenti greci in Sicilia, Efesto aveva come dimora e bottega l’immensa fornace dell’Etna dove fu aiutato dai Ciclopi, antichi geni del fulmine e delle folgori che hanno subito la sua stessa trasformazione”. Da forze della natura quindi, i Ciclopi sono diventati demoni della metallurgia e continuano, in questa nuova forma, ad essere i servitori degli dei in un’industria civilizzatrice.

Così ce li rappresentano i poeti e li vediamo sui monumenti. Il loro numero è aumentato di molto, ma  portano ancora, come gli antichi Titani da cui discendono, i nomi di Bronte, Sterope, ecc. Gli aggiungono nuovi nomi, come Acamos, l’infaticabile, o Pyracmon, da πυρ, fuoco, e ακμών, incudine. Infine, altri racconti ci mostrano i Ciclopi designati anche, in questo caso, con i nomi di “Chirogastori” o “Gasterochiri”, χειρογαστερες e anche γαστεροχειρες (Cheirogasteres altrimenti Gasterocheires o Gasterochires, cioé operai o artigiani: χεῖρ “keir” infatti vuol dire “mano” e γαστερ “gaster” “stomaco”; quindi si intende “coloro che si guadagnavano da vivere [= riempivano la loro pancia] con le loro mani”; in sostanza, “quelli che si guadagnavano la pagnotta con il lavoro manuale“), sotto l’aspetto di costruttori ai quali abbiamo detto le famose mura che li conservavano il nome di Ciclopiche.

Il Ciclope, Francesco_Albani

Muratori infaticabili

Furono onorati per aver fortificato le cittadelle di Tirinto e di Micene. Strabone ne parla in questi termini: pare che vivessero dunque del prodotto della loro arte. Proteo li aveva portati apposta dalla Licia. Altrove, è la Tracia che è assegnata ai Ciclopi come luogo di origine. Cacciati dalla loro patria, avrebbero trovato rifugio nella terra dei Cureti, forse l’Eubea, e vi avrebbero portato la fabbricazione di armi di bronzo. 

Tali sono le tradizioni che erano in vigore, nell’antichità, sui Ciclopi. I loro tratti comuni sono la loro forza prodigiosa e il loro genio operoso, di cui non è privo neppure il rozzo pastore dell’Odissea. Sia che vediamo in loro un popolo pastorale, dalle forme gigantesche e dagli istinti violenti, capace di smuovere grandi rocce, come quella con cui Polifemo teneva chiusa la sua grotta, sia una tribù errante di costruttori che edificano con pietre colossali le mura delle fortezze; sia che si tratti di Titani, i primogeniti del Cielo e della Terra, che si ribellarono prima contro il loro padre celeste, poi disciplinati dal potere sovrano e combattendo per esso contro le forze perturbatrici, o lavoratori versati nelle scienze della metallurgia e assistenti di Efesto, ci troviamo anche faccia a faccia con forze e arti primitive di un potente e carattere straordinario. 

I Ciclopi sono imparentati con i Giganti, i Cureti, i Telchini. Seguendo l’esempio degli antichi, gli scrittori moderni (che scrissero che nei Ciclopi vedevano talvolta i popoli primitivi di carattere selvaggio, come quelli che vediamo ancora oggi) nelle parti del globo dove la nostra civiltà non è penetrata, a volte troviamo esseri soprannaturali creati dalla mitologia, o artigiani, fabbri, costruttori, incarnazioni viventi, metà reali, metà favolosi, di grandi attività industriose primitive. Abbiamo visto sopra l’opinione di M. Decharme che meglio corrisponde all’idea lasciata nella nostra mente dalle nostre memorie classiche. In una dissertazione scientifica, in cui tutte le testimonianze degli autori antichi sono state raccolte con cura e intelligentemente commentate, lo studioso Schoemann insiste sul carattere dei Ciclopi, sia come costruttori che come metallurgici, e vede in questo il loro tratto distintivo. 

Cratere arcaico con Odisseo che acceca Polifemo

Un popolo storico?

Per M. Boltz, i Ciclopi sono un popolo storico, gli antichi Siciliani; questa è la tradizione di Omero e Tucidide. Quanto all’etimologia del nome del Ciclope, ci siamo attenuti a quella che lo fa derivare da due parole greche che significano “occhio tondo”. Sembra essa concordare del tutto naturalmente con le favole poetiche che ci rappresentano questi esseri mitici con un solo occhio circolare in mezzo alla fronte. 

Esiodo dà formalmente l’idea di questo occhio unico, che il poeta Callimaco ci dice avesse le dimensioni di uno scudo di quattro pelli, ed è un tratto distintivo quasi inseparabile dalla figura del Ciclope. Gli studiosi moderni hanno proposto altre etimologie. Ad esempio, il nome fenicio di Chek-Loub, che designava una tribù barbara intorno al Golfo di Lilybea, sembrava a Bochart applicabile ad altre tribù che avevano stessi costumi e fatta risalire ai Ciclopi omerici. Coloro che si attengono all’etimologia greca del nome hanno pensato agli riti divinatori dei Pelasgi che decifravano i presagi sul futuro guardando il cerchio di un occhio, richiamando così in termine greco che indicava gli onori divini resi ai Ciclopi

Galatea fugge da Polifemo

Riti e sacrifici

Esisteva ancora, al tempo di Pausania, sull’istmo di Corinto, un antico Hieron sul quale si sacrificava ai Ciclopi. Vi sono anche opere che rappresentano i Ciclopi all’opera nelle fucine di Vulcano. Tutte le altre rappresentazioni del Ciclope che abbiamo si riferiscono alla storia di Polifemo.

Il più famoso di tutti: Polifemo

A volte lo vediamo circondato da Ulisse e dai suoi compagni, o mentre afferra uno di loro, per farlo a pezzi e divorarlo; a volte Ulisse gli offre il vino per ubriacarlo; oppure Polifemo è già addormentato e i Greci si avvicinano portando l’enorme palo che stanno per conficcargli nell’occhio posto in mezzo alla sua fronte.

In una maschera in terracotta del Louvre, il volto di Polifemo è come incorniciato dalle braccia e dalle mani che reggono una pietra sopra la sua testa. Un solo occhio è posto al centro della fronte. Conosciamo altre teste simili dei Ciclopi, senza braccia e senza mani; il più notevole di questi monumenti fu ritrovato a Lione, e ne esistono altri a Firenze e al museo di Torino. Raoul Rochette non vi ha visto nella prima,  nient’altro che una maschera tragica, con gli occhi aperti tra le sopracciglia, i due occhi ordinari sono indicati solo dalle palpebre. 

Secondo lo stesso studioso, Polifemo non sarebbe stato raffigurato con un occhio solo o un terzo occhio in nessun monumento greco o etrusco, ma solo nei monumenti romani. Ma il dipinto riprodotto in una tomba etrusca testimonia il contrario: il mostro vi è rappresentato come raccontato da Omero; ma è vero che nelle opere dell’arte greca classica egli fu, senza dubbio, come in molte di quelle appena citate, figurato con due occhi e una fisionomia selvaggia, ma non deforme, i dipinti e le sculture di epoca romana , ispirati dai poeti che celebravano l’amore di Polifemo per la bella ninfa marina Galatea, concepivano che anche il Ciclope non poteva essere del tutto mostruoso, ma un uomo di statura gigantesca; i suoi lineamenti non sarebbero ripugnanti se non fosse sfigurato dal terzo occhio che ha in mezzo alla fronte, come si vede in uno dei dipinti scoperti al Palatino, immerso nell’acqua, mentre guardare dietro uno scoglio la ninfa seduta su un cavallo marino; un Cupido sembra guidarlo al guinzaglio per mezzo di redini avvolte al collo. Sembra un adolescente vigoroso, ancora imberbe, e i suoi capelli sono biondo chiaro. 

Ma, in genere, nei dipinti di Ercolano e Pompei, è rappresentato con la barba e capelli folti, a volte con le orecchie a punta, a volte armato di mazza, a volte con in mano una lira o una siringa cioè un Flauto di Pan. In uno di questi dipinti, un Cupido che monta su un delfino si avvicina e gli porge delle tavolette, questa è una lettera di Galatea

Il pittore ha seguito qui Plulossene e gli altri poeti che mostrarono Polifemo che confidava il suo lamento amoroso ai delfini e li supplicava di servirlo come suoi messaggeri. In un bassorilievo di Villa Albani lo vediamo seduto all’ingresso della sua grotta, tiene una lira grossolanamente fatta con corna di cervo; un Cupido gli parla. Uno dei quadri della galleria descritta da Filostrato ha anche per soggetto gli amori di Polifemo, ma l’autore della descrizione lo rappresenta molto più brutto di quanto non sia nelle poesie e nei dipinti che potrebbero essergli serviti da modello.

Polifemo, Maurice Denis, 1907, Pushkin Museum

(Libera rielaborazione  e adattamento da E. M. Berens. Le Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines de Daremberg et Saglio, 1873-1919)

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