Le guerre tra Roma e Veio scoppiarono all'inizio del V secolo a.C., fino alla caduta di quest'ultima nel 396 aC. Una fase del conflitto è irta di difficoltà, e sfocia nel disastro di Cremera intorno al 477 a.C. Brenno il capo dei Galli Senoni sconfigge i romani nella battaglia dell'Allia, quindi attacca Roma e conquista gran parte della città, tenendola in ostaggio per diversi mesi, intorno al 387 a.C.
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Le guerre tra Roma e Veio scoppiarono all’inizio del V secolo a.C., fino alla caduta di quest’ultima nel 396 a.C. Una fase del conflitto è irta di difficoltà, e sfocia nel disastro di Cremera intorno al 477 a.C. Brenno il capo dei Galli Senoni sconfigge i romani nella battaglia dell’Allia, quindi attacca Roma e conquista gran parte della città, tenendola in ostaggio per diversi mesi, intorno al 387 a.C.
La prima guerra sannitica (343-341 a.C.)
L’unione dei due ordini nello stato, permise ora ai Romani di impiegare la loro forza non più divisa per soggiogare i diversi stati della penisola.
I più formidabili concorrenti dei Romani per la supremazia in Italia, erano i Sanniti, rozzi e bellicosi montanari che tenevano gli Appennini ad est del Lazio. Erano degni rivali dei “figli di Marte”. Le lotte successive tra queste stirpi bellicose sono note come la prima, la seconda e la terza guerra sannitica. Esse si estesero per un periodo di mezzo secolo e nel loro corso coinvolsero quasi tutti gli stati d’Italia.
Della prima di questa serie di guerre sappiamo molto poco, anche se Livio ne scrisse una lunga ma purtroppo molto inaffidabile narrazione. Nel bel mezzo della lotta, Roma si trovò di fronte a un’enorme rivolta dei suoi alleati latini e lasciando la guerra incompiuta, rivolse le sue forze contro gli insorti.
Rivolta delle città latine (340-338 a.C.)
La lotta tra i Romani e i loro alleati latini non era altro che la vecchia contesa all’interno delle mura dell’Urbe tra patrizi e plebei, trasferita in un’arena più grande. Come i nobili avevano oppresso i plebei, così ora entrambi questi ordini si univano nell’oppressione dei latini – i plebei una volte ottenute loro migliori condizioni di vita, si dimenticarono le lezioni ricevute nelle avversità.
Gli alleati latini chiedevano una parte nel governo e che le terre acquisite con la conquista fossero distribuite tra loro come tra i cittadini romani. I Romani rifiutarono.
Tutto il Lazio si sollevò in rivolta contro l’ingiustizia e la tirannia dell’oppressore. Dopo circa tre anni di duri combattimenti, la ribellione fu soppressa. La lega latina era ormai sciolta. Quattro delle città conservarono la loro indipendenza; le altre tuttavia, furono rese parte del dominio romano. Gli abitanti di alcune di queste ultime città furono ammessi alla piena cittadinanza romana, ma quelli delle altre furono ridotti virtualmente alla condizione di sudditi.
Roma, in una parola, aveva convertito la confederazione in un impero, proprio come Atene cento anni prima aveva convertito la Lega di Delo in un dominio imperiale.
Seconda e terza guerra sannitica (326-290 a.C.)
Pochi anni dopo la chiusura della contesa con i latini, i Romani erano di nuovo in guerra con i loro vecchi rivali, i Sanniti. Nonostante questi ultimi fossero stati completamente sconfitti in questo secondo conflitto, non passò molto tempo prima che fossero di nuovo in armi e impegnati nella loro terza lotta con Roma. Questa volta avevano formato una potente coalizione che abbracciava gli Etruschi, gli Umbri, i Galli e altre nazioni.
I Romani alle Forche Caudine
L’imprudenza dei due consoli Tito Veturio Calvino e Spurio Postumo Albino portò l’esercito romano verso la più umiliante sconfitta che avessero mai vissuto. Gaio Ponzio, comandante sannita, tese loro una trappola e riuscì ad ingaggiar battaglia vicino a Caudium, nel fossato delle Forche Caudine, una valle stretta, chiusa da tutti i lati da montagne inaccessibili. Imbarazzato dal suo facile successo, il generale sannita mandò a consultare suo padre, uomo famoso per la sua rara prudenza. Il vecchio rispose che bisognava trattare i romani con generosità per guadagnare per sempre l’amicizia di un popolo potente, oppure massacrarli tutti, per metterli fuori gioco per molto tempo. Ponzio prese una terza strada (anche se il padre gli aveva detto che questa non esisteva), l’umiliazione: li fece passare sotto il giogo, una cerimonia di pubblico oltraggio, e lì rimandò indietro sotto pesanti condizioni di resa (321). I Romani meditarono con forza di vendicarsi: il desiderio di lavare quell’onta non poteva mancare loro. Lucio Papirio Cursore e Lucio Publio Filone, creati consoli, formarono un nuovo esercito, al quale si unì il battaglione sconfitto. Eccoli nel Sannio, di fronte ai Sanniti. I soldati romani non concedono ai loro capi il tempo di serrare i ranghi o di distribuire i posti. Senza attendere il segnale, corrono, spada alla mano, contro il nemico; lo rovesciano al primo colpo, lo seguono nel suo accampamento: è una tremenda carneficina. Pochi giorni dopo, mentre viene impedita con forza o punita una rivolta nel Lazio, in Campania, un secondo esercito sannitico subisce la stessa sorte, nei pressi di Luceria. Tutte le insegne vengono recuperate, tutte le armi perse a Caudium ugualmente riprese e Ponzio, a capo di settemila prigionieri, subisce stavolta lui il trattamento ignominioso del giogo (319). Meno generosi di lui, i vincitori, ventisei anni dopo, lo condussero prigioniero durante un trionfo a Roma, con le mani legate dietro la schiena e lungi dall’onorare la sua audacia, gli fecero tagliare la testa
Il coraggio romano aumentò con il pericolo. Gli eserciti avversari uniti della lega, incontrarono una disastrosa sconfitta (a Sentinum, 295 a.C.), e il potere della coalizione fu spezzato. Uno dopo l’altro gli stati che avevano aderito all’alleanza furono puniti. I Galli furono sbaragliati, gli Etruschi furono schiacciati e i Sanniti furono costretti a riconoscere la supremazia di Roma. Pochi anni dopo anche quasi tutte le città greche dell’Italia meridionale, tranne Tarentum, passarono sotto il crescente potere della città imperiale.
Guerra con Pirro (282-272 a.C.)
Tarentum era una delle più note città elleniche della Magna Grecia. Era un porto sulla costa calabra ed era diventata opulenta grazie all’esteso commercio dei suoi mercanti. La cattura di alcune navi romane e un insulto arrecato ad un inviato della repubblica da parte dei Tarentini, portò ad una dichiarazione di guerra contro di loro da parte del Senato romano.
Pirro, re dell’Epiro 318-272 a.C., famoso per le sue lotte contro i Romani. Condusse una spedizione in Italia, nonostante i consigli del suo saggio consigliere Cinea e grazie alla sorpresa che i suoi elefanti provocarono ai Romani, fu vittorioso a Heraclea, poi ad Asculum (Ascoli) nel 279. Quest’ultimo successo gli costò così tanto che, con sconsolato sarcasmo, rispose così alle congratulazioni dei suoi generali : “Un’altra vittoria come questa e sono perduto”, parole che vengono ricordate per caratterizzare un successo acquisito ad un prezzo troppo caro (vittoria di Pirro). Pirro, ritornato in Sicilia, fu costretto a lasciare l’isola; i Cartaginesi distrussero parte della sua flotta e i Romani lo schiacciarono a Benevento (276). Combatté poi in Grecia e in Macedonia; fu ucciso durante la presa di Argo (272 a.C.) da una vecchia che gli gettò una tegola in testa da un tetto.
Una vittoria di Pirro
«Ἂν ἔτι μίαν μάχην νικήσωμεν, ἀπολώλαμεν» (Plutarco) “Un’altra vittoria così, e siamo perduti!”. È un famoso detto di Pirro. In guerra con i romani, egli li ha battuti più volte in battaglia, ma a costo di enormi sacrifici. Fu dopo la sua sanguinosa vittoria ad Asculum, che diede questa sua arguta risposta a coloro che si congratulavano con lui. Da allora si dice una “vittoria di Pirro” per indicare che un successo è stato pagato a caro prezzo.
I tarantini si rivolsero alla Grecia per aiuto. Pirro, era il re dell’Epiro; cugino di Alessandro Magno, aveva l’ambizione di costruire in Occidente un impero sul modello dell’impresa che il suo famoso predecessore aveva compiuto in Oriente, per questo rispose alle suppliche dei Tarentini e attraversò l’Italia con un piccolo esercito di mercenari greci e venti elefanti da guerra. Una volta giunto a destinazione, organizzò e addestrò gli effeminati Tarentini e presto si sentì pronto ad affrontare i Romani.
Gli eserciti nemici si incontrarono a Heraclea (280 a.C.). Si dice che quando Pirro, che aveva sottovalutato il suo nemico, osservò l’abilità che i Romani dimostravano nel formare le loro linee di battaglia, esclamò con ammirazione: “In guerra, almeno, questi uomini non sono barbari”. La battaglia fu vinta da Pirro grazie ai suoi elefanti da guerra, la cui vista, essendo nuova per i romani, li fece fuggire dal campo con sgomento.
Ma Pirro aveva perso migliaia delle sue truppe più coraggiose. Le vittorie ottenute con tali perdite in un paese in cui non poteva reclutare il suo esercito, significava chiaramente il profilarsi di una sconfitta finale. Mentre guardava il campo di battaglia, si dice che si sia rivolto ai suoi compagni e abbia osservato: “Un’altra vittoria del genere e dovrò tornare in Epiro da solo”. Notò anche e non senza apprezzarne il significato, che le ferite dei soldati romani uccisi nell’azione erano tutte sul petto. “Se avessi soldati del genere”, disse, “sarei presto padrone del mondo”.
La prudenza del vittorioso Pirro lo portò ad inviare ai Romani proposte di pace. L’ambasciata era guidata dal suo principale ministro, Cinea, di cui Pirro stesso diceva: “L’eloquenza di Cinea mi fa ottenere più vittorie della mia spada”.
Quando il Senato romana esitò, la sua risoluzione fu fissata dalle parole lapidarie del vecchio Appio Claudio: “Roma”, esclamò, “non tratterà mai con un nemico vittorioso”. Gli ambasciatori furono costretti a tornare da Pirro senza successo nella loro missione. Fu in quel momento che Cinea, in risposta ad alcune domande del suo padrone riguardo ai Romani, fece il celebre parallelo che paragonava il loro Senato a un’assemblea di re e la guerra contro un tale popolo a un attacco contro un’altra Idra.
Pirro, secondo i narratori romani, che hanno abbellito questo capitolo della loro storia, non ebbe maggior successo nei tentativi di corruzione dopo aver provato le arti della negoziazione. Cercando con grandi offerte d’oro di conquistare Fabrizio, che era stato incaricato dal Senato di un’importante ambasciata, il robusto vecchio romano rispose: “La povertà, con un nome onesto, è da desiderare più della ricchezza”.
Un’altra storia racconta come, quando il medico di Pirro andò da Fabrizio e si offrì di avvelenare il suo nemico, Fabrizio stesso mise immediatamente il perfido uomo in catene e lo rimandò al suo padrone per la punizione. Il seguito di questa storia è che Pirro si fece un’opinione così elevata del senso dell’onore romano, che permise ai prigionieri nelle sue mani di andare nella capitale per assistere a una celebrazione, senza altra garanzia per il loro ritorno che la loro semplice promessa e non un solo uomo mancò alla parola data.
Dopo una seconda vittoria, disastrosa come la prima, Pirro passò in Sicilia, per aiutare i Greci nella loro lotta contro i Cartaginesi. All’inizio ebbe successo ovunque; ma alla fine la fortuna gli si rivolse contro ed egli fu felice di fuggire dall’isola. Riattraversando lo stretto in Italia, ancora una volta si scontrò con i Romani, ma nella battaglia di Beneventum subì una disastrosa e definitiva sconfitta per mano del console Curio Dentato (274 a.C.). Lasciando una forza sufficiente a presidiare Tarentum, il re sconcertato e deluso salpò per l’Epiro. Si era appena imbarcato prima che Tarentum si arrendesse ai Romani (272 a.C.). Questo mise fine alla lotta per il dominio dell’Italia. Roma era ora padrona di tutta la penisola a sud dell’Arno e dell Rubicone. Era ora sua cura consolidare questi possedimenti, e fissarli per mezzo di una perfetta rete di colonie e strade militari.
(Traduzione e adattamento dall’inglese “High school Ancient History, Greece and Rome” , di Philip Van Ness Myers, 1901 e da Histoire Romaine, depuis la fondation de Rome jusqu’à la chute de l’empire d’Occident, Alexandre Émile Lefranc, 1846)
I Romani entrano in Sicilia e sconfiggono i Cartaginesi; la città di Agrigento viene presa nel 262 aC. Non avvezzi alla guerra navale, i romani sconfissero gli eccellenti marinai cartaginesi a Myles nel 260 e a Ecnome nel 256 a.C. Il mare è quindi libero per raggiungere la Tunisia. Un esercito romano si avventurò fino a lì ma fu duramente sconfitto e il console Regolo fu fatto prigioniero nel 255 a.C. Il condottiero cartaginese Amilcare Barca difende la Sicilia e i romani non riescono a sloggiarlo dalle città in cui è trincerato. Solo la vittoria navale romana alle Isole Aegate nel 241 a.C. J.-C. obbliga Cartagine a chiedere la pace. Roma impone condizioni difficili: Cartagine deve abbandonare la Sicilia e deve pagare un’enorme indennità di guerra (5.000 talenti o più di 100 tonnellate di metallo prezioso). Cartagine in grandi difficoltà finanziarie non può pagare i mercenari che costituiscono la maggior parte del suo esercito. Quest’ultima si ribella e ad Amilcare Barca ci vogliono tre anni per superarla. Approfittando delle difficoltà di Cartagine, Roma minaccia un intervento militare e ottiene che le vengano consegnate la Sardegna e la Corsica.