- Povera Tartaruga!
- La Lira o la Cetra
- Colpo grosso alle stalle di Apollo
- Una bella grigliata
- Ritorno nella tana
- Apollo scopre il furto
- Apollo fatto fesso da un neonato
- Apollo messo KO
- Quel giorno che Apollo fece causa ad Hermes
- Si mette male per Hermes...
- …se non fosse stato per la Lira
- E i due fanno pace
- Il messaggero degli dei
Hermes, Ermete o Mercurio per i romani, nacque a Cillene ed era figlio di Zeus e Maia, meravigliosa Ninfa dai bei capelli.
La fanciulla si unì al Re dell’Olimpo in una grotta nel cuore della notte, così da potersi entrambi nascondere da Hera, cioè Giunone, moglie di Zeus, e da tutti gli altri dei immortali o dagli esseri mortali. Maia partorì dunque questo figlio che si rivelò ben presto ingegnoso, furbo, dalla bella parlantina, ladro, portatore di sogni, esploratore della notte, custode di porte e che avrebbe poi fatto parlare molto di sé tra gli Dei immortali.
Fu un bimbo estremamente precoce: nato al mattino, suonava già la lira a mezzogiorno e la sera rubò i buoi dell’arciere Apollo.
Povera Tartaruga!
Appena uscito dal corpo di sua madre, Hermes non rimase a lungo nella sacra culla; ma, alzandosi, andò subito a cercare i buoi di Apollo per rubarli. Ma uscendo dalla tana e trovata sulla spiaggia una tartaruga, ne rimase subito affascinato.
Hermes vedendola, rise, e subito disse:
– “Ecco una cosa che mi sarà molto utile! Non è un animale da disprezzare questo… Ciao, bella creatura! Sii gentile… cercavo compagni di balli e e di feste e fortunatamente mi sei apparsa tu! Da dove vieni, bel giocattolo? Tartarughina, che vivi in montagna, con le tue belle squame? Ora ti prendo e ti porterò a casa mia! Mi sarai utile, non ti tratterò male e prima di tutto, farai ciò che ti dico. È meglio stare in casa, perché è pericoloso qui fuori! Certamente, da vivo, sarai un rimedio a molti mali; ma da morto, ancor meglio, perché canterai magnificamente!”
Detto questo, sollevò l’animale con entrambe le mani e subito entrò in casa portandoselo dietro. E lì, con un luccicante scalpello di ferro, strappò la vita il carapace alla tartaruga. Era il dio, tutto preso dalla realizzazione del suo nuovo strumento musicale; i raggi lucenti gli uscivano dagli occhi per l’eccitazione, parlava da solo e si dava da fare alacremente. Fissò steli di canna, li tagliò secondo varie lunghezze e li fece passare attraverso il dorso della tartaruga; poi abilmente gli tese intorno una pelle di bue; fissò due braccia e un ponte di legno, e poi vi stese sette corde armoniche di budello di pecora. Ecco fatto: La Lira!
La Lira o la Cetra
Poi, dopo aver costruito questo bello strumento, fece risuonare ogni nota con l’aiuto di un plettro; la tartaruga, ormai diventata un’antenata della chitarra, al tocco della sua mano, risuonava sonora. Hermes, tutto eccitato dalla sua opera, si mise a cantare divinamente. E cantava canzoni dedicate a suo padre Zeus e Maia, sua madre: di come caddero incantati dal loro amore che li unì e dal quale lui stesso nacque. Poi, continuò a cantarsela e a suonarsela un po’ da solo, perché esaltò sé stesso, ma anche gli amici e la bella dimora della Ninfa e il paesaggio dell’isola tutt’intorno.
Poi, si stancò e gli venne voglia di fare altro, depose quindi la cetra sulla sacra culla. Gli era venuta fame; anzi, desiderava proprio della carne, quindi balzò giù dalla collina profumata di fiori, dove si trovava la sua dimora e cercò di elaborare un piano, come fanno i ladri di notte.
Colpo grosso alle stalle di Apollo
Il sole tramontava ed Hermes giunse di corsa alle montagne ombrose di Pieria, un’antica regione della Macedonia meridionale, dove gli dèi hanno le loro stalle e le mandrie pascolano libere.
Allora il figlio di Maia, separò da questa mandria cinquanta vacche e le condusse, vagabonde, attraverso un luogo sabbioso, così da cancellare le loro tracce, perché il ragazzo era di mente astuta. Come fece? Usò questo stratagemma: Invertì gli zoccoli; quelli davanti li mise dietro, quelli dietro in avanti e lui stesso camminava all’indietro, come i nativi americani quando volevano far perdere le loro tracce ai visi pallidi. E subito gettò i suoi sandali tra la sabbia del mare e se ne fabbricò degli altri, incredibili e meravigliosi, intrecciando dei ramoscelli di tamerici e di mirto. Poi, legato questo fascio di foglie fresche, fissò altre foglie a questi stessi sandali leggeri e se li mise ai piedi. Quindi lasciò Pieria e tagliò la corda.
E un Vecchio, che lavorava in un ricco frutteto lì vicino, lo vide mentre raggiungeva la pianura attraverso le praterie di Onchesto in Beozia; e allora Hermes lo avvertì:
– “Vecchio! Sì tu, che scavi la terra intorno agli alberi! Sono certo che raccoglierai molti frutti a Maggio e avrai un buon raccolto! Fammi il piacere, tieni la bocca cucita! Tu non mi hai mai visto né sentito passare di qui, d’accordo? D’altronde non sono affari tuoi e tu non ci hai rimesso nulla!”
Detto così, spinse via le mucche e passò attraverso le montagne ombrose, le valli oscure e le pianure. E già la divina notte che lo aiutava a nascondersi era quasi passata, già i primi raggi del sole risplendevano sull’altura, quando il potente Hermes spinse nel fiume Alfeo le mandrie di Apollo e infine raggiunse, instancabile, una grande stalla e un lago davanti a un bel prato.
Là, dopo aver saziato con dell’erba buona le mucche che mangiavano loto e nocciole bagnate di rugiada, le spinse tutte insieme nella stalla.
Una bella grigliata
Poi raccolse molta legna e cercò di accendere un fuoco. Dopo aver preso un bel ramo d’alloro, che sbucciò con l’aiuto di un ferro, lo sfregò con il palmo della mano e ne uscì un vapore caldo. Hermes prima preparò il tutto, poi accese il fuoco. Posò gran parte della legna spessa e secca in una fossa cava; una fiamma alta brillò, facendo scoppiare il crepitio del focolare ardente.
Mentre la fiamma bruciava, trascinò fuori della stalla, verso il fuoco, due vacche che muggivano, dimostrando di essere un giovane di grande vigore. Poi le prese entrambe, ansimando, per le loro spalle e piegandole, saltò sopra di esse e le scannò. Quindi passò ad un’altra e ad un’altra ancora, facendo a pezzi la loro carne grassa e succulenta. Dopo averla infilzata con spiedini di legno, arrostisce la carne versandoci sopra pure il sangue.
Fatto ciò, stese le pelli su una roccia appuntita per tagliarle dopo averle a lungo lavorate, così da renderle solide e robuste. Hermes poi, pieno di gioia, tolse la carne dal fuoco, la mise su di un grande piatto e la divise in dodici parti da tirare a sorte, per darle poi una porzione a ciascuno degli dèi, tra cui incluse anche sé stesso, per auto acclamazione.
Hermes in realtà era titubante sul fatto di riservare per sé una porzione della sacra carne: l’odorino era troppo invitante e anche agli déi immortali viene l’acquolina in bocca! Ma il suo cuore generoso (generoso con la roba rubata agli altri, ovviamente) non obbedì al suo grande desiderio e non riempì la sua sacra pancia di bistecche. Conservò dunque il grasso e la carne avanzata nella stalla, come bottino della sua impresa. Poi raccolse legna secca e rosolandole prima un poco al fuoco, divorò le teste e i piedi degli animali: in quattro e quattr’otto aveva già spazzolato via tutto.
Alla fine, Hermes gettò i suoi sandali nell’Alfeo, spense il fuoco e spazzò via le ceneri.
Ritorno nella tana
Al sorgere della bella luce del mattino, Hermes tornò a Cillene; lungo la strada non incontrò nessuno degli dèi, né degli uomini. Il benevolo figlio di Zeus, inchinandosi, entrò quindi nella sua dimora passando per la serratura della porta, come una nebbia o un alito d’autunno, e, camminando senza far rumore, giunse al ricco tempio della tana, non facendo assolutamente rumore. Non volava una mosca.
Poi, Hermes entrò rapidamente nella culla sacra, avvolgendo le spalle nelle sue fasce, come un neonato. E si sdraiò, spingendo indietro con le mani, giocando e portandosi la coperta fino ai piedi, mentre nella mano sinistra teneva la sua cara tartaruga. Ma la Dea sua madre, intuì che doveva aver combinato qualcosa e gli disse:
– “Hai l’aria birbona e sfrontata. Che hai combinato? È questa forse l’ora di tornare a casa? Dove sei stato tutta la notte? Questa grotta non è un albergo! Riusciresti di nuovo a scappare di casa pure se ti legassi alla culla! Certo, tuo padre ti ha generato per essere una grande preoccupazione per me, per gli uomini e per gli dei immortali!”
Ed Hermes gli rispose come un bambino viziato e sfrontato:
– “Mamma mia! Perché mi guardi come fossi una femminuccia appena nata, ancora ignara del male, timida e spaventata dai rimproveri della mammina? Io sto pensando anche a te oltre che a me! Userò un’arte che è la migliore di tutte: l’astuzia. E non rimarremo qui, soli, tra gli Dei immortali, senza avere regali e senza cibo. È meglio abitare ogni giorno con gli Immortali, nella ricchezza e nell’abbondanza e possedere molti beni, che abitare in questa tana oscura. Come Apollo, anch’io otterrò l’onore dei sacrifici. Se mio padre non mi dà quel che mi spetta, cercherò di possederlo e potrò diventare il principe dei ladri. E se il figlio di Latona continua a cercarmi, credo che gli succederà qualcosa di peggio. Andrò a Pito, entrerò di forza nella grande casa e là ruberò in abbondanza i tripodi lucenti e i vasi preziosi, l’oro, il ferro splendente, e molti vestiti. Vedrai!”
Apollo scopre il furto
Intanto Helios, il sole, nato al mattino, uscendo dal profondo corso dell’Oceano, portò la luce agli uomini mortali. Apollo, alzatosi presto, giunse a Onchesto, il bosco sacro e incantevole del grande Poseidone che circonda la terra, e vi trovò il vecchio decrepito che lavorava sulla siepe del frutteto, vicino alla strada. E il dio gli disse:
“Vecchio, vengo qui a cercare le mandrie del Pieria. Tutte le bestie sono mucche e tutte hanno le corna ricurve. Solo un grosso toro nero pascolava, lontano dal gregge, e quattro cani terribili li seguivano, pieni dello stesso zelo, come gli uomini. I cani e il toro sono stati lasciati a me, il che è strano! Ma tutte le mucche sono scomparse ieri dal loro soffice prato e dal loro dolce pascolo. Dimmi, vecchio, se per caso hai visto un uomo che camminava assieme a queste mucche.”
E il vecchio gli rispose con queste parole:
– “ Amico mio… certo, è difficile ricordare tutto quello che si vede ogni santo ogni giorno, perché qui passano molti viandanti; alcuni cercano rogne, altri invece si fanno gli affari loro. Difficile prevedere quello che passa per la testa di ognuno di questi. Però Io ieri ho visto una cosa davvero singolare: c’era un bambino qua, ma mio caro, non lo so per certo, insomma, ho visto un bambino che seguiva delle bellissime mucche con le lunghe corna come dici tu. Aveva in mano una bacchetta in mano, la girava e se la rigirava… spingeva le vacche come un mandriano insomma e loro gli camminavano davanti.”
Sentito questo dal vecchio Apollo ci pensò un po’ sopra e continuò rapidamente per la sua strada. Vide un uccello con le ali spiegate e subito riconobbe il ladro figlio di Zeus: “Brutto figlio di…ehm…di Zeus, mio padre!” pensò. E allora Apollo, si precipitò impetuosamente verso il divino Pilo, cercando le sue vacche in ogni dove, nella corsa era avvolto da una nuvola di porpora. Poi finalmente trovò una traccia e pensò ancora:
– “Oh Dio, cioè: oh me stesso! Certamente vedo con i miei occhi un grande prodigio! Queste tracce sono quelle di mucche dalle grandi corna, ma qui sono rivolte verso la Prateria di asfodeli; e questi non sono i passi di un uomo, né di una donna, né di lupi, né di orsi, né di leoni. Né somigliano a quelli di un grosso toro. Sembrano piuttosto tracce lasciate da un piede veloce. L’astuzia da un lato della strada e l’astuzia più grande dall’altro.”
Apollo dunque partì e giunse al monte coperto di foreste di Cillene, e al rifugio roccioso e oscuro dove la Ninfa aveva partorito il figlio di Zeus. E un dolce odore si diffuse attraverso il monte divino; là molte pecore pascolavano tra l’erba.
Allora Apollo si precipitò giù per la soglia di pietra ed entrò nella tana buia. Ma appena Hermes vide il dio irritato per il furto sue mucche, quasi sprofondò nei suoi pannolini profumati, come a nascondersi. E nello stesso tempo cercò di far finta di dormire, tenendo un dito in bocca e sotto l’ascella la tartaruga appena lavorata.
Apollo fatto fesso da un neonato
Ma Apollo riconobbe senza errore l’illustre Ninfa della Montagna e il suo piccino pieno di sottile astuzia. Rovistò in ogni angolo della grande casa e trovò tre nascondigli segreti pieni di nettare e di dolce ambrosia. C’erano anche molto oro e argento e molte vesti della Ninfa, di porpora o d’argento, come ce ne sono solo nelle sacre dimore degli Dei felici. Apollo, dopo aver perquisito tutti gli angoli della grande casa, parlò così ad Ermete:
– Ragazzino! Sì, dico a te! Nascosto in questa culla! Piantala di fare la commedia! Dimmi subito dove sono le mie mucche, altrimenti va a finire male! In verità, ti getterò nel Tartaro Nero, nell’oscurità terribile della morte tremenda. E né tua madre né tuo padre ti salveranno, e tu ritornerai da dove sei venuto e sarai gettato nel profondo della terra!
Ed Hermes gli rispose a tono:
“Ehi! Che parole grosse! Mi minacci?” Perché sei venuto qui per le tue mucche? Non ho visto nulla e non ne so nulla; Non ne ho mai sentito parlare, non posso dirti nulla, anche se non mi sarebbe dispiaciuto avere una ricompensa per averle ritrovate. Guarda! Ti sembro forse un uomo forte che può rubare dei buoi? Non sono affari miei! Ho altro a cui pensare io! Debbo fare la nanna, prendere il latte dal seno della mamma quando è l’ora della poppata e piangere per ricordarle di cambiarmi spesso i pannolini.
Fai attenzione a quello che dici. Te lo immagini se qualcuno ti sente? Sai le risate? Apollo accusa un neonato di avergli rubato i buoi portandoli a spasso per la campagna! Sei impazzito? Io sono nato ieri (o forse tu lo sei) e non so neppure ancora camminare! Ma, se vuoi, giuro solennemente sulla testa di mio padre, il grande Zeus, che non sono io il colpevole e che non ho visto nessuno rubare le tue mucche. Perché mi pare di aver capito che è di mucche che stai parlando, no? Io infatti non so neppure che cosa ti hanno rubato!”
Così parlò, facendo brillare gli occhi sotto le palpebre, accigliandosi, guardando qua e là e sbuffando a lungo, come se avesse udito solo noiose e vuote parole. Ma l’arciere Apollo, sorridendo dolcemente, gli disse:
– “Ragazzino, bugiardo, insolente e pieno di astuzia; visto che mi dici queste cose, allora sì, certo: penso che ti sei intrufolato spesso in ricche dimore, e che, durante la notte, hai svaligiato silenziosamente le case, togliendo il sonno a più un uomo sulla terra. Sicuramente hai depredato così molti pastori delle loro pecore nelle valli di montagna. Tutte le volte che hai voglia di carne, vai ad impossessarti dei buoi o delle greggi altrui! Ma dai! Esci fuori da questa ridicola culla o altrimenti la prossima volta che andrai a fare la nanna sarà per il tuo ultimo e supremo sonno! In piedi ladro nottambulo! Almeno avrai, d’ora in poi, questo onore tra gli immortali: di essere sempre chiamato il principe dei ladri!”
Apollo messo KO
Detto questo, Apollo, prese il bambino per portarlo via. Ma Hermes aveva già pronto il suo asso nella manica: mentre le mani del dio Febo lo sollevavano, egli gli starnutì in faccia così forte, inondandogli il viso di muco, che quello, gettandolo a terra, cadde col sedere al suolo per la violenza del colpo. Che figuraccia!
Apollo era gonfio di rabbia per l’umiliazione subita, ma doveva mantenere la calma perché voleva ritrovare le sue mandrie. Quindi si contenne e gli disse quasi ringhiando in tono di sfida:
– “Non preoccuparti, figlio di Zeus e Maia, avvolto in fasce! Con le buone o con le cattive ritroverò presto le mie vacche e tu stesso mi aiuterai!”
Hermes si alzò rapidamente. E camminò verso di lui rispondendogli:
– “Dove mi vuoi portare, tu, il più violento di tutti i dèi? Ho capito che sei irritato per le tue mucche, ma non puoi parlarmi con questo tono! Te lo vuoi ficcare in testa che non ho rubato io le vostre mucche, e che non ho visto nessuno?”
E così gridarono l’uno contro l’altro a lungo e li sentì tutto il vicinato, tanto che nel raggio di parecchie miglia nessuno ne poteva più di udirli strillare.
Alla fine Ermete tentò di far uso della sua parlantina lusinghiera e di altri trucchi. Ma Apollo, spazientito lo prese e mollandogli anche qualche calcio nel sedere, lo trascinò da Zeus per giudicarlo.
Quel giorno che Apollo fece causa ad Hermes
Gli illustri figli di Zeus raggiunsero presto quindi le vette del profumato Olimpo, presso il Re degli dèi. Lì, i vassoi della Bilancia della giustizia li aspettavano entrambi.
E una grande voce si diffuse nell’Olimpo innevato. Gli incorruttibili Immortali si radunarono nelle gole del monte. Hermes e Apollo con l’arco d’argento, stavano in piedi davanti a Zeus, che tuona in alto. Assiso in trono, il re degli dèi interrogò Apollo:
– “Febo, chi è questo che ti sei portato dietro? Un neonato che ha l’aspetto di un araldo? Mi parli poi di un furto ai nostri danni, ma di che si tratta? Sembra una questione difficile oggi, quella che presenti qui all’assemblea degli Dei.”
E il regale Apollo gli rispose:
– “Padre, sentirai cose inaudite. Ho inseguito fin sul monte di Cillene questo fanciullo, uno sfacciato ladrone come mai ne vidi suo simile, né fra gli dèi, né fra gli uomini tutti. Dopo aver rubato le mie mucche nel prato, le ha condotte, sul far della sera, in riva al mare. Oh, questo qui ha confuso le loro tracce con astuzia ammirevole, gliene devo dare atto , quasi degna di un dio!
Infatti la polvere nera mostrava i passi delle mucche come fossero rivolti verso il prato di asfodeli, ed egli stesso, scaltro oltre misura, non sembrava avesse camminato né sui piedi né sulle mani in quel luogo sabbioso; ma con singolare precauzione lasciò sulla strada tracce tali che si sarebbe potuto quasi dire che camminasse sopra giovani querce.
Finché ha proceduto in questo luogo sabbioso, ha lasciato apertamente tutte queste tracce sulla polvere; ma, una volta attraversata la grande strada sabbiosa, ha reso le tracce delle mucche davvero invisibili sul terreno più duro.
E poi c’è un testimone oculare…”
“Vecchiaccio dalla lingua lunga! “ pensò Hermes fra sé e sé
“… C’è un mortale insomma” – continuò a parlare Apollo – “ che lo ha visto spingere rapidamente la mandria di vacche verso Pilo. Così, dopo averle tranquillamente rinchiuse e aver fatto tutto il suo porco comodo, è tornato nella sua grotta e si è sdraiato nella sua culla a recitare la parte dell’innocentino. Neppure l’aquila dallo sguardo acuto l’avrebbe visto. Davanti a me fece lo gnorri prendendomi per i fondelli. Meditava certamente altri trucchi; e subito disse frettolosamente: (e qui Apollo prese a imitarne con fare canzonatorio la voce acuta e infantile) – Non ho visto nulla e non ne so nulla; Non ho mai sentito parlare delle tue vacche e purtroppo per questo, non potrò incassare la ricompensa per il loro ritrovamento!”
La difesa di Hermes
Detto ciò, Febo si sedette e Hermes, a sua volta, gli rispose, parlando a Zeus che comanda a tutti gli dei:
– Padre Zeus, certo, ti dirò la verità, perché sono sincero e non so mentire. Oggi costui è venuto da me, al sorgere del sole, cercando le sue mucche; e non portò nessuno degli dèi immortali, né come testimoni né come spettatori. E mi ha ordinato con violenza di dirgli quello che voleva sentire, minacciando di gettarmi nell’ampio Tartaro, perché lui è nel pieno fiore della gloriosa giovinezza, mentre io sono piccolino, io sono nato ieri (in realtà non sono mica nato ieri!). Lui è grande, grosso e prepotente e vuole far passare me come un vigoroso ladro di buoi. Credimi – perché ti vanti di essere il mio caro padre – non ho condotto le sue mucche nella nostra dimora. Non ho rubato in altre case. E te lo dico sinceramente: io venero moltissimo Helios e gli altri Dèi, ti voglio bene e ti temo. Tu stesso sai che io non sono io la causa di tutto ciò. E faccio solenne giuramento: Davanti agli Immortali! Io, un giorno, quando sarò un uomo forte vigoroso, chiederò soddisfazione a costui per le sue vili accuse e per l’oltraggio. E tu, padre, vieni in aiuto dei più deboli!”
Hermes, parlò così, sbattendo le palpebre e aveva ancora agitava i pannolini in mano. Zeus rise molto quando vide questo furbo fanciullo negare abilmente il furto delle mucche; ma ordinò a tutti e due di cercarle di comune accordo. Ad Ermete disse di guidare e di mostrare, in tutta sincerità, il luogo dove aveva nascosto le mandrie. Hermes obbedì, perché la tempestosa volontà di Zeus facilmente persuase anche Apollo.
Si mette male per Hermes…
E allora, gli illustri figli di Zeus si misero in cammino dunque e giunsero al sabbioso Pilo e al guado dell’Alfeo, ai campi e nell’alta stalla, dove la spoglie delle bestie erano state rinchiusa di notte. E così Hermes entrò nella tana di pietra e portò alla luce le grandi teste delle vacche. Ma Apollo guardando da lontano, riconobbe le mucche sull’alta roccia e subito interrogò Hermes:
– “Come hai potuto, pieno di astuzia, tagliare la gola a due mucche, essendo tu un bambino appena nato? Io stesso sono stupito della tua forza! Un farabutto come te non deve raggiungere l’età adulta, ma deve essere impiccato da piccolo, Hermes, figlio di Maia!”
Mentre gli parlava così, gli strinse i polsi con forti rami di vimini, come un poliziotto che usa le manette contro un malvivente. Ma questi stessi rametti, caddero ai suoi piedi e misero radici nella terra proprio là, sebbene intrecciati. Lo stesso accadde alle ossa e ai crani delle vacche: in un attimo, rametti e foglioline si attorcigliarono intorno ad esse, per volontà dell’astuto Hermes. Vedendo ciò, Apollo fu preso da ammirazione, Hermes intanto si guardava intorno cercando un posto dove nascondersi.
…se non fosse stato per la Lira
Ma, alla fine, egli placò molto facilmente il figlio di Latona, perché era furbo. Afferrando la tartaruga con la mano sinistra, ne provò il suono con il plettro e la tartaruga risuonò magnificamente al tocco della sua mano. Apollo allora rise allegramente e quel suono affascinante entrò nella sua mente e con tutta l’anima egli lo ascoltava. E il figlio di Maia, rassicurato, suonando la dolce lira, si avvicinò a lui. E, facendo vibrare forte la cetra, cantò a sua volta e la sua voce amabile si levò tutt’intorno.
E cantò degli dèi immortali e della terra oscura e di come si facevano le cose in principio, di come ogni cosa venisse divisa a sorte. E cantò Mnemosine su tutte le Dee, madre delle Muse. E poi l’illustre figlio di Zeus cantò degli altri dèi immortali, ciascuno secondo il suo rango e come erano nati; tutto mirabilmente, sempre accompagnato dalla cetra. E nell’anima d’Apollo sorse un desiderio immenso e disse ad Ermete queste parole:
– “Ladro di mandrie, animo astuto, compagno di bevute, hai qui qualcosa che vale da solo cinquanta buoi. Penso che usciremo tranquillamente da questa lite. E ora dimmi, astuto figlio di Maia, se hai fatto questa cosa meravigliosa dopo che sei nato, o se qualcuno degli immortali o uomini mortali ti ha fatto questo illustre regalo e ti ha insegnato il canto divino? Ma ascolto questo nuovo e ammirevole suono, e penso che nessuna delle dee o degli dei che hanno dimore olimpiche te lo ha insegnato. Sei autodidatta, vero? Bugiardo di un figlio di Zeus e Maia! Cos’è questo strumento? Questa Musa che guarisce le amare preoccupazioni? E questa abilità? Io, che sono il compagno delle Muse Olimpiche, che curo i loro cori e l’illustre regola dei versi e dei canti fioriti e l’amabile armonia dei flauti…ti dico che la mia anima non è mai stata più penetrata come da questi suoni, neanche da quelli dei giovani uomini che suonano e cantano alle feste. Li ammiro, o figlio di Zeus, e ammiro con quanta dolcezza fai vibrare il tuo strumento. E ora, siccome tu, benché giovanissimo, hai un’arte illustre, ti dirò la verità, a te e a tua madre. Sì! Con questa lancia di corniolo, naturalmente, ti guiderò illustre e felice tra gli immortali, e ti farò regali magnifici, e non ti ingannerò mai.”
E i due fanno pace
Ed Ermete gli rispose con queste astute parole:
– “Me lo chiedi, o Arciere, e non mi rifiuto di insegnarti la mia arte. Lo scoprirai oggi. Voglio essere gentile con te nei pensieri e nelle parole, perché conosci tutte le cose nella tua mente e siedi, figlio di Zeus, il primo tra gli immortali, bello e vigoroso. Zeus che ti ama ti avverte delle cose sacre e ti ha fatto doni illustri. Si dice che sei onorato dalla volontà di tuo padre e che hai ricevuto da lui, o Arciere, la scienza delle divinazioni e di tutti i destini. E ora io, giovane povero, insegnerò l’arte a un ragazzo ricco. Ma sei libero di imparare quello che vuoi. Poiché hai il desiderio di suonare la cetra. Ecco! canta e suonala! E gioisci, ricevendola da me! E tu, cara cetra, dammi la gloria! Canta, avendo in mano questo gentile compagno, educato a suonare con arte e mirabilmente!
Ammansisci con essa le fiere, allieta la notte e il giorno, le feste e i giochi funebri, la gioia e danze amabili. A chi la interroga con la scienza e con l’arte, la cetra, docile alle gentili pressioni, insegnerà molte cose diverse e piacevoli alla mente. Ma, temendo il duro e rozzo tocco, risponderà in modo stonato a chiunque la interroghi con violenza. Ma sei libero di imparare quello che vuoi, e io ti darò questo strumento, o illustre figlio di Zeus. Allora, o Arciere, torneremo al monte e alla pianura dove pascolano i cavalli e pascoleremo i tuoi buoi. Là le mucche, unite ai tori, le femmine ai maschi, produrranno vitelli in quantità. Perciò non devi, benché avido, restare violentemente irritato.”
Detto questo, gli offrì la cetra e Febo Apollo la prese; e diede ad Ermete un bastone lucente, il caduceo, e gli affidò la cura delle vacche, e il figlio di Maia con gioia prese il dono.
E l’illustre figlio di Latona, l’arciere reale Apollo, sorreggendo la cetra con la mano sinistra, provò il suono con il plettro, ed essa suonò magnificamente, e il Dio cantò.
– “Quindi, tornate le mucche al Prato Divino, gli illustri figli di Zeus tornarono entrambi nell’Olimpo innevato, affascinati dalla cetra. E il saggio Zeus fu gioioso e li portò ad amarsi. E così, Hermes amava ancora Febo, come lo ama ancora oggi, dopo avergli regalato la lira in segno di amicizia. E, quando l’arciere ebbe imparato a suonare l’adorabile liuto, continuava a trarne suoni.”
Ma poco dopo Hermes inventò per strada un altro strumento musicale Creò la Sýrinx, il Flauto, staccando una canna dal terreno e facendogli dei buchi al lato. Apollo ne rimase ancora una volta colpito. Hermes con grande faccia tosta, gli propose di donargliela in cambio della sua arte divinatoria. Apollo rise della sua coraggiosa sfacciataggine, dicendogli che poteva proprio scordarselo e aggiunse:
“Temo, figlio di Maia, astuto messaggero, che tu mi possa portare via furtivamente la mia cetra e il mio arco ricurvo. Invero, hai ricevuto da Zeus questo onore di presiedere agli scambi degli uomini sulla terra fertile. Ma se tu giuri il grande giuramento degli dèi, annuendo con il capo, o sulle impetuose acque dello Stige, qualunque cosa farai mi sarà gradita.”
E quindi il figlio di Maia gli fece cenno con la testa che non avrebbe rubato nulla che appartenesse all’Arciere e che non si sarebbe mai avvicinato alla sua solida dimora. E Apollo suggellò la loro armonia e la loro amicizia a sua volta con un cenno del capo e giurò che nessuno gli sarebbe stato più caro, né tra gli immortali, né tra i figli di Zeus, né tra gli uomini, e disse:
– “Lo renderò manifesto agli Immortali e a tutti, con un segno onorevole caro alla mia anima. Ti darò un’illustre bacchetta recante felicità e ricchezza, d’oro puro, con tre foglie. Ella ti proteggerà, potente su tutti gli dèi, in virtù delle parole e delle azioni utili che dichiaro mi sono state rivelate per volontà di Zeus. Abbi cura dei cavalli pazienti, dei muli, dei terribili leoni, dei cinghiali dai denti bianchi, dei cani e di tutte le pecore che pascolano la vasta terra. Comanda a tutte le pecore, illustre Hermes e sii l’unico messaggero indiscutibile dell’Olimpo e dell’Ade”
Così il re Apollo donò al figlio di Maia tutta la sua amicizia e Zeus gli concesse la grazia. E così Hermes da si allora si mescola furtivo in mezzo a tutti: che siano mortali o immortali. E viene in aiuto di pochi, ma inganna costantemente tutti quanti nella notte oscura.
Il messaggero degli dei
Zeus nominò Hermes araldo generale degli dèi, in tale veste era spesso il mezzo di comunicazione tra mortali e immortali. Fu lui che condusse Priamo ad Achille, quando il venerabile monarca andò a chiedere il corpo di Ettore al suo vincitore.
Legò Issione alla ruota per essersi vantato di intimità con Hera, incatenò Prometeo al Caucaso e scortò Hera, Afrodite e Atena al monte Ida per sottoporle al giudizio di Paride.
Hermes fu stimato autore di varie invenzioni e gli fu attribuita l’origine di lettere, numeri, astronomia, musica, tattiche militari, ginnastica, pesi e misure. Era anche considerato il dio dell’eloquenza, la divinità che presiedeva le palestre e il patrono della frode e dello spergiuro.
La sede originaria del suo culto fu l’Arcadia, da dove si diffuse gradualmente nel mondo greco. Le sue feste erano chiamate Hermaia.
Il più celebre dei suoi templi era quello del monte Cillene. Gli oggetti principali a lui sacri erano la palma e la tartaruga.
È generalmente rappresentato come un giovane con un cappello a tesa larga ornato di ali, nella mano destra un bastone da araldo o uno scettro e ai piedi un paio di sandali alati.
A Roma Mercurio era il dio del commercio e della diplomazia. L’etimo del suo nome, merx e curius, indica chiaramente la sua funzione predominante.
Già nel 495 a.C. gli fu eretto un tempio a Roma presso il Circo Massimo e un suo altare era attiguo alla Porta Capena. Sotto il nome di Malevolus, o il “maldisposto”, aveva una statua nel vicus sobrius o via Sober, in cui non si potevano tenere enoteche e lì il latte era l’unica bevanda che gli veniva offerta.
Questa statua teneva una borsa in una delle sue mani, come simbolo delle sue funzioni commerciali. La festa di Mercurio veniva celebrata il 25 maggio, giorno considerato sacro dai mercanti romani.
Dopo che i vari rapporti tra Grecia e Roma diventarono più stretti, l’Ermete della prima e il Mercurio della seconda furono popolarmente considerati identici, sebbene la somiglianza tra le due divinità fosse molto lieve e non fosse mai stata ammessa dai fetiali o guardiani della fede pubblica di Roma.
(Liberamente tratto, ridotto ed adattato dall’Inno ad Hermes di Omero)