GIASONE E GLI ARGONAUTI - III
Reading Time: 23 minutesLe Simplegadi
Dopo un soggiorno di quindici giorni in Bitinia, gli Argonauti ripresero il mare, ma non avevano proseguito molto oltre la loro rotta, quando udirono un terribile e tremendo schianto: si erano scontrati contro due grandi isole rocciose chiamate Simplegadi, che galleggiavano nel mare e si univano per poi separarsi di nuovo, costantemente.
Prima di lasciare la Bitinia, il vecchio veggente cieco Fineo li aveva informati che sarebbero stati costretti a passare tra queste terribili rocce e li aveva istruiti su come farlo in sicurezza. Mentre si avvicinavano alla scena del pericolo, ricordarono il suo consiglio e agirono di conseguenza. Tifo stava al timone, mentre Eufemo teneva in mano una colomba pronta per essere liberata; Fineo infatti aveva detto loro che se la colomba si fosse avventurata a passare, avrebbero potuto seguirla tranquillamente. Eufemo allora liberò l’uccello, che passò velocemente attraverso le isole, ma non senza perdere alcune delle piume della sua coda, così esse rapidamente si stavano di nuovo per unire; allora gli Argonauti remarono con tutte le loro forze per superare il pericoloso passaggio, prima che fosse troppo tardi. Dopo la formidabile impresa della Argo, le Simplegadi si unirono stabilmente, e si attaccarono al fondo del mare.
Gli uccelli Stinfali
La nave Argo proseguì il suo corso lungo la costa meridionale del Ponto e giunse all’isola di Aretia che era abitata da uccelli, i quali, volando nell’aria, scoccavano dalle loro ali delle piume acuminate come frecce. Mentre la nave stava giungendo a riva, Oileo fu ferito da uno di questi uccelli, dopodiché gli Argonauti tennero un consiglio e su proposta di Anfidama, un eroe esperto, tutti indossarono i loro elmi e alzarono i loro scudi scintillanti, pronunciando nello stesso tempo grida così spaventose che gli uccelli volarono via terrorizzati. Gli Argonauti poterono dunque giungere sani e salvi sull’isola.
Qui trovarono quattro giovani naufraghi che si rivelarono essere i figli di Frisso, e furono accolti da Giasone come suoi cugini. Dopo essere stati informati dello scopo della spedizione, si offrirono volontari per accompagnare l’equipaggio della Argo e per mostrare agli eroi la via della Colchide.
Li informarono anche che il vello d’oro era custodito da un terribile drago, che il re Eete era estremamente crudele e che, in quanto figlio di Apollo, possedeva una forza sovrumana.
Arrivo nella Colchide
Portando con sé i quattro nuovi arrivati, presto gli Argonauti giunsero in vista delle cime innevate del Caucaso, quando verso sera, si udì sopra di loro un sonoro sbattere d’ali. Era l’aquila gigante di Prometeo in viaggio per torturare il nobile e longanime Titano, i cui paurosi gemiti poco dopo giunsero alle loro orecchie.
Quella notte arrivarono alla meta del loro viaggio e gettarono l’ancora nelle limpide acque del fiume Fasi. Sulla riva sinistra si trovava Ceuta, capitale della Colchide; alla loro destra un vasto campo e il sacro boschetto di Ares, ove era nascosto il vello d’oro, sospeso su una magnifica quercia che brillava al sole.
Giasone allora riempì di vino una coppa d’oro e offrì una libagione alla madre terra, agli dei del paese e alle ombre di quelli degli eroi che erano morti durante il viaggio. La mattina seguente si tenne un consiglio nel quale si decise che prima di ricorrere alla forza, si dovesse prima mostrare un atteggiamento gentile e conciliante verso il re Eete per indurlo a cedere il vello d’oro.
Fu stabilito che Giasone, con alcuni compagni scelti, si sarebbe recato al castello reale lasciando il resto dell’equipaggio a guardia della Argo. Accompagnato dunque da Telamone, Augia e dai quattro figli di Frisso, egli partì per il palazzo.
Quando giunsero in vista del castello rimasero colpiti dalla vastità e imponenza dell’edificio, all’ingresso del quale sfavillanti fontane sorgevano in mezzo a giardini rigogliosi e simili a dei veri e propri parchi.
Qui incontrarono le figlie del re, Calciope e Medea, che stavano passeggiando negli orti del palazzo. La prima, con sua grande gioia, riconobbe nei giovani che accompagnavano l’eroe i propri figli perduti da tempo, che aveva pianto come morti, mentre la giovane e bella Medea fu colpita dalla forma nobile e virile di Giasone.
La notizia del ritorno dei figli di Frisso si diffuse presto per il palazzo e arrivò fino allo stesso Eete, dopodiché gli stranieri gli furono presentati a corte e furono invitati a un banchetto che il re ordinò fosse preparato in loro onore. Tutte le più belle nobili dame erano presenti a questo convito; ma agli occhi di Giasone nessuna poteva essere paragonata alla figlia del re, la giovane e bella Medea.
Finito il banchetto, Giasone raccontò al re le sue varie avventure e anche lo scopo della sua spedizione, con tutte le circostanze che avevano portato alla sua impresa. Eete ascoltò con muta indignazione questo racconto e poi proruppe in un torrente di invettive contro gli Argonauti e i suoi nipoti, dichiarando che il Vello era di sua legittima proprietà e che in nessun caso avrebbe acconsentito a rinunciarvi.
Giasone, tuttavia, con parole miti e persuasive, riuscì a placarlo, proponendogli un patto: se lui e gli altri eroi suoi eroi fossero riusciti a dimostrare la loro origine divina compiendo una qualche missione che richiedesse un potere sovrumano, come loro ricompensa essi avrebbero ottenuto pacificamente il Vello.
Il re Eete accettò e incaricò allora Giasone di aggiogare i suoi due buoi sputafuoco (che erano stati creati per lui da Efesto) al suo pesante aratro di ferro. Fatto ciò, dovevano disporre con essi il campo sassoso di Ares e poi seminare nei solchi i denti velenosi di un drago da cui sarebbero sorti degli uomini armati che avrebbe poi dovuto affrontare, altrimenti sarebbero stati tutti trucidati per mano loro.
Quando Giasone sentì cosa ci si aspettava da lui, il suo cuore per un momento fu preso dallo sconforto; ma nondimeno decise di non rinunciare alla sua impresa, e di confidare nell’aiuto degli Dei, nel proprio coraggio e nella propria forza.
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