Il culto di Helios fu introdotto in Grecia dall’Asia. Secondo le prime concezioni dei Greci egli non era solo il dio sole, ma anche la personificazione dell’esistenza stessa di tutti gli esseri, delle cose e di ogni forza che le anima, poiché la luce è ben nota come condizione indispensabile di tutta la vita terrestre.
Il culto del sole era originariamente molto diffuso, non solo tra i primi greci stessi, ma anche tra le altre nazioni primitive. Per noi il sole è semplicemente il globo di luce, che, alto sopra le nostre teste, svolge ogni giorno le funzioni che gli sono assegnate da un Potere invisibile; non possiamo, quindi, che farci una vaga idea dell’impressione che ha prodotto sullo spirito di un popolo il cui intelletto era ancora nella sua infanzia e che credeva, con la semplicità di un fanciullo, che ogni potere della natura fosse una divinità, che a seconda che il suo carattere potesse essere funesto o benefico, operando per la distruzione o il beneficio del genere umano.
Helio e Aurora
Elio, che era figlio dei titani Iperione e Teia, è descritto nel suo sorgere ogni mattina a oriente, preceduto da sua sorella Eos (l’Aurora), che, con le sue dita rosee, dipinge i suoi colori sulle cime delle montagne, e si allontana in quel velo nebbioso attraverso il quale sta per apparire suo fratello.
Quando esplode in tutta la gloriosa luce del giorno, Eos scompare ed Helios ora guida il suo carro sfrecciante lungo il percorso abituale. Questo carro, che è d’oro brunito, è tirato da quattro destrieri sputafuoco, dietro i quali il giovane dio sta ritto con occhi lampeggianti, la testa circondata di raggi, tenendo in una mano le redini di quei corsieri infuocati che nelle mani di qualunque auriga, tranne le sue, sarebbero ingestibili.
Quando verso sera scende lungo la curva dell’orizzonte per rinfrescare la sua fronte ardente nelle acque del mare profondo, è seguito da vicino da sua sorella Selene (la Luna), che ora è pronta a prendere in mano il mondo, e illuminare con la sua mezzaluna d’argento la notte oscura. Helios intanto si riposa dalle sue fatiche e, sdraiato dolcemente sul fresco triclinio o divano profumato preparato per lui dalle ninfe del mare, si prepara per un’altra giornata vivificante, gioiosa e bella.
Un percorso curvo sopra una terra piatta
Può sembrare strano che, sebbene i Greci considerassero la terra un cerchio piatto (parliamo dei greci dell’età più arcaica ovviamente), non viene data alcuna spiegazione del fatto che Helios sprofondi nell’estremo a ovest regolarmente ogni sera, eppure riapparendo regolarmente ogni mattina a est.
Se doveva passare attraverso il Tartaro, e così riguadagnare l’estremità opposta attraverso le viscere della terra, o se pensavano che possedesse qualsiasi altro mezzo per compiere questo transito, non c’è una un solo verso né in Omero né in Esiodo che possa dimostrarlo.
In tempi successivi, tuttavia, i poeti inventarono la graziosa finzione, che quando Helios aveva terminato il suo corso e una volta raggiunto il lato occidentale dell’orizzonte, una barca alata, o una coppa, che gli era stata fabbricata da Efesto, lo aspettava lì, e lo conduce rapidamente, col suo glorioso equipaggio, ad oriente, dove ricominciava la sua brillante e fulgida corsa.
Questa divinità veniva invocata come testimone quando si prestava un giuramento solenne, poiché si credeva che nulla sfuggisse al suo occhio onniveggente, e fu questo fatto che gli permise di informare Demetra della sorte della figlia, come già raccontato. Doveva possedere greggi e armenti in varie località, che potrebbero forse essere intese a rappresentare i giorni e le notti dell’anno o le stelle del cielo.
Gli amori di Elio
Si dice che Helios amasse Clizia, una figlia di Oceano, che ricambiò ardentemente il suo amore; ma nel corso del tempo il volubile dio sole trasferì le sue attenzioni a Leucotea, la figlia di Orcamo, re dei paesi orientali, cosa che fece arrabbiare così tanto la abbandonata Clizia che informò Orcamo della relazione di sua figlia, e lui la punì in modo disumano, seppellendola viva.
Helios, sopraffatto dal dolore, si adoperò, con ogni mezzo in suo potere, di richiamarla in vita. Alla fine, trovando vani tutti i suoi sforzi, asperse la sua tomba con nettare celeste, e immediatamente spuntò dal luogo un germoglio di incenso, che diffuse tutt’intorno il suo profumo aromatico.
La gelosa Clizia non guadagnò nulla dalla sua condotta crudele, perché il dio del sole non ritornò da lei. Inconsolabile per la sua perdita, ella si gettò a terra e rifiutò il cibo. Per nove lunghi giorni rivolse il viso verso il glorioso dio del giorno, mentre egli si muoveva per i cieli, finché finalmente le sue membra si radicarono nella terra, ed ella si trasformò in un fiore, che stava sempre rivolto al sole.
Helios sposò Perse, figlia di Oceano, e i loro figli furono Eete, re della Colchide (celebrato nella leggenda degli Argonauti come il possessore del vello d’oro), e Circe, la famosa maga.
Fetonte, incauto auriga
Helios aveva un altro figlio di nome Fetonte, la cui madre era Climene, una delle Oceanine. Il giovane era molto bello, e gran favorito di Afrodite, che gli affidò la cura di uno dei suoi templi. Questa lusinghiera prova della considerazione che la dea aveva per lui, lo fece diventare vanitoso e presuntuoso.
Il suo amico Epafo, figlio di Zeus, cercava di controllare la sua vanità giovanile fingendo di non credere alla sua affermazione che il dio sole fosse suo padre. Fetonte, pieno di risentimento e desideroso di poter confutare la calunnia, si affrettò a recasi da sua madre Climene, e la pregò di dirgli se Helios fosse davvero suo padre.
Mossa dalle sue suppliche, e insieme adirata per l’incredulità di Epafo, Climene indicò il sole glorioso e splendente che stava sopra di loro, e assicurò al figlio che quella sfera luminosa lo aveva generato, aggiungendo che se avesse ancora qualche dubbio, avrebbe potuto visitare la radiosa dimora del grande dio della luce e chiederlo a lui di persona. Felicissimo delle parole rassicuranti di sua madre e seguendo le indicazioni che lei gli aveva dato, Fetonte si diresse rapidamente verso il palazzo di suo padre.
Quando entrò nel reggia del dio sole, i raggi abbaglianti quasi lo accecarono e gli impedirono di avvicinarsi al trono su cui era seduto suo padre, circondato dalle ore, dai giorni, dai mesi, dagli anni e dalle stagioni. Elio, che con il suo occhio onniveggente lo aveva osservato da lontano, si tolse la corona di raggi scintillanti e gli ordinò di non aver paura, ma di avvicinarsi. Incoraggiato da questa gentile accoglienza, Fetonte lo pregò di dargli una tale prova del suo amore, affinché tutto il mondo potesse essere convinto che fosse davvero suo figlio; dopodiché Helios lo invitò ad esprimere qualsiasi desiderio egli avesse, e giurò per lo Stige che lo avrebbe esaudito.
Il giovane impetuoso chiese subito il permesso di guidare il carro del sole per un giorno intero. Suo padre ascoltò con orrore questa sua richiesta ed elencandogli i molti pericoli che avrebbero insidiato il suo cammino, si sforzò di dissuaderlo da un’impresa così pericolosa; ma suo figlio, sordo a ogni consiglio, insistette con tale ostinazione, che Elio fu costretto con riluttanza a condurlo fino al suo carro. Fetonte si fermò un momento ad ammirare la bellezza di quel luccicante equipaggiamento, dono del Dio del fuoco, che lo aveva fabbricato tutto in oro, e lo aveva ornato di pietre preziose, che riflettevano i raggi del sole. E ora Helios, vedendo che sua sorella, l’Aurora, già apriva le sue porte nel roseo oriente, ordinò alle Ore di aggiogare i cavalli. Le dee obbedirono prontamente al comando.
Il ragazzo, impaziente, prese con gioia il suo posto e afferrò le ambite redini, ma non appena i focosi corsieri del sole sentirono la mano inesperta che tentava di guidarli, divennero irrequieti e ingestibili. Selvaggiamente si precipitarono fuori dal loro percorso abituale, ora librandosi così in alto da minacciare di distruzione i cieli, ora scendendo così in basso da incendiare quasi la terra.
Alla fine lo sfortunato auriga, accecato dal bagliore e terrorizzato dalla terribile devastazione che aveva causato, lasciò cadere le redini dalle sue mani tremanti. Montagne e foreste erano ormai in fiamme, fiumi e torrenti si erano prosciugati e una generale conflagrazione era imminente.
La terra bruciata chiese aiuto a Zeus, che scagliò il suo fulmine contro Fetonte e con un lampo fece fermare i destrieri infuocati. Il corpo senza vita del giovane, precipitato al suolo, fu ricevuto e sepolto dalle ninfe del torrente.
Le sue sorelle lo piansero così a lungo che furono trasformate da Zeus in pioppi, e le lacrime che versarono, cadendo nelle acque, divennero gocce di ambra chiara e trasparente.
Cicno, il fedele amico dell’infelice Fetonte, provò un dolore così straziante per il suo terribile destino, che si struggeva e si consumava. Gli dei, mossi a compassione, lo trasformarono in un cigno, che per sempre covava sul luogo fatale dove le acque si erano chiuse sopra la testa del suo sfortunato amico.
L’isola di Rodi
La sede principale del culto di Helios era l’isola di Rodi, che secondo il mito seguente era una terra a lui consacrata. Al tempo della Titanomachia, quando gli dei si divisero il mondo a sorte, Helios era assente e di conseguenza non ricette alcuna parte. Quindi si lamentò con Zeus, che gli propose di avere una nuova assegnazione, ma questo Elio non lo permise, raccontando che, mentre egli seguiva il suo viaggio quotidiano, il suo occhio penetrante aveva visto un’isola bella e fertile che giaceva sotto le onde dell’oceano, e che se gli immortali avessero giurato di dargli il possesso indisturbato di questo luogo, si sarebbe accontentato di prenderlo come parte a lui assegnata dell’universo. Gli dei prestarono giuramento, dopodiché l’isola di Rodi si sollevò immediatamente al di sopra della superficie delle acque.
Il Colosso di Rodi
Il famoso Colosso di Rodi, che era una delle sette meraviglie del mondo, fu eretto in onore di Helios. Questa meravigliosa statua era alta 70 cubiti, cioé 32 metri o 105 piedi, ed era fabbricata interamente in bronzo; formava l’ingresso al porto di Rodi, e la nave più grande poteva facilmente passare tra le sue gambe, che stavano su dei sostegni, a ciascun lato del porto. Sebbene così gigantesco, era perfettamente proporzionato in ogni sua parte. Qualche idea di la sua dimensione può essere ricavata dal fatto che pochissime persone erano in grado di poter abbracciare il pollice di questa statua con le braccia. All’interno del Colosso c’era una scala a chiocciola che portava in cima, dalla cui sommità, si dice che fossero visibili le coste della Siria e anche quelle dell’Egitto.
(Libera rielaborazione da E. M. Berens. “The Myths and Legends of Ancient Greece and Rome”, 1880)