< – Nelle puntate precedenti: Abbiamo visto passare sotto i nostri occhi tutta la storia dei re di Roma: Romolo, che tra l’altro creò il Senato, poi Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio Superbo. Dopo la morte di Romolo il Senato romano non fu in grado di eleggere un nuovo re e dopo molte discussioni tra Romani e Sabini si decise di consentire all’Assemblea dei Curiati di votare un nuovo re di Roma. Scelsero Numa Pompilio. Numa, a differenza di Romolo, era contro la guerra e pensava che il miglior corso per Roma fosse la pace, Numa è accreditato di aver portato la religione nella vita quotidiana romana media.
Il potere dei re era quasi assoluto, sebbene il Senato avesse una certa influenza. C’era una grande eccezione: la regalità non era ereditaria.
Il settimo e ultimo re di Roma fu Lucio Tarquinio il Superbo che era di origine etrusca. Fu anche durante il suo regno che gli Etruschi raggiunsero l’apice del loro dominio su Roma. Più di altri re prima di lui, Tarquinio usò la violenza, l’omicidio e il terrore per mantenere il controllo sullUrbe. Abrogò molte delle precedenti riforme costituzionali dei suoi predecessori. Poi, uno scandalo sessuale in cui fu coinvolta la sua famiglia, portò alla caduta della monarchia.
Osservazioni critiche
Tutta la narrazione dell’età dei re risulta evidente esser leggenda piuttosto che storia. Il suo intero carico di eventi miracolosi basta già da solo ad esporla alla critica. Anche gli autori antichi, Tito Livio, Dionigi d’Alicarnasso, Plutarco, che attingevano ad altri scrittori per noi perduti, dubitavano di alcune tradizioni e gli avvenimenti non sono da loro narrati quasi mai allo stesso modo, ma con molteplici variazioni, spesso contraddittorie. Per cui ad essi manca quasi del tutto un vero fondamento storico.
La tradizione, quale nei lineamenti principali e più comuni è stata qui raccontata, era profondamente radicata nel popolo romano, quasi come fede nazionale.
A Roma si mostravano i luoghi di questi avvenimenti: il fico detto ruminale, sotto il quale, il paniere con i due gemelli si sarebbe fermato; il Lupercale, la grotta della lupa allattante, dove nell’anno 296 a. C. fu posto anche un simulacro di bronzo dell’animale, che si pensa esser quello stesso oggi conservato in Campidoglio; la capanna di Romolo e la tomba d’Acca Larentia, madre adottiva dei gemelli. Era questa dunque una leggenda nata tra i primi abitatori dei colli romani e insieme con altre trasmessa di generazione in generazione, per tradizione orale.
I Romani furono veramente più intenti a meritare che non a scrivere la storia. I primi narratori o annalisti romani non sono più antichi del secolo III a. C., ed essi avevano ereditato un passato di cinque secoli, la cui conoscenza riposava tutta nella tradizione orale, in alcuni documenti scritti e in monumenti.
Ma questi stessi materiali e queste vestigia non risalivano più in là del IV sec., giacché quelli anteriori erano stati distrutti nell’incendio dei Galli (a. 364 di Roma cioé 390 a. C.) e solo dopo restaurati e riprodotti. La storia dell’età monarchica dunque, consisteva nella tradizione e in pochi
documenti non autentici, ma rinnovati. Quando gli scrittori presero a raccogliere la tradizione, fra molteplici narrazioni spesso miracolose, spessissimo varie e discrepanti, cercarono in qualche modo una spiegazione, studiando di ridurre ciò che era mitico a una forma più credibile, e di comporre e conciliare ciò che era controverso.
Spesso pensavano di poter rintracciare la formazione di certi istituti o costumi di cui restava ignota l’origine. Inoltre gli autori greci mescolarono le tradizioni elleniche con la tradizione propriamente romana, connettendo le origini dell’Urbe e anche di molte città italiche, con le leggende eroiche greche.
Da tutto ciò consegui che alla leggenda, prodotto spontaneo della fantasia popolare – già lungamente elaborata nella trasmissione orale – si aggiungessero ancora nuovi e diversi lineamenti per opera di riflessione e di spiegazione dei primi storici; e così passò in forme varie negli scrittori di più tarda età, che noi leggiamo ancora oggi. Cercare come si sia formata e come si sia tramandata la leggenda popolare, discernere gli elementi che sono opera di pura fantasia da quelli che hanno o sembrano avere un germe storico, distinguere ciò che i tentativi esegetici o di spiegazione delle età posteriori vi aggiunsero, tutto ciò è compito della critica storica.
Qui conviene limitarsi a poche osservazioni generali. Ad esempio un chiaro parallelismo fra i quattro primi re: Romolo è latino, re di carattere guerriero; Numa è sabino, re di carattere pacifico e religioso; con Tullo Ostilio ritorna un re latino tutto dedito alle armi; con Anco Marzio si rinnova la tradizione di un re d’origine sabina, parente di Numa, incline alla pace ed alla religione.
Ai due elementi latino e sabino, che nei primi quattro re si vengono alternando, s’aggiunge con Tarquinio Prisco un terzo elemento, l’etrusco; per cui si hanno, rappresentati nella successione reale, i tre elementi costitutivi della nazionalità romana: Latini , Sabini, Etruschi, rispondenti alle tre tribù dei Ramni, Tizii e Luceri, secondo la tradizione. Numa Pompilio è il religioso legislatore, carattere incluso nello stesso suo nome, che si connette colla radice del latino numus, nummus, del gr. nomo, con concetto di misura, ordine, legge; Anco è il re sotto cui si forma e si raccoglie la plebe; Servio quello che alla plebe dà ordinamento e diritto.
Questo pure lo si vede accennato nei nomi, connettendo Anco colla radice di anc-illa, Servio, di origine servile, con servus; onde più che vere personalità storiche sono, anche per altre molte considerazioni, una personificazione simbolica delle istituzioni religiose e dell’ordinamento della plebe. Nella successione dei re si osserva una tendenza a mutare la forma da elettiva in ereditaria, fino a che, con Tarquinio il Superbo, abbiamo l’autorità reale mutata in una tirannide opprimente il patriziato, con una corrispondenza dei mutamenti politici greci (e con la Grecia la casa dei Tarquini ha legami di origine), dove si vede la tirannide, fondata sulla plebe, opporsi all’aristocrazia.
Fra le leggende romane, le greche e le orientali vi sono altre corrispondenze: l’esposizione e il salvamento dei gemelli ricordano l’esposizione di Ciro il Grande e di Mosè; il duello degli Orazi e dei Curiazi trova riscontro non in varie narrazioni d’altri simili duelli nelle storie greche; l’astuzia di Sesto Tarquinio per penetrare in Gabii ricorda quella di Zopiro per entrare in Babilonia (Erodoto III. 154), e il modo con cui il re Tarquinio consiglia il figlio di uccidere i maggiorenti della città non è differente da quello di Trasibulo col messo di Periandro (Erod. V. 92.); la simulata pazzia di Bruto ricorda quella di Solone; e in breve le corrispondenze fra le tradizioni greche e quelle romane sono tante, che Plutarco le raffrontò nei suoi celebri libri di paralleli. Alcuni critici moderni concludono, forse con un po’ di esagerazione, che la parte più antica della storia romana è quasi un romanzo greco.
Un’altra osservazione generale è che uno spazio di 244 anni, quanti la tradizione ne assegna alla monarchia romana, mal si conciliano con soli sette re, trattandosi di monarchia elettiva. Ma non tutto certamente nella storia della monarchia romana è pura leggenda, prodotto della fantasia popolare; buona parte è anche nata da un primo germe storico; l’ elemento miracoloso va a poco a poco dileguandosi, per far luogo ad avvenimenti più credibili, di carattere storico. In generale poi si vuol osservare che, se la leggenda prevale nell’età della monarchia, gli avvenimenti che seguono di poi non sono anch’essi, per un certo spazio di tempo, pienamente certi, essendo stati raccolti dalla tradizione orale, col sussidio di pochi e non autentici documenti.
Dopo l’anno 364 di Roma (390 a. C.) incomincia un momento di maggiore credibilità storica nella narrazione degli avvenimenti del popolo romano. Come poi le leggende si siano formate e siano state trasmesse alle generazioni successive, finché venne il momento in cui furono raccolte e consegnate nelle opere letterarie, non è possibile indicarlo con evidente certezza.
Fra le molte congetture merita di essere ricordata quella elaborata per primo dall’erudito olandese Giacomo Perizonio (Nome grecizzante di Jakob Voorbroek – o anche, in forma latina, Accinctus – filologo olandese 1651- 1715) e poi svolta con più approfondimenti da Giorgio Niebuhr: le leggende di Roma del periodo reale e dei primi tempi della repubblica erano contenute nei canti popolari Iatini, della cui esistenza abbiamo affermazioni sicure di scrittori antichi.
Questi canti si recitavano nei conviti, e contenevano il ricordo e l’esaltazione delle imprese degli antenati; erano componimenti eroici, quasi il primo principio di un’epopea, che si ripetevano di generazione in generazione; da questi poemi si formò la tradizione, quale vigeva nel momento in cui s’incominciò a raccogliere le memorie del passato e a fare la storia, di cui essi furono così il fondamento. Questa congettura non spiega con piena certezza la formazione della leggenda, ma ha, almeno per una certa parte, una buona apparenza di verità.
Ma come andarono le cose in verità?
La primitiva storia dell’umanità in Italia come nel resto d’Europa, non non può essere ridotta a qualche secolo e neppure a qualche migliaio di anni. Essa va molto, molto più indietro, risalendo alla stessa età della pietra. Il Paleolitico (l'”età della pietra antica”) è il periodo in cui per millenni, l’uomo primitivo ha fatto uso di strumenti di pietra e durante il quale le comunità si spostavano in migrazione secondo la stagione e risorse disponibili. Ma intorno al 5000 a.C. – che è una data molto approssimativa –
il Neolitico (“Nuova età della pietra”) iniziò a diffondersi in tutta Europa. Il modello del cacciatore-migratore del Paleolitico cominciò ad andare fuori moda e il popolo del Neolitico iniziò a stabilirsi in luoghi stabili, metter su fattorie e allevare il bestiame: diventarono sedentari, invece di vagare in giro per la caccia.
Gli agricoltori neolitici iniziarono ad apparire in Italia intorno al 5000 aC. Verso il 1800 a.C., alcuni di questi primi italiani stavano già fabbricando e usando oggetti in bronzo – era l’età del Bronzo appunto. Nel frattempo, la civiltà egizia esisteva già da più di mille anni e l’Italia era nettamente indietro rispetto ai tempi. I Greci dell’età del bronzo, avevano già roccaforti in luoghi come Micene e Tirinto, e stavano già esplorando e commerciando in tutto il Mediterraneo. Alcuni di questi greci arrivarono anche in Italia e nelle isole circostanti.
Intorno al 1000 a.C. sorse l’età del ferro. Il ferro, molto più solido del bronzo, fu la più grande scoperta tecnologica dell’epoca. Trasformò una società rurale in una potenza militare e rese possibile ottenere ogni tipo di strumenti. Avere il ferro significava avere armi ed equipaggiamenti molto più efficaci: le spade e i vomeri di ferro duravano più a lungo nel tempo e a poco a poco soppiantarono il bronzo. Villanova, sito chiave in Italia, ha dato il nome alla nuova cultura che faceva uso del ferro.
Andrea Carandini, Il Primo Re e Romulus
Gli studi attuali offrono poche prove a sostegno di una versione particolare del mito della fondazione di Roma, incluso un fondamento storico delle figure di Romolo o Remo. A partire da Fabio Pittore, i resoconti scritti devono aver rispecchiato in una certa misura la storia comune della città.
L’archeologo Andrea Carandini è uno dei pochissimi studiosi moderni che riconoscono Romolo e Remo come figure storiche, e data un antico muro sul versante nord del Palatino alla metà dell’VIII secolo a.C. e lo chiama Murus
Romuli. Gli scavi condotti dal 1985 sotto la direzione sempre di Carandini su un fianco del Palatino, in un’area compresa tra l’Arco di Tito e la Casa delle Vestali, hanno riacceso le discussioni sulla fondazione di Roma e sulla possibile storicità delle antiche tradizioni. Dalle ricerche effettuate è emersa un’importante stratigrafia poggiante su quattro pareti successive databili rispettivamente agli anni -550–530, circa -600, circa -675 e circa -730–720 a.C.
La scoperta dei resti indiscutibili di una delimitazione urbana nel VII secolo a.C. intorno al Palatino fa riferimento per A. Carandini e A. Grandazzi alla fondazione romulana di Roma. Secondo Grandazzi, il mito della fondazione di Roma farebbe riferimento a un evento storico e a un personaggio storico, che conosciamo come Romolo, la cui memoria è stata preservata e mitizzata, in particolare attraverso l’azione di Servio Tullio.
Se l’esistenza fattuale dei resti scoperti da Carandini non viene messa in discussione, sono ancora molto dibattute le interpretazioni che li mettono in relazione con la tradizione annalistica di Romolo e la sua possibile storicità.
Il 20 novembre 2007, il ministro della Cultura italiano, Francesco Rutelli, annunciò la scoperta della grotta dove i romani avrebbero celebrato la festa dei
Lupercali e dove, secondo la leggenda, vissero Romolo e Remo. Sempre secondo l’archeologo Andrea Carandini, si tratta di una delle più grandi scoperte archeologiche mai fatte.
Tuttavia, l’identificazione della grotta Lupercale non è stata unanime, archeologi come Fausto Zevi ritenevano che si tratti piuttosto di un ninfeo dipendente dal palazzo imperiale. Nel 2020 sono stati iniziati degli scavi nel Comizio del Foro Romano a Roma per ritrovare un herôon – edificio dedicato a un eroe o a una divinità – la cui esistenza era stata sospettata fin dall’Ottocento da Giacomo Boni.
Nel febbraio 2020 è stato portato alla luce un sarcofago in tufo (noto già allo stesso
Boni) lungo circa 1,40 metri, associato ad un elemento circolare, probabilmente un altare. Tuttavia, la collocazione del sarcofago e dell’altare corrisponde a quella descritta dall’antico autore Varrone come il luogo dove sarebbe stato ucciso Romolo; e su basi più scientifiche è anche il luogo che l’equipe archeologica di Carandini ritiene fosse il solco sacro tracciato da Romolo.
Ciò induce gli archeologi del Parco Archeologico del Colosseo e dell’Università La Sapienza di Roma a ritenere che il sarcofago possa essere appunto la tomba di Romolo. Si noti che la presenza di un monumento dedicato a un eroe durante l’antichità romana non è necessariamente una prova dell’esistenza storica di Romolo, poiché serve soprattutto a segnare l’inizio del calendario romano e della nascita.politica della città. Che si tratti o meno della tomba di Romolo, la scoperta è comunque ritenuta “eccezionale” dagli archeologi e deve, secondo l’archeologo Paolo Carafa, suscitare un inevitabile dibattito scientifico.
(Fonte: versioni francese e inglese di Wikipedia)
Il Primo Re
Nel 2019 il regista Matteo Rovere dirige il film Il primo re, una rivisitazione del mito di Romolo e Remo, ambientata nel 753 a.C., anno di fondazione di Roma, con Alessio Lapice (Romolo) e Alessandro Borghi (Remo).
Il film è recitato interamente in un protolatino, precedente a quello arcaico, in parte ricostruito dal professor Luca Alfieri, linguista e semiologo
dell’Università degli Studi Guglielmo Marconi che vi ha mutuato elementi di origine indo-europea.
La pellicola si è avvalsa della consulenza di archeologi e studiosi, quali Andrea
Carandini e Donatella Gentili, per ricostruire l’ambientazione storica e collocare la vicenda alla luce delle più recenti scoperte archeologiche e ipotesi filologico-scientifiche.
Romulus
Romulus è una serie televisiva creata sempre da Matteo Rovere nel 2020 e ambientata nell’VIII secolo a.C., che racconta gli eventi e i personaggi che hanno portato alla fondazione di Roma. Viene riproposta la recitazione in lingua latina arcaica come ne Il
primo re, ma a parte questo non ci sono altri legami con la pellicola precedente del regista, poiché i personaggi e la vicenda sono quasi del tutto differenti.
Anche la serie, come il film, si propone di ricostruire la civiltà arcaica in modo preciso e rigoroso, e si avvale anch’essa della consulenza di vari archeologi e storici: ancora una volta Andrea Carandini e poi Paolo Carafa e Valentino Nizzo.
L’eredità dei re Etruschi
I re di Roma, siano stati essi frutto del mito e della leggenda oppure personaggi storici realmente esistiti, portarono nell’Urbe alcuni cambiamenti davvero rilevanti. Il dominio di Roma, che originariamente si estendeva solo su circa un centinaio di chilometri quadrati nel Lazio, alla fine
del regno di Tarquinio il Superbo era cresciuto più o meno di sei volte tanto. Questo si spiega abbastanza facilmente: i Romani primitivi erano una comunità di semplici pastori, gli Etruschi erano un popolo di mercanti, industriali, artigiani. Tutte attività che presuppongono ricchezza, e dove ci sono di mezzo gli affari, c’è anche inevitabilmente la guerra.
Gli ultimi tre re etruschi, soprattutto, hanno contribuito molto a porre le basi della futura Roma, introducendo riforme civili e militari che accrebbero l’efficienza complessiva dello stato. Le riforme militari introdotte da Servio Tullio ad esempio, basate sulle risorse che ogni romano poteva offrire, come l’idoneità al servizio militare in base alle condizioni finanziarie personali, portò ad un migliore impiego della potenza militare a propria disposizione.
La bonifica delle valli paludose, specialmente quella che sarebbe diventata poi il Foro, ha permesso il sorgere di un insieme di insediamenti sulle colline, che hanno contribuito ulteriormente a far crescere questa città.
Gli Etruschi portarono anche l’artigianato, come la lavorazione dei metalli, la ceramica e la falegnameria, rendendo possibile il commercio.
L’organizzazione dei culti religiosi da parte dello stato e la costruzione di templi, fornì al popolo un’identità spirituale e un senso religioso della vita.
Ma a parte tutto ciò, è forse Indro Montanelli, nella sua Storia di Roma del 1956, col suo consueto mordace stile giornalistico, a sintetizzare forse in maniera assai più efficace di tanti storici, il significato e l’impronta della Monarchia Etrusca nello sviluppo della società romana, nel tirare le somme del regno dei Tarquini:
Ma alla morte di Anco Marzio la situazione era del tutto cambiata. I bisogni di guerra avevano stimolato l’industria e quindi favorito l’elemento etrusco, quello che dava i falegnami, i fabbri, gli armieri, i mercanti. N’erano arrivati da Tarquinia, da Arezzo, da Veio, le botteghe s’erano riempite
di garzoni e d’apprendisti che, imparato bene il mestiere, avevano messo su altre botteghe.Il rialzo dei salari aveva richiamato in città la mano d’opera contadina. I soldati, dopo aver fatto la guerra, tornavano malvolentieri sui campi e preferivano restare a Roma, dove si trovavano con più facilità donne e vino. Ma soprattutto le vittorie vi avevano fatto confluire rivoli di schiavi. Ed
era questa moltitudine forestiera che formava il plenum da cui viene la parola plebe.Lucio Tarquinio e i suoi amici etruschi dovettero veder subito che profitto si poteva trarre da questa massa di gente, per la maggior parte esclusa dai comizi curiati, se si fosse potuto convincerla che solo un re forestiero come lui avrebbe potuto farne valere i diritti. E per questo l’arringò, promettendole chissà cosa, magari ciò che poi fece davvero.
Egli aveva dietro di sé quella che oggi si chiamerebbe la Confindustria:[…] gente che quattrini per la propaganda elettorale aveva da spenderne quanti ne voleva, ed era decisa a farlo per garantirsi un governo più disposto di quelli precedenti a tutelare i suoi interessi e a seguire quella politica
espansionistica ch’era la condizione della sua prosperità.Certamente ci riuscirono perché Lucio Tarquinio fu eletto col nome di Tarquinio Prisco, rimase sul trono trentotto anni, e per liberarsi di lui patrizi, cioè i «terrieri», dovettero farlo assassinare. Ma inutilmente.
Prima di tutto perché la corona, dopo di lui, passò a suo figlio, eppoi a suo nipote. In secondo luogo perché, più che la causa, l’avvento della dinastia dei Tarquini fu l’effetto di una certa svolta che la storia di Roma aveva subito e che non le consentiva più di tornare al suo primitivo e arcaico ordinamento sociale e alla politica che ne derivava.
Il re della Confindustria e della plebe fu un re autoritario, guerriero, pianificatore e demagogo. Volle una reggia e se la fece costruire secondo lo stile etrusco, molto più raffinato di quello romano.
Poi nella reggia fece innalzare un trono, e lì si mise a sedere, in pompa magna, con lo scettro in mano, e un elmo ripieno di pennacchi.Dovette farlo un po’ per vanità, un po’ perché conosceva i suoi polli e sapeva benissimo che la plebe, cui doveva la sua elezione e di cui intendeva conservarsi il favore, amava il fasto e il re lo vuol vedere in alta uniforme, circondato da corazzieri. A differenza dei suoi predecessori che la maggior parte del loro tempo la passavano a dir messa e a fare oroscopi, egli la trascorse a esercitare il potere temporale cioè a far politica e guerre.
Prima soggiogò tutto il Lazio, poi attaccò briga con i sabini e rosicchiò loro un’altra parte di terre. Per fare questo, ebbe bisogno di molte armi che l’industria pesante gli fornì facendoci sopra grossi affari, e di molti rifornimenti che i mercanti gli assicurarono guadagnandoci sopra larghe prebende. Gli storici repubblicani e anti-etruschi scrissero poi che il suo regno fu tutto un intrallazzo, una generale mangeria, il trionfo delle mance e delle «bustarelle»…
Roma si stava affermando come una nuova potenza nel Mediterraneo. Gli Etruschi accesero la scintilla che porterà Roma sulla strada per lei decisa dal destino. Ma realtà c’era ancora molto da fare, perché se è vero che verso la fine del VI secolo a.C., Roma stava diventando sempre più importante, è vero anche che non poteva ancora competere con le grandi città della Grecia, come Atene, Corinto e Sparta, con le quali non sarebbe stata in grado di confrontarsi senza essere pesantemente sconfitta e sottomessa, rischiando quindi di perdere il posto che invece la storia le riserverà.
Nel prossimo episodio – > : Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, membro della famiglia Tarquinia e vedovo di Lucrezia, protagonisti del rovesciamento della monarchia, divennero i primi consoli del nuovo governo di Roma. Questa nuova repubblica avrebbe portato poi i romani a conquistare la maggior parte del mondo mediterraneo e sarebbe sopravvissuta per i successivi 500 anni fino all’ascesa di Giulio Cesare e Ottaviano.