Le donne nell'antica Roma erano divise in varie classi sociali, proprio come gli uomini. Una donna romana di nascita, figlia di genitori romani, era considerata cittadina romana. Sebbene non ricoprissero cariche politiche, a causa delle usanze romane, donne facoltose o nate in famiglie importanti potevano influenzare la politica, sia attraverso la sponsorizzazione dei loro candidati preferiti, come fece Fulvia quando usò la sua immensa fortuna per sponsorizzare agitatori politici, sia attraverso la propaganda, usando il prestigio della propria famiglia per ottenere voti per i loro candidati. Da un punto di vista religioso, avevano accesso a vari uffici e sacerdozi, come quello delle vestali, che avevano una grande influenza religiosa e politica. Godevano di più diritti e libertà rispetto alle altre donne del mondo antico.
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I bambini non avevano un posto di rilievo nella società romana. Lungi dall’essere al centro delle preoccupazioni familiari, spesso rimanevano ai margini delle occupazioni dei genitori, rappresentavano un onere finanziario ed erano sottoposti a un’educazione piuttosto dura. L’infanzia è la puerilità.
Fino all’età di sette anni, il bambino romano è designato con la parola infans che significa “che non parla”. In seguito, viene chiamato puer se è un maschio o puella se è una femmina.
L’adozione era relativamente comune nella società romana. Tuttavia, viene praticata solo per i ragazzi. L’adozione non era necessariamente limitata ai neonati. I romani potevano adottare anche un bambino già grande.
Il bebè romano
Dopo la nascita del bambino, il padre di famiglia lo riconosce in una cerimonia che si svolge davanti alla famiglia. La cerimonia ha luogo l’ottavo giorno di vita per le bambine e il nono per i bambini. Il giorno della cerimonia è chiamato dies lustricus. Durante la cerimonia, il bambino viene deposto a terra. Se il padre di famiglia lo riconosce, lo solleva e lo prende in braccio. Il bambino diventa quindi un membro a tutti gli effetti della famiglia romana.
Il riconoscimento del figlio passa attraverso questo atto simbolico. Sollevando il bambino tra le braccia, il padre si assicura che il figlio benefici pienamente dei diritti di filiazione. Quando il bambino è una femmina, il padre non la prende sempre in braccio per riconoscerla. Il solo fatto di ordinare di darle da mangiare è sufficiente a garantire il riconoscimento del bambino.
Il bambino viene poi purificato e, se è un maschio, gli viene legato al collo un medaglione: la bulla. In questo momento al bambino viene dato anche il suo nome di battesimo.
Se il bambino non viene riconosciuto, viene abbandonato. Si tratta della cosiddetta esposizione: il bambino abbandonato viene spesso collocato sui gradini di un tempio o esposto sulla pubblica via. Alcune famiglie eliminano sopprimono semplicemente il bambino.
Sotto la Repubblica, la Legge delle Dodici Tavole permetteva al padre di famiglia di uccidere un figlio anche solo perché lo disapprovava.
Cura del bambino
I Romani ritenevano che il corpo del bambino dovesse essere modellato perché era ancora morbido.
La nutrice massaggiava quindi il bambino in modo energico per modellare le sue membra.
Il bambino veniva allattato raramente dalla madre. Il più delle volte questa cura era affidata a una balia. Tuttavia, il bassorilievo di un sarcofago mostra una madre romana che allatta il suo bambino da sé.
Il bambino veniva avvolto in un telo che ne copriva il petto ma gli lasciava libere le gambe e le braccia.
Essere un ragazzo nell’Antica Roma
Il ragazzo veniva preparato alla vita adulta fin dalla più tenera età.
Da bambino, indossava la toga pratexta. Tuttavia, alcune fonti iconografiche mostrano ragazzi che indossano una tunica. La tunica veniva indossata quando giocava.
All’età di 16-17 anni, il bambino abbandonava la toga pratexta e indossava la toga bianca (quando diventava un cittadino romano). La disciplina ferrea era di routine e si pensava che li temprasse per l’età adulta e migliorare il loro carattere.
L’istruzione
Il ragazzo studiava (quando la famiglia poteva permetterselo) e imparava a diventare cittadino romano sempre se lo status sociale della sua famiglia lo consentiva.
In una famiglia benestante, i figli erano affidati alle alle cure di una nutrice quando erano piccoli e poi di schiavi maschi (paedagogi) che accompagnavano il bambino dappertutto: a casa e fuori, nei luoghi pubblici come i bagni e il teatro. Dovevano farsi carico dell’educazione morale e del comportamento dei loro dei loro figli.
Non esisteva un sistema di istruzione pubblica, né a Roma né in qualsiasi altro luogo dell’Impero. Vespasiano (69-79 d.C.) fu il primo imperatore ad assumere insegnanti di retorica a spese dello Stato a Roma.
L’istruzione di base prevedeva solo, dopo aver imparato a leggere e contare, la conoscenza della letteratura, dei miti e del diritto.
Nelle classi di tutto l’Impero, tra i compiti assegnati, ci poteva essere lo studio ad esempio di brani di Virgilio o altri poeti latini.
I ragazzi delle famiglie ricevevano l’istruzione che serviva a prepararli alla carriera nella vita militare e pubblica, con materie come la grammatica, la retorica, la musica, l’astronomia, la letteratura, la filosofia e l’oratoria oltre che la conoscenza del greco.
I ragazzi andavano a scuola o avevano un insegnante privato. La durata dell’età scolare variava in base alle disponibilità economiche della famiglia.
I ragazzi romani avevano giochi e giocattoli, che a volte riproducevano elementi reali, ad esempio le bighe. Giocavano con la palla o con il loro animale domestico (un gatto, un uccello, una capra).
Trascorrevano molto tempo con il padre, che si occupava di gran parte della loro educazione una volta che il bambino diventa in grado di capire il mondo intorno a sé.
L’impero romano provvedeva anche all’educazione della élite barbarica. Giuba II, ad esempio, fu educato a Roma. Nominato re vassallo della Mauretania nel 25 a.C. da parte di Augusto, vi regnò fino al 23 d.C., introducendo le usanze greche e romane nella zona nord-occidentale dell’Africa. Anche Attila l’Unno, fu educato alla corte dell’imperatore Onorio.
Essere una fanciulla nell’Antica Roma
La bambina veniva rapidamente preparata al suo futuro ruolo di moglie e madre. Durante la sua infanzia, la ragazza romana frequentava la scuola elementare, ma poi rimaneva a casa.
Sua madre le insegnava a fare i lavori domestici. La ragazza imparava le usanze del mondo romano e la gestione di una casa.
La ragazza romana porta uno chignon sul collo. Questo chignon veniva posizionato in cima alla testa quando si sposava.
Le bambine giocavano ai giochi dell’epoca, come quello delle noci, che veniva praticato anche dai maschi. Avevano delle bambole e a volte vengono mostrate con un animale domestico (di solito un gatto).
Le ragazze si occupano dei lavori domestici o si intrattenevano in passeggiate nel giardino di casa.
Il nucibus ludus
Il gioco delle noci
Il gioco delle noci (in latino nucibus ludus ) veniva giocato nell’antica Roma ed era simile al gioco delle biglie dei tempi moderni. Svetonio riferisce che ad Augusto piaceva rilassarsi giocando con i bambini “con ossa e noci “
Le regole
Una poesia attribuita senza troppa certezza a Ovidio contiene la descrizione di diversi modi di giocare con le noci. Secondo i manoscritti, ci sono possibili due letture del primo versetto:
Has puer aut certo rectus dilaminat ictu – “il bambino in piedi (rectus) separa improvvisamente le noci”
in altri manoscritti si legge:
puer aut certo rectas dilaminat ictu , – “ il bambino separa improvvisamente le noci allineate (rectas)’.
Nel ludus castellorum (gioco dei castelli), il giocatore sdraiato mira una o due volte a quattro noci che formano il castello, una viene aggiunta ad altre tre poste sotto di esso. Altri fanno scendere una noce su un piano inclinato, cercando di farle toccare una di quelle che stanno a terra. Le noci sono usate anche nel gioco pari e dispari ed è l’augure che intasca il premio che ha indovinato!
A volte anche con il gesso tracciano la costellazione del Delta, che è anche la quarta lettera dei Greci, e la attraversano di un certo numero di linee: ognuna getta un bastoncino e porta via tante noci quante indicano il luogo dove si è fermato. Spesso mettono anche ad una certa distanza un vaso cavo dove deve cadere una noce, gettata con mano leggera.
L’espressione latina nuces relinquere (“smettere di giocare alle noci”) significa “rinunciare ai giochi dell’infanzia”.
I bambini poveri
Soltanto sotto gli imperatori Nerva (96-98 d.C.) e Traiano (98-117 d.C.) fu introdotto il sistema imperiale degli alimenta per fornire fondi per l’istruzione dei bambini poveri.
Le famiglie povere soprattutto se nasceva una femmina, esponevano i bambini che nascevano in sovrannumero. In Oriente chiunque trovasse un bambino esposto poteva ridurlo in schiavitù, ma alla fine Traiano proibì questa pratica. Costantino I (307-337 d.C.) diede il via all’assistenza statale per combattere l’abbandono dei neonati, ma la pratica fu realmente vietata solo nel 374.
In un mondo senza servizi sociali adeguati, la beneficenza, o come diciamo oggi, la charity, era di fondamentale importanza per i poveri. L’imperatore prestava denaro a bassi tassi di interesse, che una volta pagati, erano destinati ad un fondo per sostenere il mantenimento di un certo numero di bambini.
Plinio il Giovane donò mezzo milione di sesterzi (pari alla paga paga annuale di 417 legionari) per il sostegno di ragazze e ragazzi a Roma. A volte gli uomini ricchi lasciavano una somma capitale nei loro testamenti destinati alla cura dei bambini poveri. Publio Licinius Papirianus della città di Cirta, nel Nord Africa, lasciò 1,5 milioni di sesterzi per fruttare il 5 per per cento di interessi all’anno per pagare il mantenimento di 300 ragazzi e 300 ragazze.