Il mistero del Saturno di Goya
L’immagine è incancellabile: il dio cannibale in ginocchio, avvolto dalle tenebre; i folli occhi ossessionati e dalla bocca il sangue nero; le dita lacerate, intrise ancora di sangue, e la figura devastata nella presa: un’opera di tale potere indelebile, che sembra essere esistita prima di essere creata, come un ricordo radicato, bandito, inevitabile come un incubo.
È il dipinto noto come Saturno che divora uno dei suoi figli, di Francisco Goya, un’immagine che è rimasta impressa nella mia psiche da quando l’ho visto per la prima volta al college, nel 1969.
I critici hanno definito il suo Saturno un simbolo del male, un Satana, un mostro, ed è così che l’ho visto per la prima volta, come un enorme e pazzo Richard Nixon, che divorava i giovani americani durante la guerra del Vietnam: un padre cannibale, geloso delle nostre libertà, determinato a distruggere noi, i nostri ideali, i nostri speranze.
Trent’anni dopo, il dipinto evoca ancora in me un terrore interiore, un senso di isolamento, solitudine, dolore: questo dio in ginocchio, che fa a pezzi il proprio figlio, avvolto in un’oscurità che è come un catrame psichico, aggrappato a me , aggrappandomi a lui, a un dramma di omicidio primordiale, tanto che ora sembro partecipe oltre che spettatore. Lo guardo e sono implicato nel crimine.
Questa storia di padri e figli è uno dei racconti fondamentali della tradizione occidentale […] La prima versione del mito di Crono – Saturno è il nome romano successivo – fu scritta da Esiodo nella sua Teogonia, intorno all’VIII secolo a.C.
Goya produsse un disegno a gesso, Saturno che divora i suoi figli, nel 1796-97, molto probabilmente influenzato da un dipinto di Rubens sullo stesso soggetto nella Collezione Reale di Madrid. Entrambe le opere sono illustrative di un tema letterario, spietato, persino morbosamente comico.
Il Saturno di Rubens sembra sia uscito fuori a fare una passeggiata, il piede appoggiato momentaneamente su una pietra, una mano che tiene il suo bastone, l’altra che afferra il suo pasto – il figlio neonato – mordendo il petto del ragazzo come “un robusto borghese fiammingo che si china su un’oca arrosto “, per citare Wyndham Lewis.
Il Titano di Goya ha gli occhi astuti; la sua bocca, serrata sulla gamba del figlio fino alla coscia, è rivolta verso l’alto in un sorriso malizioso; le gambe di un secondo figlio che tiene quasi con delicatezza, il mignolo leggermente sollevato. È probabile che nessuna delle due opere evochi più di una smorfia passeggera allo spettatore.
Tutto questo cambia con il Saturno del 1820-24, una delle serie conosciute come i Black Paintings. Cosa ha riportato Goya su questo soggetto? Che cosa ha riconosciuto in se stesso che ha caricato l’opera di un potere così crudo e che sa ferire così profondamente?
[…]Mi chiedo: la morte prematura degli altri suoi figli, riflessa nella solitudine della Quinta del Sordo, la casa in cui si trasferì nel 1819, sette anni dopo la morte di Josefa, ispirarono la visione di Goya del dio cannibale? Stava descrivendo la sua sensazione di venir potenzialmente tagliato fuori da tutto, e la visione di vite interrotte prima che possano iniziare?
Anche se suggerisco questa possibile interpretazione, le incongruenze all’interno del dipinto la mettono in discussione. La figura stretta nelle mani del gigante non è un bambino, ma un adulto, il che porta a un’altra chiave di lettura: Saturno/Crono come l’antica divinità del Tempo, implacabile divoratore di tutta l’umanità. […]
Goya, malato, sordo, sulla settantina, ha dipinto il suo solitario terrore della propria mortalità attraverso il suo Saturno ?
Ma se il gigante rappresenta il Tempo, perché è dipinto inginocchiato, con le gambe affusolate e deformi che sembrano incapaci di reggere il peso del suo enorme torso? È questo il commento sardonico di Goya sulla recente guerra della Spagna contro la Francia: egli ci rappresenta il Tempo come uno storpio, costretto a sovralimentarsi con gli innumerevoli morti? Con i morti di tutte le guerre?
L’inizio del diciannovesimo secolo ha fornito a Saturno/Crono una tale quantità di cadaveri, che il Tempo stesso è stato messo in ginocchio, con gli occhi spalancati, come se non fosse in grado di digerire un altro boccone? O la figura è un simbolo della guerra stessa, il ritratto culminante degli orrori che l’artista già ha raccontato nella sua serie di incisioni, I disastri della guerra, nel 1810-1820?
Ogni interpretazione di un dipinto radicato in modo così complesso nella mente di Goya porta, come nei sogni, a nuove interpretazioni.
Nell’universo prima della venuta di Cristo, Saturno, mangiando freneticamente il proprio dio bambino, potrebbe essere visto come impegnato in un atto di perversa comunione. Il Dio cristiano ha sacrificato suo figlio affinché tutta l’umanità potesse vivere; il Titano agisce per paura e gelosia, e il corpo di suo figlio rivela non il mistero della resurrezione, ma i misteri oscuri e violenti della psiche, un Tartaro, un Inferno di sangue e follia, dove tutti gli istinti e le emozioni si fondono, e le conseguenze vengono dimenticate . Un regno di incoscienza. Di mutilazione e di omicidio.
Da questo punto di vista, Saturno potrebbe essere come un monito di Goya all’umanità, le cui guerre e le crudeltà sfrenate, la cui devozione alla superstizione e ai falsi dei, la porteranno alla dissoluzione, al “Nada” scarabocchiato sul cadavere come ultimo messaggio nell’incisione: “Nulla. L’evento lo dirà.” Nada. Ello dirá ( I disastri della guerra n. 69)
Eppure, nonostante tutti i significati mitologici, politici, sociali, storici e religiosi che attribuiamo al dipinto, c’è qualcosa da cui ci allontaniamo ancora; il tema fondamentale: un uomo che distrugge il proprio figlio. […]
Padri e figli godono, o sono condannati, nel gioco delle forze straordinariamente potenti dell’amore e dell’orgoglio, della delusione e del dominio, la bilancia eternamente squilibrata, a volte sembra che si sposti in un solo momento, poi oscilla all’indietro. […]
Le famiglie non sono entità spiritualizzate, sono calderoni di drammi emotivi. I rapporti tra i membri della famiglia sono sempre misteriosi, influenzati da correnti mai veramente comprese dagli estranei.
Possiamo solo speculare qui, conoscendo le complessità all’interno delle nostre famiglie.
[…] Ancora una volta, guardiamo il dipinto.
Copriamo il lato destro del viso, e vediamo un Titano colto sul fatto, sfidando chiunque a fermarlo, l’occhio sinistro sporgente che fissa selvaggiamente qualche testimone invisibile della sua ferocia, la sua rudezza piratesca accentuata dalle nette linee verticali del sopracciglio , incrociati come i punti di una cicatrice.
Copriamo l’occhio sinistro e ci troviamo di fronte a un essere sofferente, con la pupilla scura che guarda con orrore la propria incontrollata furia omicida, il sopracciglio incurvato verso l’alto come un punto interrogativo capovolto, come se stesse chiedendo: “Perché sono costretto a fare questo?”
A diciotto anni, una volta vidi in questo dipinto, con disgusto, solo l’immagine di un gigante raccapricciante, un padre divoratore.
Trent’anni dopo, comprendo la conoscenza nascosta che suscitò in Goya la sua terribile compassione per il dio cannibale.
La battaglia primordiale tra padri e figli è inevitabile, le radici di tali terrificanti istinti sono troppo profonde per essere completamente estirpate.
Come padri, temiamo non solo di poter distruggere i nostri figli, attraverso la rabbia, la gelosia, la paura; attraverso il nostro amore a volte disperato; attraverso mille peccati apparentemente piccoli, ma con cui segretamente intendiamo distruggerli.
Vogliamo proteggerli dai mostri che popolano i loro incubi, solo per scoprire tra i volti di quei mostri il nostro.
[…]
L’antico mito che un tempo gli fornì il soggetto per un disegno non memorabile, diventa, in questo tardo periodo della sua vita, l’ispirazione per pronunciare l’indicibile.
L’ironia, credo, non sarebbe stata sprecata con Goya: lo stesso dipinto che il mondo vede e presso cui rabbrividisce – l’immagine che esso considera una delle più orribili di tutta l’arte occidentale – aveva donato pace al suo creatore.
(Jay Scott Morgan, The Mystery of Goya’s Saturn, New England Review 2006, traduzione di brani dall’originale in inglese http://cat.middlebury.edu/~nereview/22-3/morgan.html)