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GIASONE E GLI ARGONAUTI

GIASONE E GLI ARGONAUTI - V

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Altre avventure degli Argonauti

Lasciata l’isola di Circe, le vele furono sospinte da gentili zefiri verso la dimora delle Sirene, le cui dolci melodie giunsero presto alle loro orecchie. Gli Argonauti, fortemente colpiti dal loro canto, si stavano preparando a sbarcare, quando Orfeo percepì il pericolo e con l’accompagnamento della sua magica lira, intonò uno dei suoi incantevoli motivi, che distrasse totalmente i suoi ascoltatori e l’equipaggio potè così superare l’isola in sicurezza; ma non prima che Bute, uno di loro, attirato dalla musica seducente delle Sirene, fosse balzato giù dalla nave tra le onde. Ma Afrodite, per via della sua giovane età, lo salvò e dolcemente lo condusse sull’isola di Libibeo prima che le Sirene potessero raggiungerlo, e qui egli vi rimase per molti anni. 

Ora per gli Argonauti si preparavano a nuovi pericoli, perché da un lato c’era il vortice di Cariddi che ribolliva e schiumava, mentre dall’altro torreggiava la possente roccia da cui il mostro Scilla piombava sugli sfortunati marinai; ma qui la dea Hera venne in loro aiuto e mandò loro la ninfa del mare Teti, che li guidò sani e salvi attraverso questi pericolosi stretti. 

Gli Argonauti giunsero poi all’isola di Feace, dove furono ospitati dal re Alcinoo e dalla sua regina Arete. Ma il banchetto preparato per loro dal gentile sovrano fu inaspettatamente interrotto dall’apparizione di un grande esercito di Colchi inviato da Eete a chiedere la restaurazione della figlia. 

Medea si gettò ai piedi della regina e la implorò di salvarla dall’ira del padre e Arete, nella sua bontà di cuore, le promise la sua protezione. Il mattino dopo, in un’assemblea del popolo alla quale i Colchi erano stati invitati a presenziare, questi furono informati che poiché Medea era la legittima moglie di Giasone non potevano acconsentire a consegnarla.

Allora i Colchi, vedendo che la richiesta del re non poteva essere accolta e temendo di affrontare l’ira di Eete se fossero tornati nella Colchide senza di lei, chiesero ad Alcinoo il permesso di stabilirsi nel suo regno, richiesta che fu loro accordata. Dopo questi eventi gli Argonauti salparono di nuovo e fecero rotta per Iolco; ma nel corso di una notte terribile e spaventosa si levò un potente temporale e al mattino si trovarono arenati sulle infide sabbie mobili della Sirte, sulle coste della Libia

Lì era tutto un deserto desolato e arido, inabitato da qualsiasi creatura vivente, tranne i serpenti velenosi che erano nati dal sangue della Medusa quando Perseo era giunto su quelle pianure aride. Avevano già trascorso diversi giorni in questa dimora di desolazione, sotto i raggi del sole cocente e si erano abbandonati alla più profonda disperazione, quando la regina libica, che era una profetessa di origine divina, apparve a Giasone rivelandogli che un cavallo marino sarebbe stato inviato dagli dei per fungere loro da guida.

Si era appena allontanata, che in lontananza si poteva già scorrere un gigantesco ippocampo che si dirigeva verso la nave Argo. Giasone allora riferì ai suoi compagni i particolari del suo colloquio con la profetessa libica e quindi si decise di trascinare la Argo in  spalla e di andare dovunque il cavallo marino li avrebbe condotti. 

Cominciarono quindi un lungo e faticoso viaggio attraverso il deserto e alla fine, dopo dodici giorni di duro lavoro e terribili sofferenze, la gradita vista del mare accolse la loro vista. In segno di gratitudine per essere stati salvati dai loro molteplici pericoli, offrirono sacrifici agli dei e rimisero la loro nave nelle acque profonde dell’oceano. 

Arrivo a Creta

Giasone con il vello d'oro, Bertel Thorvaldsen 1828. Museo Thorvaldsen, Copenaghen.Con sincera gioia e letizia proseguirono il viaggio di ritorno e dopo alcuni giorni giunsero all’isola di Creta, dove si proponevano di rifornirsi di viveri e di acqua. 

Al loro sbarco, però, si oppose un terribile gigante che proteggeva l’isola da tutti gli intrusi. Questi, di nome Talo, era uno degli automi di Efesto, fabbricato col bronzo; era invulnerabile, tranne che nella sua caviglia destra, dove c’erano un tendine e una vena. 

Quando vide l’Argo avvicinarsi alla costa, le scagliò contro enormi sassi, che inevitabilmente avrebbero affondato la nave se l’equipaggio non avesse fatto una frettolosa ritirata. Anche se purtroppo in mancanza di cibo e acqua, gli Argonauti avevano deciso di proseguire il loro viaggio piuttosto che affrontare un avversario così potente, quando Medea si fece avanti e assicurò loro che se si fossero fidati di lei, avrebbero distrutto il gigante. 

Avvolta nelle pieghe di un ricco mantello viola, salì sul ponte e dopo aver invocato l’aiuto del Fato, pronunciò un incantesimo magico che ebbe l’effetto di gettare Talo in un sonno profondo. Il colosso si distese per tutta la sua lunghezza a terra e così facendo ella poté sfiorare la sua caviglia vulnerabile con la punta di una roccia aguzza, dopo di che un potente flusso di sangue sgorgò dalla ferita. 

Risvegliato dal dolore, il mostro cercò di rialzarsi, ma invano e con un potente gemito di angoscia, il gigante cadde morto e il suo enorme corpo rotolò pesantemente nell’abisso. Gli eroi ora in grado di sbarcare, fecero rifornimento, dopodiché ripresero il viaggio di ritorno.

Arrivo a Iolco

Dopo una terribile notte di tempesta e di oscurità superarono l’isola di Egina e finalmente raggiunsero in sicurezza il porto di Iolco; qui il racconto delle loro numerose avventure, fughe e salvataggi all’ultimo istante, fu ascoltato con meravigliata ammirazione dai loro compatrioti. 

La Argo venne consacrata a Poseidone e fu accuratamente conservata per molte generazioni, finché non ne rimase nessuna traccia, quando poi fu posta nei cieli come una brillante costellazione. 

Al suo arrivo a Iolco, Giasone condusse la sua bella sposa al palazzo di suo zio Pelia, portando con sé il vello d’oro per il quale era stata intrapresa questa pericolosa spedizione. Ma il vecchio re, che non si era mai aspettato che Giasone tornasse vivo, rifiutò vilmente di adempiere alla sua parte del patto e rifiutò di abdicare al trono. Indignata per i torti subiti dal marito, Medea li vendicò in un modo scioccante. 

Fece amicizia con le figlie del re e finse grande interesse per tutte le loro preoccupazioni. Acquisita la loro fiducia, le informò che tra le sue numerose arti magiche, possedeva il potere di restituire agli anziani tutto il vigore e la forza della giovinezza e per dare loro una prova convincente della verità della sua affermazione, ella prese un vecchio montone e lo fece bollire in un calderone e dopo aver pronunciato varie formule di incantesimi, dal pentolone uscì un bellissimo e giovane agnello. 

Quindi assicurò loro che in modo simile avrebbero potuto restituire al loro vecchio padre il suo aspetto e il suo vigore giovanile. Le affettuose e credule figlie di Pelia prestarono fin troppo ascolto alla malvagia maga e così il vecchio re morì per mano delle sue stesse figlie innocenti.

Morte di Giasone

Medea e Giasone fuggirono poi a Corinto, dove finalmente trovarono, per un certo periodo pace e tranquillità, essendo stata completata la loro felicità dalla nascita di tre figli. 

Col passare del tempo però, Medea cominciò a perdere la bellezza che aveva conquistato l’amore di suo marito, egli si stancò di lei e fu attratto invece dal fascino giovanile di Glauce, la bella figlia di Creonte, re di Corinto

Giasone aveva ottenuto il consenso del padre alla loro unione e il giorno delle nozze era già fissato, prima che egli rivelasse a Medea il tradimento che meditava contro di lei. Usò tutte le sue capacità di persuasione per indurla ad acconsentire alla sua unione con Glauce, assicurandole che il suo affetto non era in alcun modo diminuito, ma che per il bene dei vantaggi che ne sarebbero derivati dai loro figli, aveva deciso di formando questa alleanza con la casa reale. 

Benché giustamente infuriata per la sua condotta ingannevole, Medea dissimulò la sua ira e fingendosi soddisfatta di questa spiegazione, inviò come dono di nozze alla sua rivale una magnifica veste d’oro. 

Questa veste era però imbevuta di un veleno mortale che penetrava nella carne e nelle ossa di chi lo indossava e le bruciava come se fosse un fuoco ardente. Soddisfatta della bellezza dell’indumento, l’ignara Glauce non perse tempo a indossarlo; ma non appena lo fece, il veleno cominciò a fare effetto. Invano cercò di strapparsi la veste di dosso, che sfidava tutti gli sforzi fatti per essere tolta; dopo orribili e prolungate sofferenze, ella spirò. 

In preda alla follia per aver perso l’amore dell’amore del marito, Medea mise a morte i suoi tre figli e quando Giasone, assetato di vendetta per la morte di Glauce, si precipitò a casa sua in cerca di Medea, trovò lo spettacolo orribile dei suoi bambini assassinati. 

Si precipitò freneticamente a cercare l’assassina, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Alla fine, sentendo un rombo sopra la sua testa, alzò lo sguardo e vide Medea che sfrecciava via nell’aria su un carro d’oro trainato dai draghi. In un impeto di disperazione Giasone si gettò sulla propria spada e perì sulla soglia della sua casa desolata e deserta.

Giasone e il vello d'oro

(Libera traduzione da Myths and Legend of Ancient Greece and Rome di E. M. Berens, 1880 con aggiunte e integrazioni)

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