Alcibiade e la Sicilia
Alcibiade e la spedizione siciliana (415-413 a.C.)
La pace di Nicia, come ci dice Tucidide, era solo nominale. Alcuni degli alleati delle due principali parti della tregua ne furono scontenti e di conseguenza i suoi termini non furono eseguiti in buona fede o con convinzione da nessuna delle due parti. Così la guerra andò avanti. Per circa sette anni, tuttavia, Atene e Sparta si astennero dall’invadere il territorio l’una dell’altra; ma anche durante questo periodo ciascuno delle due polis aiutava i suoi alleati a far guerra ai sudditi o alleati dell’altra. Alla fine, le ostilità divamparono in una guerra aperta e dichiarata e tutta l’Ellade fu nuovamente incendiata dai fuochi della lotta fratricida.
Il personaggio più in vista da parte ateniese durante in quest’ultimo periodo della lotta fu Alcibiade, un uomo versatile e brillante, ma un consigliere sconsiderato e infido. Fu allievo di Socrate, ma non seguì i consigli del suo maestro. I suoi sontuosi festini e le sue ricche orge, il lusso, il fascino personale, le promesse di potenza, ricchezza e di gloria, sembravano l’unico modo con cui egli legava strettamente a sé le persone e il loro consenso, poiché possedeva tutti quei tratti caratteriali che rendono alcuni gli uomini degli idoli demagoghi e senza scrupoli e che diventano poi molto popolari. La sua influenza sulla democrazia divenne illimitata. Con l’impiego spregiudicato dei vari mezzi di cui poteva disporre questo fortunato capopopolo, poté imporre nell’assemblea cittadina quasi ogni misura che gli piacesse sostenere.
I più prudenti degli Ateniesi erano pieni di apprensione per l’avvenire dello Stato sotto la sua guida. Il noto misantropo Timone diede espressione a questo sentimento quando, dopo che Alcibiade ebbe assicurato l’assenso dell’assemblea popolare a uno dei suoi provvedimenti impolitici, gli disse: «Va’ avanti, ragazzo mio coraggioso, e prospera, perché la tua prosperità porterà avanti la rovina di tutta questa folla». E così è stato, come vedremo.
L’impresa di Alcibiade che ebbe più successo, in senso timoniano, fu quella di incitare gli Ateniesi ad intraprendere una spedizione contro la città dorica di Siracusa, in Sicilia. Il progetto che Alcibiade stava meditando nella sua mente era magnifico. Propose che gli Ateniesi, dopo aver effettuato la conquista della Sicilia, facessero di questa la base delle loro operazioni sia contro l’Africa che contro l’Italia. Sottomessi gli Italici e i Cartaginesi, le armate di tutto il mondo ellenico fuori del Peloponneso si sarebbero rivolte contro gli Spartani, che con un solo colpo sarebbero stati schiacciati per sempre e Atene sarebbe rimasta arbitro incontrastato dei destini dell’Ellade.
Alcibiade riuscì a persuadere gli Ateniesi ad intraprendere almeno la prima parte della colossale impresa. Un’immensa flotta fu accuratamente equipaggiata e presidiata. Con apprensione, i cittadini di Atene osservarono lo squadrone mentre si allontanava dal porto di Atene. Consisteva di centotrentaquattro costose triremi, con trentaseimila soldati e marinai. I comandanti erano Alcibiade, Nicia e Lamaco. Successivamente Demostene fu inviato con un rinforzo composto da settantatré triremi e cinquemila soldati.
Se gli Ateniesi avessero previsto il destino della loro splendida armata, la loro ansia si sarebbe trasformata in disperazione. “La stessa Atene salpava dal Pireo, per non tornare mai più”.
Appena la spedizione arrivò in Sicilia, Alcibiade, che era uno dei principali generali al comando dell’armata, fu richiamato ad Atene per rispondere a un’accusa di empietà.
Proprio alla vigilia della partenza della spedizione, infatti, le numerose statue di Hermes sparse per la città furono gravemente mutilate. L’atto sacrilego produsse naturalmente una terribile eccitazione. Alcibiade fu accusato di avere una mano nella vicenda, e inoltre di aver imitato i sacri riti dei misteri eleusini. Approfittando dell’assenza di lui e dei suoi amici, i suoi avversari si erano assicurati l’approvazione di un decreto che ne richiedeva il richiamo e il processo.
Temendo di mettersi nelle mani dei suoi nemici ad Atene, fuggì a Sparta, e lì, diventando un consigliere traditore al soldo del nemico, fece tutto ciò che era in suo potere per rovinare la stessa spedizione che aveva pianificato. Consigliò agli Spartani di mandare subito il loro miglior generale presso i Siracusani. Questi inviarono Gilippo, un abile comandante, il cui comando contribuì in gran parte alla sconfitta totale e irrecuperabile che alla fine subirono gli Ateniesi. La loro flotta e l’esercito furono entrambi praticamente annientati.
La rovina degli Ateniesi fu resa assolutamente completa dall’incompetenza e superstizione di Nicia, il quale, quando si verificò un’eclissi di luna, persistette nel seguire il consiglio dei suoi indovini, e ritardò per giorni una ritirata da cui dipendeva la salvezza del suo esercito.
Furono condannati a morte i generali ateniesi Nicia e Demostene, che con circa settemila soldati furono fatti prigionieri. Apprendendo la loro sentenza, entrambi si tolsero la vita. Gli altri prigionieri furono deportati nelle cave di pietra a cielo aperto, dove centinaia di persone morirono rapidamente esposte alla fatica e alla fame. La maggior parte dei disgraziati sopravvissuti furono infine venduti come schiavi. Il disastro fu terribile e completo. Le risorse di Atene furono distrutte.