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La terza guerra punica fu la fase finale di un conflitto noto come le guerre puniche, che contrappose Roma contro Cartagine per più di un secolo. Il conflitto terminò dopo una breve campagna e un lungo assedio che durò dal 149 al 146 a.C. dC, con l’annientamento della città punica, che viene rasa al suolo. Nonostante la distruzione materiale, la civiltà cartaginese non scomparve e molti dei suoi elementi furono integrati nella civiltà dell’Africa romana.
Abbiamo ora tracciato la crescita del potere della Roma repubblicana, poiché attraverso due secoli e più di conquiste essa ha esteso la sua autorità, prima in tutta Italia e poi su quasi tutta i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. Dev’essere ora nostro compito, meno piacevole, seguire le fortune in declino della repubblica durante l’ultimo secolo della sua esistenza. Apprenderemo qui che le guerre condotte per il bottino e il dominio sono alla fine più rovinose, se possibile, per il conquistatore che per il vinto.
La guerra servile in Sicilia (134-132 aC)
Miseria dei plebei
Con l’inizio di questo periodo troviamo in Sicilia una terribile lotta tra padroni e schiavi — o quella che è nota come “La prima guerra servile”. La situazione degli eventi in quell’isola era il conseguente risultato del sistema schiavistico romano. I prigionieri catturati in guerra venivano solitamente venduti come schiavi e servi. Il gran numero di risorse fornite dalle numerose conquiste dei romani, fece sì che gli schiavi diventassero quasi come una droga che invase i mercati di esseri umani del mondo romano.
Erano così a buon mercato che i padroni trovavano più redditizio sfinire spietatamente i loro schiavi con pochi anni di duro lavoro e poi comprarne altri, piuttosto che preservare le loro vite per un periodo più lungo, con un trattamento più umano. In caso di malattia, venivano lasciati morire senza alcuna attenzione, poiché le spese di cura superavano il costo dei nuovi acquisti.
Alcuni possedimenti siciliani furono lavorati da ben 20.000 schiavi. Affinché ogni proprietario potesse riconoscere il proprio servo, quei poveri disgraziati venivano marchiati come bestiame. Ciò che rende tutto questo ancora più sconcertante è il fatto che molti di questi schiavi erano in tutto e per tutto pari ai loro proprietari e spesso erano addirittura a loro superiori. Solo le fortune o le sventure della guerra avevano fatto di uno il servo e dell’altro il padrone.
Una parte considerevole dei possedimenti in Sicilia erano semplici fattorie da pascolo, i cui proprietari trovavano l’allevamento della lana per l’abbigliamento delle legioni romane più redditizio della coltivazione del grano. Gli schiavi che pascolavano le greggi in queste fattorie non ricevevano dai loro padroni né paga, né cibo, né vestiti. Ci si aspettava che provvedessero ai loro bisogni con le mandrie di cui si occupavano, derubando i viaggiatori sulle strade e saccheggiando le abitazioni dei contadini. Erano ben armati ed erano sempre accompagnati da cani feroci. I magistrati non osarono punirli delle loro malefatte, per timore dei loro padroni, che erano onnipotenti a Roma.
La miserevole condizione di questi schiavi e la crudeltà dei loro padroni infine, spinse i primi alla rivolta. L’insurrezione si estese in tutta l’isola, fino a quando 200.000 schiavi presero le armi ed entrarono in possesso di molte delle roccaforti del paese. Sconfissero quattro eserciti romani inviati contro di loro e per tre anni sfidarono il potere di Roma. Alla fine, tuttavia, nell’anno 132 a.C., la rivolta fu repressa e la pace fu ripristinata nella provincia ribelle. Nell’anno 102 a.C. scoppiò un’altra insurrezione di schiavi sempre in Sicilia, e ci vollero tre anni per sedarla. Quest’ultima rivolta è nota come “La seconda guerra servile”.
Le terre pubbliche
Nella stessa Italia esistevano condizioni non meno miserevoli che in Sicilia. Quando i diversi stati della penisola furono soggiogati, ampie porzioni del territorio conquistato erano divenute demanio pubblico (ager publicus); giacchè, dopo la sottomissione di una provincia, Roma non lasciava mai ai conquistati più di due terzi delle loro terre e spesso nemmeno quelle. La terra espropriata venne ceduta per le aste pubbliche, affittata a canoni bassi, assegnata a soldati congedati o lasciata inutilizzata. Queste situazione fondiaria può essere paragonata a quella delle terre pubbliche nella storia degli Stati Uniti. Anche la questione agraria in Irlanda, venutasi a creare tra i proprietari terrieri e gli eredi inquilini, può fornire un’idea dei disordini nell’antica Roma per il possesso della terra.
La situazione era questa: in vari modi, la maggior parte delle terre pubbliche era caduta nelle mani dei più ricchi. Essi soli avevano il capitale necessario per acquistarle e farle lavorare a proprio vantaggio; quindi i possedimenti dei piccoli proprietari furono gradualmente assorbiti dai grandi latifondisti.
Questi grandi proprietari, inoltre, disattendendo una legge che proibiva a chiunque di possedere più di cinquecento iugeri di terra, ebbero spesso proprietà pari a quell’estensione, se non superiore. Si dice che quasi tutte le terre d’Italia, verso l’inizio del I secolo a.C., fossero possedute da non più di 2000 persone; poiché i grandi proprietari, oltre alle terre che si erano assicurati con l’acquisto dal governo o che avevano strappato ai contadini più poveri, rivendicavano enormi appezzamenti di cui erano soltanto occupatori abusivi.
Erano stati lasciati così a lungo nel possesso indisturbato di queste terre governative che erano arrivati a considerarle assolutamente proprie. In molti casi, essendosi sentiti al sicuro per un lungo lasso di tempo – poiché le terre erano state tramandate da molte generazioni – i proprietari avevano speso ingenti somme per il loro miglioramento e ora resistevano, come davanti grande abuso, a ogni tentativo di espropriarli dei loro possedimenti ereditari. Anche le agenzie di credito avevano, in molti casi, fatto dei prestiti ai ricchi latifondisti per il mantenimento di queste terre e naturalmente si schierarono dalla parte di questi grossi proprietari nella loro opposizione, in nome di un ipotetico usucapione, a tutti i tentativi di ridistribuirne la proprietà.
Questi ricchi “possessori” impiegavano schiavi piuttosto che lavoratori retribuiti o coloni (che avrebbero potuto ripagare il latifondista stesso con il lavoro agricolo delle loro braccia, ricevendo in cambio il diritto di riservare per sé stessi il necessario per sopravvivere), poiché trovavano questa come la soluzione più redditizia; così i Romani più poveri, lasciati senza lavoro, si accalcarono nelle città, radunandosi specialmente a Roma, dove vivevano in uno stato di viziosa indolenza. I grandi proprietari avevano anche maggior interesse nell’allevare il bestiame piuttosto che coltivare la terra. Tutta l’Italia divenne quindi un grande pascolo bovino e ovino.
Così, in gran parte attraverso il funzionamento del sistema fondiario pubblico, il popolo romano era stato diviso in due grandi classi, che sono state variamente designate come i Ricchi e i Poveri, i Proprietari e i Nullatenenti, gli Ottimati (i “Migliori”) e i Populares (il “Popolo”). Non si sente più parlare di patrizi e plebei. Roma era diventata una comunità di milionari e di mendicanti.
Per molti anni prima e dopo il periodo in cui siamo giunti, si è svolta un’aspra lotta tra queste due classi; proprio un tale conflitto come abbiamo visto, è stato il primo confronto tra la nobiltà e il popolo nella prima storia di Roma. La parte più istruttiva della parabola della repubblica romana si trova nei registri di questa successiva lotta. La miseria delle grandi masse portava naturalmente a continue agitazioni nella capitale. I capi popolari sottoposero leggi su leggi al Senato e portarono passo dopo passo, la questione della ridistribuzione della terre pubbliche davanti alle assemblee del popolo, per abbattere gli abusi esistenti.
Le Riforme dei Gracchi
I più noti paladini della causa delle classi povere contro i ricchi e i potenti furono Tiberio e Gaio Gracco. Questi riformatori, sono annoverati tra gli oratori più popolari che Roma abbia mai prodotto. Hanno combattuto eloquentemente contro i torti subiti della gente comune. Disse Tiberio: “Voi siete chiamati ‘signori della terra’ senza possederne una sola zolla da chiamare vostra”. Il popolo lo fece tribuno; e in quella posizione assicurò il passaggio di una legge per la ridistribuzione delle terre pubbliche che diede qualche sollievo alla popolazione più povera. Tolse ai proprietari senza figli, tutte le terre oltre i cinquecento iugeri; quelli che avevano un figlio unico, potevano possedere settecentocinquanta iugeri e quelli con due figli, mille.
Alla fine del suo mandato, Tiberio si presentò una seconda volta per il tribunato. I nobili si unirono per sconfiggerlo. Prevedendo che non sarebbe stato rieletto, Tiberio decise di usare la forza il giorno delle votazioni. I suoi partigiani furono sopraffatti e lui e trecento dei suoi seguaci furono uccisi nel Foro e i loro corpi gettati nel Tevere (133 a.C.). Questa era la prima volta che il Foro Romano era stato teatro di una scena di tale violenza e criminalità.
Gaio Gracco, fratello minore di Tiberio, assunse ora la posizione resa vacante dalla sua morte. Si racconta che Gaio fece un sogno in cui lo spirito di suo fratello sembrava rivolgersi a lui così: “Gaio, perché indugi? Non c’è via di scampo: una vita per entrambi e una morte in difesa del popolo, è il nostro destino”. Il sogno si avverò. Gaio fu eletto tribuno nel 123 a.C. Si assicurò l’approvazione delle leggi sul grano, che prevedevano che esso fosse venduto ai poveri, dai granai pubblici, a metà del suo valore o meno. Questa fu una misura assai poco saggia e pericolosa. Non passò molto tempo prima che il grano fosse distribuito gratuitamente a tutti i richiedenti. Una parte considerevole della popolazione della Capitale visse così in uno stato di degradante disoccupazione e si sosteneva col sussidio pubblico.
Gaio propose altre misure nell’interesse del popolo, che furono aspramente osteggiate dagli Ottimati. Alla fine i due ordini entrarono in collisione e si arrivò allo scontro armato. Gracco e i suoi seguaci si rifugiarono sull’Aventino, ma alla lunga non resistettero all’assedio degli avversari. Gaio si diede quindi la morte per mano del suo servo che su sua richiesta lo infilzò con la spada (121 a.C.) e 3000 dei suoi seguaci furono massacrati. Il console Lucio Opimo offrì come compenso per la testa di Gaio il suo peso in oro. Questa è la prima volta nella storia romana in cui per la testa di un uomo veniva offerta e pagata una taglia, ma non sarà l’ultima.
Il popolo considererà sempre i Gracchi come martiri della propria causa e la loro memoria verrà conservata in statue, dipinti e scritti. A Cornelia, loro madre, fu eretto un monumento recante la semplice iscrizione: “La Madre dei Gracchi”.
(Trad. dall’inglese da High school Ancient History, Greece and Rome di Philip Van Ness Myers, 1901)
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Giugurta (in libico-berberoYugurten o Yugarten, c. 160 – 104 a.C.) fu un re della Numidia. Quando il re numida Micipsa, che aveva adottato Giugurta, morì nel 118 a.C., Giugurta e i suoi due fratelli adottivi, Iempsale e Aderbale, gli succedettero. Giugurta fece in modo di far uccidere Iempsale e, dopo una guerra civile, sconfisse e uccise Aderbale nel 112 a.C.
La morte di Aderbale, che era contro il volere di Roma, insieme alla crescente rabbia popolare diffusasi nella Capitale dopo che Giugurta era riuscito a corrompere i senatori romani e ad evitare così il castigo per i suoi crimini, portò alla guerra tra Roma e Numidia. Dopo una serie di battaglie in Afriche tra le forze romane e quelle numidiche, Giugurta fu catturato nel 105 a.C. e fatto sfilare a Roma come parte del trionfo romano di Gaio Mario. Fu gettato nella prigione Tulliana, dove fu giustiziato per strangolamento nel 104 a.C. A Giugurta sopravvisse il figlio Oxyntas.