Abbiamo descritto la geografia e i popoli dell’Italia antica, per inquadrare la posizione dei romani all’interno della penisola e le popolazioni con i quali si dovettero via via confrontare per divenire poi i padroni del mondo e abbiamo descritto in maniera particolare l’affascinante e misterioso popolo degli Etruschi.
Origini di Roma
Il Lazio, nel suo primitivo significato geografico, era la regione che, confinata a nord dal Tevere, si estendeva verso sud, fino a poco oltre i monti Albani ed il fiume Numicio, essendo chiusa verso oriente dalle ultime pendici dell’Appennino. Più tardi il nome venne esteso fino alle zone meridionali, incluso il promontorio del Circeo.
Prime leggende latine
L’origine dei romani è stata a lungo persa in quella nebbia impenetrabile che è la nebbia dei tempi; c’è da temere che essa non si diraderà mai, perché purtroppo sembra diventare più spessa quanto più audacemente si cerca di brancolare nelle sue tenebre. In mezzo a queste nebbie, qualche individuo energico apparirà di tanto in tanto con una base abbastanza forte, ma queste figure sono, nell’insieme, insufficienti a formare una catena collegata di eventi.
Le più antiche memorie storiche raccontano che il Lazio era abitato dagli Aborigeni, nome con il quale le leggende della tradizione sembrano designare i primi abitatori della regione, quasi fossero nati dalla terra stessa: gli autoctoni. Altre fonti non meno antiche, raccontano che la contrada del basso Tevere fu dapprima occupata dai Siculi o Sicani, i quali furono poi vinti da popolazioni montane, venute giù dall’altipiano di Rieti; una parte, quelli sottomessi, si confuse coi vincitori; l’altra fu quella di coloro che emigrarono dalla regione, muovendo verso sud e riparando all’ultimo nell’isola che da loro ebbe nome di Sicilia.
Le storie narrano anche che nei tempi più remoti in Italia regnò Giano e che fu a quell’epoca che giunse nel Lazio il dio Saturno, che portò la civiltà agli uomini insegnando loro l’agricoltura. Giano e Saturno tennero insieme il regno e iniziò un’età felice di pace e di giustizia, per cui da allora « i saturni regni» furono celebrati come un’età di beata innocenza.
A Saturno seguirono poi Pico e Fauno. Giunse allora nel Lazio un greco Evandro, che insieme ad un numeroso stuolo di compagni emigrò dall’Arcadia; lui e i suoi si stabilirono sul colle Palatino e con riti religiosi e con le leggi portarono ad un’ulteriore grado di civiltà gli abitanti del luogo. Durante il regno d’Evandro giunse anche Ercole, reduce dalle peregrinazioni d’occidente e liberò la contrada latina da Caco, fiero mostro che infestava la zona. Ad Evandro successe quindi Latino.
Queste memorie costituiscono quasi un primo ciclo di miti o di leggende del Lazio, al quale un secondo se ne aggiunse poi con le storie dell’arrivo di Enea e delle sue imprese, dei re d’Albalonga e della fondazione di Roma.
Enea
Mille e centottantaquattro anni prima dell’era cristiana, Troia era stata conquistata e distrutta dai Greci; ma un vaticinio diceva che la potenza troiana sarebbe risorta nella stirpe di Enea. Questo eroe era d’origine divina, nato dall’unione di Venere con Anchise, principe troiano. Enea riuscì a fuggire dalla patria incendiata: prese le statuette dei suoi Lari e i Penati – gli spiriti degli antenati della famiglia, divinizzati e diventati una sorta di angeli custodi – e se li caricò sulla spalla sinistra; prese il vecchio padre e lo pose sulla spalla destra; il suo figlioletto Ascanio, detto poi anche Julo, si attaccò invece piangendo alla sua gamba e in tutto questo trambusto si perse per strada la sposa, che morì nell’incendio. Il tempo di vedere apparirgli la donna come fantasma, versare per lei due lacrime, mentre ella gli predice il suo arrivo in Italia, e l’eroe poi fuggì su un vascello trovato in qualche modo, seguito da uno stuolo di compagni.
Ci sono molte ragioni per non credere a questa storia e ce ne è abbastanza per farle perdere il peso che ha in tutta la leggenda. Infatti la questione è tutta proprio sul peso: considerate quanto doveva essere quello di Anchise stesso e aggiungeteci poi il carico di santini e altarini domestici di cui Enea si sarebbe gravato. Le sue povere spalle sarebbe crollate sotto un carico da mulo! Se prendiamo una bilancia, mettiamo su di un piatto un padre anziano e sull’altro un sacco di statuette di Penati, non c’è alcun dubbio che il tutto penderà a favore del vecchio: salvare lui e al diavolo i santini! Ecco la priorità! Si dà anche il caso che si dice di solito che Troia sia stata distrutta 430 anni prima della fondazione di Roma e ciò non si concilia con la cronologia storica della città.
Ma la leggenda se ne infischia e prosegue. Enea dunque, salpò dai lidi d’Asia col favore di Venere, sua madre, guidato da una stella, finché dopo un lungo peregrinare giunse in Italia e si stabilì sulle foci del Tevere, dove gli furono inviati molti segni e presagi divini per rivelargli che quella era proprio la terra promessa dal fato alla rinascente potenza di Troia.
I cantori latini, come facevano gli antichi aedi greci e come faranno i bardi anglosassoni poi, abbellirono questa storia col loro tocco particolare, aggiungendovi che Enea, al suo arrivo nel Tevere, decise di sacrificare una scrofa bianco latte come ringraziamento per la salvezza sua e dei suoi. La scrofa, che doveva essere un animale insolitamente perspicace, dovette aver sentore del suo destino e si mise a correre per due o tre miglia in lungo e in largo; strada facendo trovò persino modo di sgravare una cucciolata di trenta maialini; quando Enea stanco di inseguirla, credendo di sentire una voce che gli diceva di costruire una città proprio su quel posto, decise, “grazie i maiali”, di fondare appunto un nuovo regno. Un’altra versione vuole che la scrofa e i maialini siano stati tutto solo un sogno del figlio di Enea, Ascanio, talvolta chiamato Parvus lulus. Comunque sia, ancora oggi sullo stemma della città di Albano, campeggia una scrofa.
Regnava sul Lazio re Latino, il quale accolse benignamente i forestieri, assegnando loro un terreno e concedendo in sposa ad Enea sua figlia Lavinia. L’eroe esule troiano, sulla terra donatagli fondò nuova città, che dal nome della sposa fu detta Lavinium (Lavinio). Turno, re dei Rutuli (abitanti lungo il fiume Numicio, fra i colli Albani e il mare), cui Lavinia già era stata promessa in sposa, si sentì ferito nel suo onore e mosse guerra contro Enea e Latino. Quest’ultimo cadde ucciso in battaglia ed Enea governò i popoli congiunti degli Aborigeni e dei Troiani, che da allora si dissero Latini. La guerra contro Turno continuò e questi riuscì a trovare un nuovo alleato: l’etrusco Mezenzio, re di Caere (attuale Cerveteri). I due re furono vinti, ma nella battaglia presso il fiume Numicio, Enea scomparve; si disse che fosse stato assunto in cielo e dal suo popolo fu venerato come Giove indigete, cioè nume nazionale.
Albalonga
Ascanio, figlio di Enea, continuò a regnare sui Latini in Lavinio; ma nel trentesimo anno dalla fondazione di questa città, si trasferì col suo popolo ad abitare in una regione più salubre, sul monte più vicino, dove fondò Albalonga e diede origine alla genealogia dei re albani, i quali si succedettero in numero di quattordici nello spazio di trecento anni (o secondo altra tradizione, di 431). Delle imprese di questi re però non abbiamo notizie e gli stessi loro nomi vengono riferiti dagli scrittori antichi con molte discrepanze.
Quattordicesimo nella serie dei re albani fu Proca, il quale, morendo lasciò due figli, Numitore ed Amulio. Il regno spettava a Numitore per via della maggiore età; quindicesimo re nella discendenza in linea diretta da Enea, egli prese dunque possesso della corona in virtù del testamento di suo padre. Tuttavia Numitore non doveva essere un tipo troppo sveglio, mentre suo fratello Amulio era un bel figlio di buona donna, salvando la madre di entrambi che peraltro era la stessa. Quest’ultimo ereditò dei tesori trasportati da Troia. E poiché le ricchezze risvegliano l’ambizione, Amulio fece uso di quelle che aveva per usurpare il trono al fratello e trovò ben presto i mezzi per impadronirsi di tutto quanto il regno. Oltre al tradimento e alla sedizione, si macchiò anche di omicidio. Sacrificò infatti il figlio di Numitore ai suoi timori di essere un giorno rovesciato dal trono e costrinse Rea Silvia, unica figlia del fratello ormai spodestato, a farsi Vestale. La castità a cui ella era costretta in questo nuovo stato, bastava ad assicurargli che nessun erede del vecchio re venisse a minacciare lui e la sua discendenza. Ma il fato rese inutili tutte le sue precauzioni.
Romolo e Remo
Rea Silvia fu destinata ad eseguire alcune funzioni del culto sacro nel Tempio di Marte situato presso la Città.
Le Vestali erano infatti delle antiche monache, che si ritiravano dal mondo e facevano un voto di non contrarre matrimonio per trent’anni; dopo questo periodo erano libere di sposarsi, sebbene non risulta che nessuna fosse mai stata invitata ad avvalersi di questo privilegio piuttosto tardivo. La Vestale maggiore portava il rispettabilissimo nome di Virgo Maxima – cioé vecchia zitella in capo. Alle Vestali era richiesto di essere semplici nel loro abbigliamento e per estendere questa semplicità il più possibile al loro aspetto, i loro capelli venivano tagliati molto corti, per quanto potessero essere angosciate nel separarsi dalle loro trecce. Nonostante il ruolo prevedesse anche dei privilegi, la carica di Vestale non era comprensibilmente molto ambita: nel caso poi di un posto vacante, veniva estratta a sorte qualche giovane donna, la cui insoddisfazione per il suo destino era di solito molto visibile. Questa è una breve descrizione dei doveri e delle responsabilità dell’ordine a cui Amulio costrinse sua nipote.
Attraverso il bosco, nel mezzo del quale era situato il Tempio del dio Marte, scorreva una sorgente. La sacerdotessa Rea Silvia vi andava spesso ad attingere l’acqua di cui aveva bisogno per i sacrifici e per l’esercizio di tutte le altre funzioni sacerdotali. La donna fu qui sorpresa da un uomo travestito da soldato e sotto le divise con cui ordinariamente si rappresentava Marte; questi le rivolse le sue attenzioni, ma lei si mostrò irremovibile nel rifiutare i suoi tentativi di seduzione, per cui quello, dio o uomo che fosse, non ci pensò troppo su e la violentò . Altri invece riferiscono che la donna avesse una relazione regolare e clandestina con un giovane a cui dava appuntamento spesso presso la detta fonte.
Ben presto, Rea non poté più celare a tutti la sua gravidanza, dichiarò quindi che il Dio Marte ne fosse stato la causa, possedendola (gli déi in effetti secondo le leggende, scendevano spesso sulla terra per due scopi: sedurre fanciulle e ragazzi e provocare le guerre). II tempio, il bosco sacro e la presenza di questo Dio, che si credeva fosse residente nel santuario stesso a lui consacrato, dovevano mitigare davanti a tutti l’aspetto peccaminoso e sacrilego di questa che era vera e propria una violazione della castità delle vestali: Rea non poteva essere considerata colpevole di una unione che era avvenuta per volontà di un dio, contro cui i mortali nulla possono.
Chiunque tuttavia potesse essere il suo amante o se qualcuno l’avesse sedotta con la forza o con l’inganno, o se infine non fosse stato lo stesso Amulio ad averle usato violenza, la donna dette alla fine luce due figli, i quali neanche erano nati che già l’usurpatore aveva giurato di ucciderli.
La madre fa condannata ad essere bruciata viva, supplizio con cui ordinariamente si punivano le Vestali che violavano il voto di castità ed i due gemelli furono gettati nel Tevere.
Non appena fu eseguita la sentenza, il caso (o la volontà divina) volle che il fiume fosse straripato, in modo che il luogo dove furono gettati i neonati, essendo lontano dalla corrente, si trovò in secca e l’acqua divenne troppo bassa per trasportare via la cestella dove i due erano stati messi. Secondo altri racconti, la culla in cui i due bimbi furono esposti fluttuò effettivamente per qualche tempo sul fiume e naufragò sulla riva solo nel momento in cui le acque si ritirarono.
Una lupa, scendendo dalle montagne per dissetarsi, accorse al pianto e ai vagiti degli infanti e li allattò sotto un fico alle falde del colle Palatino. Apparentemente, a nessuno sembrava importare cosa ne fosse stato dei due neonati, e forse il fico simboleggia proprio questo: a nessuno infatti importava un fico. La lupa li accarezzava e li leccava come fossero i suoi propri cuccioli e i due fratelli si attaccavano alle sue mammelle come se essa fosse davvero la loro madre.
Da dove questa lupa spelacchiata avesse tirato fuori tutto questo latte e dove abbia trovato tutta questa bontà, non è dato sapere e forse non vale neppure la pena di indagare.
I bambini restarono quindi con l’animale, che vegliava in loco parentis su di loro e che li portò nella sua tana, dove ricevettero le visite di un picchio filantropo, che, quando erano affamati portava loro qualche cibo allettante: un verme? qualche insetto? Cosa altro mangiano gli uccelli infatti?
Insomma…una lupa nutrice…un picchio gentile…meno male che c’è lo studioso Andrea Carandini a renderci più chiare le cose, perché a leggere Livio e Plutarco sembra tutto una favoletta o una filastrocca per bambini…
“I demoni primi dei latini erano due, Pico e Fauno. Pico è il picchio, che è il simbolo del temporale e del fulmine, ma anche la scure, che con lo stesso schianto secco abbatte il legno. Fauno è il capro e contemporaneamente, lo dice la radice stessa della parola, è lo sgozzatore, il lupo».
Carandini delinea una immagine della prima Roma come società pre-storica, i cui archivi vanno ricercati non nelle fonti scritte ma nei reperti di un profondo rimosso, sottoterra o negli strati dell’inconscio collettivo.” (Dall’intervista ad Andrea Carandini a Silvia Ronchey sulla Stampa http://www.silviaronchey.it/articolo/5/485/Non-pi-la-Lupa-la-madre-dei-romani/)
Per quanto benintenzionati potessero essere questi animali, i bambini non avrebbero potuto trarre grande profitto da questa situazione, se non ci fosse stato qualcuno pronto a prenderli con sé.
E infatti, questo spettacolo colse nello stupore Faustolo, sovrintendente dei pastori del Re o guardiano degli armenti di Palazzo (c’è anche chi dice semplice porcaio), che si trovò a passare di lì un giorno. Il mandriano portò i neonati a casa sua e li affidò a Acca Larenzia, sua moglie, per nutrirli. La donna li allevò come figli propri. Altri scrittori poi affermano che i pastori, non ignorando la vita scandalosa di questa donna che era una sorta di prostituta (a questo punto sarebbe da chiarire la posizione di Faustolo: protettore o cornuto?), le avessero dato il nome di lupa e così spiegano l’aspetto meraviglioso di questa storia (ma ad essa sembrerebbe far risalire anche il termine “lupanare”, luogo dove si svolge la prostituzione e qui dal meraviglioso scendiamo sul triviale ).
I fanciulli dunque crebbero tra i pastori; ma nella nobiltà del loro aspetto e dell’animo, essi rivelavano un’origine che non poteva essere umile e si imposero presto come capi dei loro compagni e coetanei. Questo almeno è quello che raccontano le leggende ufficiali, perché da altre storie sembra che assomigliassero più alla loro prima madre adottiva, la lupa, diventando estremamente selvaggi, con una propensione appunto da lupi ad aggredire le greggi e comportandosi in modo molto brutale. Ma torniamo alla mitografia ufficiale. I due giovani, vissero come tutti gli altri da pastori lavorando per procacciarsi il cibo e costruendo da sé stessi le proprie capanne. Ben presto mal sopportarono la quiete della vita pastorale e si diedero ad organizzare battute di caccia, mentre guidavano il loro gregge.
Non contenti di combatter contro le belve feroci, rivolsero le loro forze contro i banditi del loro paese, catturandone parecchi e dividendo il bottino con i pastori, come dei Robin Hood pecorai. Il numero dei giovani che continuamente si univano ad essi aumentò sempre più, al punto che essi cominciarono a tenere assemblee e organizzare giochi atletici a premi. Finché i due fratelli furono sorpresi in una delle loro scorrerie sull’Aventino.
Remo fu fatto prigioniero condotto davanti al Re ed accusato di aver rubato e devastato i beni di Numitore. Romolo riuscì invece a fuggire. Remo fu quindi inviato da Numitore al fine di potersi discolpare di persona. Ma appena Numitore vide i tratti del volto del giovane, ne valutò la concordanza dell’età e soprattutto, una volta apprese le rivelazioni di Faustolo, si fece presto ben chiaro alla sua mente che quel ragazzo doveva esser suo nipote.
Faustolo infatti aveva sospettato già da tempo che i due fanciulli dei quali aveva avuto cura anni prima potevano essere benissimo quei medesimi che Amulio aveva esposti sul Tevere e aveva rivelato la cosa a Romolo. Numitore, dal canto suo, rivelò la verità a Remo. Dopo di ciò, non si pensò ad altro che ad un piano per disfarsi del tiranno. Amulio venne cinto d’assedio nella sua fortezza improvvisamente da tutte le parti, tanto che non ebbe tempo e modo di fuggire e di reagire, attanagliato da questo plurimo attacco di sorpresa. Fu quindi sconfitto, catturato e messo a morte. Numitore che era stato privato del trono, dopo anni riconobbe i suoi nipoti come parte della propria famiglia e rivelò a tutti la loro storia: i due erano stati strappati in tenera età dal seno della madre e gettati nel fiume dal despota ormai sconfitto. I due fratelli poi si congedarono con onore da Numitore, ormai di nuovo legittimo governante del regno di Alba.
Romolo e Remo desideravano fondare una nuova città, proprio là, nello stesso luogo dove erano stati esposti, salvati e cresciuti.
La posizione scelta era molto favorevole: era sufficientemente distante dal mare, circa 20 km, cosa che nel mondo antico significava principalmente proteggersi dai pirati che, assieme alle malattie, erano una vera piaga per tutte le popolazioni.
Il tratto del fiume vicino poi era facilmente alla portata delle imbarcazioni di allora, il che vi consentiva di realizzare anche un porto.
La nota dolente erano gli stagni, gli acquitrini e le paludi che circondavano il sito, esponendo la popolazione alla malaria, flagello che perseguiterà i residenti della zona a lungo. Ma le colline tutt’intorno erano una parziale protezione da questi e altri insetti e una protezione naturale contro altri tipi di animali, magari a due zampe e armati di spada o lancia. Ma c’era un ulteriore ostacolo: i due fratelli portavano anch’essi nel loro sangue la discordia e l’ambizione di governare e avere il potere; infatti presero subito a disputare fra di loro sul nome da imporsi alla città nuova. Essendo gemelli, nessuno di loro poteva invocare il diritto di nascita.
Allora il Re consigliò ad essi di consultare il volo degli uccelli, per sapere a chi dei due gli dèi propizi decretassero l’onore di governare la città nascente e per conseguenza di regnare anche sopra l’altro fratello.
Per seguire questo consiglio ciascuno si pose sopra una collina differente: Remo sull’Aventino vide sei avvoltoi, ma un momento dopo Romolo sul Palatino ne scorse ben dodici. Si formarono due partiti in questa occasione, uno si dichiarò per Remo che per primo aveva scoperto gli uccelli e l’altro per Romolo che ne aveva veduto un maggior numero. Ciascuno di loro pretendeva di essere il vincitore, uno per aver scorto prima il presagio e l’altro per avere scoperto un numero più alto di quei volatili. A questa disputa seguì un combattimento fra i due, in cui Remo rimase ucciso.
Nel 1989 andò in scena al Teatro Sistina, nella Capitale, I sette re di Roma, uno spettacolo teatrale di Luigi Magni con la regia di Pietro Garinei e l’interpretazione di Gigi Proietti. Fu subito un grandissimo successo e poi replicato per diverse stagioni.
TEVERE: – Sono Tiberlino fratello di Ponto dio delle sorgenti, figlio di Giano e di Giuturna signora delle acque, per cui so’ tutto zuppo. Qui sulla riva del fiume che, poi, sarei io, ma non mi chiamavo ancora Tevere ma Rumon, che in etrusco significava fiume, da cui, forse, er nome de Roma… ventisette secoli fa… non c’era niente, c’ero solo io.
Gigi Proietti, col suo ben noto estro comico e trasformistico, copriva i ruoli di diversi personaggi leggendari della storia dell’urbe, rivisitati in chiave comica: Tiberino, Enea, Fauno Luperco, Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, padre degli Orazi, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo, Bruto. Frutto della migliore tradizione della commedia musicale italiana, I sette re di Roma venne musicato da Nicola Piovani.
FAUNO LUPERCO – Mbè… mbè… mbèè… mmbè… mbèèè… mbè! So’ brutto, eh! Aho, so’ sempre una divinità: sono Fauno Luperco, divinità silvana e boschereccia, m’hanno messo da piedi ar Palatino na spelonca e m’hanno dato la sovrintendenza su tutta la palude, solo la puzza! Dice, embè? Tu ce guardi da li lupi e noi in cambio ti facciamo na serie di festeggiamenti chiamati appunto, lupercali… Beeella consolazione, ma a me proprio ai lupi me dovevano mette? Non pretendevo certo di essere messo a le belle arti come Apollo, se capisce, uno che deve fa’ la guardia a li lupi minimo ha da fa’ schifo, però se capisce pure perché le ninfe quaaanno me vedeno scappano via; no, ce sta solo na lupacchiotta, giù ar velabro, che me fa l’occhi teneri, forse me vole beeene, ma non è na lupa vera e propria pure si cammina a quattro zampe. Si chiama Acca Larenzia, è la moje der pastore Faustolo, ma lì nun c’è problema che… (si accarezza le corna) Phu… è lupa per metafora e come dirà Tito Livio, si fa lupa, “Lupam Inter Pastores”, una maniera garbata, da elegante prosatore, per dire che fa la mignotta… oppure “versipelle” è donna ma soffre del male del lupo e nelle notti de pieniluno se straforma in lupo e se ne va ululando a pijà d’assalto gli ovinidi. Mbèee è qui che se compion li fati stamattina? (Entra la ninfa) Ehi!
Luigi Magni scrisse La Storia dei Re di Roma su richiesta di Paolo Conti, che la pubblicò a puntate sulle pagine dell’edizione romane da “Il Corriere della Sera”. Pietro Garinei, leggendole, si rese conto che da quel testo si poteva trarre una commedia musicale e invitò Magni di scriverla.
ROMOLO – (in disparte piange)
GIANO – Perché piangi?
ROMOLO – Ho ammazzato mi fratello.
GIANO – Romolo, il fondatore!
ROMOLO – Abitavamio in fonno a sta palude, io co mi madre e mi fratello Remo.
GIANO – Ma che è… il monologo del fattaccio?
ROMOLO – Embè! Poi Remo se cambiò, se fece amico de li più peggio bulli, e quanno a mamma je pijava la malattia del lupo, io solo je corevo appresso; mamma ‘nvecchiava! Cor tempo se spelacchiava tutta, nun s’areggeva più su le zampe: io cor fiatone, dicevo a mi fratello: “A Re’, a Re’, qui coro solo io, pensace pure te a trottà appresso a mamma tua, no!” Remo me fece na risata in faccia; ieri ammatina che successe er fatto, me parve de sentì come na lotta… mamma aveva azzannato co li denti na pecorella, ma così pe’ scherzà, senza intenzione, quanno un pecoraro ‘mbriacone je dà na tortorata in testa, mamma fa no strillo e casca longa longa; ariva Remo e fa “Mamma, mamma mia…” e ce potevi penzà prima, bojaccia, a ‘nfamone, a scellerato! E mentre la lupa moriva e piano piano ripiava la figura umana, de persona, ce svelava così er segreto de la nascita… basta! Marciamo su Albalonga, ammazzamo Amulio e rimettemo nonno Numitore sul trono. Nonno ce fa: “Regazzi, io sono vecchio, pensatece voi a fare li re, che siete de nascita reale e de stirpe divina”. Remo je fece na risata ‘n faccia… pure a nonno; ma io un’ideuccia ce l’avevo già! Dico: “A Re, fondamo na città pe’ conto nostro, così da nomadi e pecorari che semo, se straformamo in stanziali e contadini, ‘nzomma dico, famo un sarto de qualità, no?” Remo me fece na risata ‘n faccia! E voi adesso me chiedete come io posso esse arivato a tanto, come la mano mia, che è stata avvezza a maneggià la lima cor martello, co tanto sangue freddo e sicurezza, abbia spaccato er core a mi fratello. Basta! M’attacco l’aratro ar collo e traccio er sorco de la città quadrata; me faccio na sudata che manco na bestia, per un perimetro de mille e cinquecento metri, mentre dall’altra parte Remo me guarda, e nun fa niente, manco un soriso stavolta. Poi, quanno ho finito, zompa, tira fori er cortello e zompa er fosso, me je buttai come na iena addosso e j’agguantai la mano, je strappai er cortello poi viddi tutto rosso e giù menai… menai… menai… (piange. Si sente il rumore del picchio)
GIANO – È solo un picchio, l’uccello sacro a Marte, tuo padre, che preannuncia le primavere sacre.
ROMOLO – Si, è l’uccello di mio padre. (Rumore del picchio)
GIANO – Aspetti gente?
ROMOLO – Si, le Erinni, anzi me credevo che fossero loro!
GIANO – Non verranno, il tuo non è un delitto, Remo saltando il solco che è sacro, ha commesso un’empietà, un atto blasfemo e tu con una cortellata hai riparato al danno.
La commedia è gustosa, divertente e perfino istruttiva, e offre un racconto ironico e dissacratorio della monarchia primitiva dell’Urbe, passando in rassegna il vasto e ramificato ginepraio delle tante leggende di questa età arcaica. Magni porta in scena direttamente i re, gli dei, i fauni, le ninfe, facendoli parlare con la voce o meglio, le voci di Gigi Proietti, che è il mattatore di questo spettacolo. Tutto diventa comico, anche se le vicende narrate parlano di carceri, di sacerdotesse stuprate da presunti dei, di figlie che straziano i corpi dei padri e di fratelli che si ammazzano fra loro o che ammazzano le loro sorelle.
La monarchia romana è un epoca che appartiene al mito, e le storie sono in realtà quelle della tradizione e della leggenda, anche se una base storica ci deve pur essere. Roma nasce con un fratricidio, fatto in comune con altre culture, che rappresenta i dissidi, le lotte intestine, le discordie, le guerre tra fazioni che insanguinano da sempre la storia dei popoli. Romolo giustifica il suo gesto come un atto sacro dovuto, dopo l’offesa fatta dal fratello alla Città Eterna, ma sarà esso ad ispirare le future terribili guerre civili che hanno incendiato l’Urbe.
ROMOLO – Dì!
GIANO – Perché la gente se crede che Roma se chiama “Roma” pe’ via che ha preso il nome da te.
ROMOLO – E certamente.
GIANO – Che sei un personaggio eponimo.
ROMOLO – Che so’ io?
GIANO – Ma non lo sei!
ROMOLO – Che…
GIANO – Eponimo.
ROMOLO – Meno male? Ma che vor dì, ahò?
GIANO – Forse è vero il contrario.
ROMOLO – Ma er contario de che, ahò!
GIANO – Sei tu che hai preso il nome, Romolo, da Roma, perché forse la città esisteva prima di te!… E forse tutto quello che è stato raccontato fino adesso non è mai accaduto!
ROMOLO – E allora?
GIANO – E allora forse tu… non sei mai esistito!
ROMOLO – (a bassa voce) Forse…
GIANO – Forse!
ROMOLO – Ma se ner Foro ce sta ancora er “Lapis Niger”, la pietra nera indicata ai posteri come tomba de Romolo, ma famme er piacere va’!
GIANO – A Ro’, il lapis è databile almeno cento anni dopo la tua presunta morte.
ROMOLO – Embè?
GIANO – S’è mai fatta la tomba a n’omo morto cent’anni prima?
ROMOLO – Eh, l’antichi… che ne sai?
GIANO – Che ce mettevano dentro?
ROMOLO – Niente!
GIANO – Eh!
Una piacevole occasione per istruirsi divertendosi e perché no? Per tornare un po’ sui banchi di scuola, con una domanda: ma Romolo è davvero mai esistito?
(Libero adattamento e riduzione da Storia romana: dalla fondazione di Roma alla caduta dell’Impero d’Occidente. Iginio Gentile, 1885, da Compendio della storia romana dalla fondazione di Roma fino alla caduta dell’impero romano in Occidente del dott. Goldsmith, 1801, e da The comic history of Rome di Beckett e Leech, 1850, con successive aggiunte, aggiornamenti e integrazioni)
Roma e seguiremo le vicende del suo primo re e capostipite dei romani: Romolo