Esone, re di Iolco, fu costretto a fuggire dai suoi domini, usurpati dal fratello minore Pelia e riuscì a stento a salvare anche la vita del suo giovane figlio Giasone, che aveva allora solo dieci anni. Lo affidò alle cure del centauro Chirone dal quale fu accuratamente addestrato insieme ad altri nobili giovani che come lui, si segnalarono poi per il loro coraggio e le loro imprese eroiche. Giasone rimase per dieci anni nella grotta del Centauro, dal quale fu istruito in tutte le arti, compresa quella della guerra.
Mentre si avvicinava all’età adulta, il ragazzo fu pervaso dal desiderio invincibile di riconquistare l’eredità paterna. Quindi prese congedo dal suo gentile amico e precettore e partì per Iolco per sottrarre allo zio Pelia il regno che egli aveva così ingiustamente usurpato. Nel corso del suo viaggio giunse fino ad un fiume ampio e spumeggiante, sulle rive del quale scorse una vecchia che lo implorò di aiutarla a passare.
Dapprima esitò, sapendo che anche lui stesso avrebbe trovato qualche difficoltà ad attraversare quell’impetuoso torrente; ma, provando pietà per la povera vecchia, la sollevò dunque tra le sue braccia e riuscì, con grande sforzo, a raggiungere la sponda opposta.
Ma non appena i suoi piedi ebbero toccato la terra, ella si trasformò in una bellissima donna, la quale rivolgendo lo sguardo benevolo verso il giovane smarrito, lo informò di essere la dea Hera e che d’ora in poi, lei lo avrebbe guidato e protetto per sempre. Poi scomparve. Pieno di speranza e coraggio per questa apparizione divina, Giasone proseguì il suo viaggio.
Si accorse allora che nell’attraversare il fiume, egli aveva perso uno dei suoi sandali, ma non potendo recuperarlo, fu costretto a procedere senza di esso. Al suo arrivo a Iolco trovò suo zio nella piazza del mercato che stava offrendo un sacrificio pubblico a Poseidone.
Quando il re ebbe concluso il rito, osservò con curiosità il distinto straniero, la cui bellezza virile e il portamento eroico aveva già attirato l’attenzione del suo popolo. Notò che aveva un piede scalzo e gli venne in mente una predizione oracolare che gli annunciava la perdita del regno da parte di un uomo che sarebbe giunto indossando un solo sandalo. Egli, tuttavia dissimulò i suoi timori, conversò gentilmente con il giovane e riuscì a farsi dire da lui il suo nome e lo scopo del suo viaggio.
Poi fingendo di essere molto contento del nipote, Pelia lo ospitò nel suo sontuoso palazzo per cinque giorni, durante i quali furono celebrate delle feste con gran giubilo.
Il sesto giorno Giasone si presentò allo zio e con virile fermezza gli chiese il trono e il regno che gli spettavano di diritto. Pelia, dissimulando i suoi veri sentimenti, acconsentì sorridendo a soddisfare la sua richiesta, a condizione che in cambio, Giasone intraprendesse una spedizione per suo conto, perché la sua età avanzata gli impediva di compierla egli stesso. Informò il nipote che l’ombra di Frisso, antico principe di Beozia, gli era apparsa in sogno e che lo pregava di riportare dalla Colchide le sue spoglie mortali e il vello d’oro. Questo vello era il manto dorato di Crisomallo, un ariete alato che Ermes aveva donato a Nefele, madre di Frisso, affinché entrambi, lui e sua sorella Elle, raggiungessero la Colchide per sfuggire ad Atamante, che dava loro la caccia. Era costui il marito di Nefele, ma l’aveva ripudiata per sposare un’altra donna e perciò voleva uccidere i due fratelli, per mettere al trono un altro suo figlio.
Pelia promise a Giasone che se fosse riuscito a procurargli queste sacre reliquie, il trono, il regno e lo scettro sarebbero stati suoi.
Il vello d’oro
Atamante, re di Beozia, aveva sposato, come già detto, Nefele, una ninfa delle nubi e i loro figli erano Elle e Frisso. La natura irrequieta ed incostante di Nefele, tuttavia, la allontanò presto dal marito, il quale, essendo un mortale, aveva poca affinità con la divina consorte; così la ripudiò e sposò la bella ma malvagia Ino (sorella di Semele), che odiava i suoi figliastri e pianificò persino la loro eliminazione.
Ma la vigile Nefele riuscì ad aggirare i suoi crudeli disegni e portò via i fanciulli dal palazzo. Poi li pose entrambi sul dorso di un ariete alato, con un vello d’oro puro che le era stato dato da Hermes. Su questo meraviglioso animale, i due fratelli cavalcarono nell’aria, per terra e per mare; ma lungo la strada Elle, presa dalle vertigini, cadde in mare (chiamato dal suo nome appunto Ellesponto) e annegò. Frisso arrivò sano e salvo nella Colchide, dove fu accolto in modo ospitale dal re Eete (noto anche come Eeta, oppure Eeto), che gli diede in sposa una delle sue figlie.
In segno di gratitudine a Zeus per la protezione accordatagli durante la fuga, Frisso gli sacrificò l’ariete d’oro, mentre il vello lo donò ad Eete, che lo custodì nel Bosco di Ares, dedicandolo al dio della Guerra. Avendo dichiarato un oracolo che la vita dello stesso Eete dipendeva dalla custodia di questo vello, egli faceva vigilare accuratamente l’ingresso del boschetto, ponendogli a guardia un immenso drago che non dormiva mai.
La nave Argo
Torniamo ora a Giasone che intraprese con entusiasmo la pericolosa spedizione propostagli dallo zio, il quale, ben consapevole dei pericoli che questa avrebbe comportato, sperava così di liberarsi per sempre dell’intruso sgradito. Di conseguenza Giasone iniziò a organizzare i suoi piani senza indugio e invitò i giovani eroi con cui aveva stretto amicizia mentre era sotto la custodia di Chirone, a unirsi a lui nella pericolosa spedizione.
Nessuno di essi rifiutò l’invito, anzi furono tutti onorati di aver avuto il privilegio di prendere parte a un’impresa così nobile ed eroica. Giasone si rivolse quindi ad Argo, uno dei più abili costruttori di navi del suo tempo, il quale, sotto la guida di Pallade Atena, realizzò una splendida galea a cinquanta remi, che fu chiamata appunto Argo, dal nome del suo progettista.
Nel ponte superiore della nave la dea Atena aveva incastrato un asse tratto dalla quercia parlante dell’oracolo di Zeus a Dodona, che conservava ancora i suoi poteri profetici. L’esterno della nave era ornato di magnifici intagli ed era interamente costruita in modo così robusto, da sfidare la forza dei venti e delle onde, ma al tempo stesso così leggera che gli eroi, quando necessario, potevano muoverla trascinandola sulle loro spalle.
Quando la nave fu completata, gli Argonauti (così chiamati dalla loro nave) si radunarono e i loro posti furono distribuiti a sorte. Giasone venne nominato comandante in capo della spedizione, Tifi aveva il ruolo di timoniere, Linceo era il pilota. A prua della nave sedeva il famoso eroe Eracle; a poppa Peleo (padre di Achille) e Telamone (padre di Aiace il Grande). Tra i rematori c’erano Castore e Polluce, Neleo (il padre di Nestore), Admeto (il marito di Alceste), Meleagro (l’uccisore del cinghiale calidonio), Orfeo (il famoso cantore), Menezio (il padre di Patroclo), Teseo (poi re di Atene) e il suo amico Piritoo (figlio di Issione), Ila (figlio adottivo di Eracle), Eufemo (figlio di Poseidone), Oileo (padre di Aiace il Minore), Zete e Calaide (i figli di Borea, entrambi con le ali ai piedi), Idmone il Veggente (il figlio di Apollo), Mopso (indovino della Tessaglia), ecc.
Prima della loro partenza, Giasone offrì un solenne sacrificio a Poseidone e a tutte le altre divinità del mare; invocò anche la protezione di Zeus e delle Parche, e poi, avendo avuto Mopso dei presagi e trovandoli di buon auspicio, gli eroi salirono a bordo. E ora che si era levata una brezza favorevole, essi presero dunque il posto loro assegnato, salparono l’ancora e la nave scivolò via come un delfino fuori dal porto, nelle acque del grande mare.
Arrivo a Lemno
La nave Argo, col suo valoroso equipaggio di cinquanta eroi, fu presto lontana nella brezza marina e sulla riva aleggiava soltanto una debole eco delle dolci note di Orfeo. Per un po’ tutto andò liscio, ma presto la nave fu spinta dalle condizioni atmosferiche del tempo, a rifugiarsi in un porto dell’isola di Lemno.
Quest’isola era abitata solo da donne, che l’anno prima, in un impeto di folle gelosia avevano ucciso tutta la popolazione maschile dell’isola, ad eccezione del padre della loro regina, Ipsipile. Dato che la protezione della loro patria era ora affidata a loro stesse, esse erano sempre all’erta del pericolo.
Quando dunque avvistarono da lontano la Argo, si armarono e si precipitarono verso la riva, decise a respingere ogni invasione del loro territorio. Gli Argonauti, giunti in porto, stupiti di vedere una folla armata di donne, mandarono un araldo su una delle loro barche, portando il bastone della pace e dell’amicizia. Ipsipile, la regina, propose di inviare cibo e doni agli stranieri per impedirne lo sbarco; ma la sua vecchia nutrice che le stava accanto, suggerì che questa sarebbe stata una buona occasione per procurarsi dei mariti nobili, che avrebbero agito come loro difensori e così porre fine alle loro continue paure.
Ipsipile ascoltò attentamente il consiglio della sua nutrice e dopo qualche altra consultazione, decise di invitare gli estranei in città. Vestito con il suo mantello di porpora, dono di Atena, Giasone con alcuni dei suoi compagni, scese a riva dove fu accolto da una delegazione composta dalla più bella delle donne di Lemno e come comandante della spedizione fu invitato nel palazzo della regina. Quando apparve davanti a Ipsipile, la donna fu così colpita dalla sua presenza divina ed eroica che gli presentò lo scettro di suo padre e lo invitò a sedersi sul trono accanto a lei.
Giasone allora prese la sua residenza nel castello reale, mentre i suoi compagni si dispersero per la città, trascorrendo il loro tempo in banchetti e piaceri. Eracle con pochi compagni scelti, rimase invece a bordo. Di giorno in giorno la loro partenza tardava e gli Argonauti, persi nella loro nuova vita di dissolutezza, avevano quasi dimenticato lo scopo della spedizione, quando d’un tratto Eracle appare fra loro e finalmente li richiama al senso del dovere.
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