Galba(68-69).-Otone (69).-Vitellio (69). Galba, dopo la morte di Nerone, entrò a Roma come conquistatore, senza troppi problemi, ma a causa della sua parsimonia e austerità divenne presto impopolare e fu ucciso dai suoi soldati ammutinati quindici giorni dopo il suo arrivo nella capitale. Apparteneva a un'antica famiglia patrizia e il suo rovesciamento fu sinceramente rimpianto dagli elementi migliori della città. Otone, primo marito di Poppea e leader dell'insurrezione contro Galba, venne quindi dichiarato imperatore. Non appena la notizia della sua ascesa raggiunse la Gallia, VItellio, un generale dell'esercito del Reno, si ribellò. Otone marciò contro gli ammutinati, ma fu sconfitto e si suicidò dopo tre mesi di regno. Vitellio era stato un buon soldato, ma come sovrano era debole e incapace. Fu ucciso dopo un regno di meno di un anno, durante il quale si era distinto per la sua golosità e i suoi volgari appetiti sessuali.
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(Il testo che segue è un brano scritto alla fine dell’Ottocento dallo Studioso Ramorino, e presenta dunque alcuni evidenti arcaismi linguistici)
Considerazioni generali
Virgilio che legge l’Eneide ad Augusto, Ottavia e Livia di Jean Baptiste-Wicar
Spenta la repubblica colla battaglia di Filippi, non fu difficile ad Ottaviano, che nella divisione delle provincie tra i triumviri aveva avuto l’Occidente, assicurare la sua autorità in Italia; e, superato il lieve ostacolo della guerra di Perugia (contro Lucio fratello di Marco Antonio), e quello più grave della guerra di Sicilia (contro Sesto Pompeo), allargati a settentrione i limiti dell’ imperio colla guerra contro i Dalmati e i Pannoni, Ottaviano finì per sopraffare anche l’ultimo rivale della sua autorità, Antonio, distruggendone la flotta ad Azio. Allora fu inaugurate davvero l’età imperiale, perché, se ancora vivevano le forme repubblicane, i poteri furono tutti concentrati in un uomo solo; egli imperatore, egli prefetto dei costumi, egli principe del Senato, egli infine onorato del titolo di Augusto. Del resto il governo di lui rispondendo ad un bisogno di pace, vivamente e lungamente sentito da tutti i Romani, reco grandi benefici; aiutato poi da’ suoi ministri Agrippa e Mecenate, e molto anche dalla fortuna, egli riordinò lo stato, tenne a segno i nemici esterni, regolo I’ amministrazione provinciale e iniziò un periodo di relative benessere che durò quanto il suo regno.
Un cambiamento così profondo nella vita politica dei Romani di questa età, in confronto di quella del secolo precedente, portava con sé naturalmente anche un mutamento nelle opinioni e nei sentimenti delle nuove generazioni. La più parte dei cittadini infatti non avevan più conosciuto la repubblica fiorente e serbava in fondo all’anima un ricordo di quelle eterne discordie civili, in cui tanti dei loro parenti avevano perduto la vita e le sostanze, e in cui si erano sciupate tante forze senza alcun vantaggio del paese.
Quindi non più lo spirito della vita pubblica li animava, non più la gara degli onori e della potenza, ma una certa prostrazione di forze, un desiderio di tranquillità, e una tendenza a riconoscere e appoggiare l’autorità di colui che aveva tolto sulle sue spalle il fardello della cosa pubblica e si mostrava così abile a portarlo. Amavano essi forse meno la patria dei loro predecessori? No: anche per loro Roma stava in cima di ogni altro pensiero, e ne ammiravano e inneggiavano la grandezza, ma, spente le ambizioni e gli odi di parte, si erano persuasi che la prosperità dello Stato dipendesse appunto dall’essersi raccolta e dal rimanere nelle mani d’un solo la somma dei pubblici poteri, acciocché egli potesse esercitare a tutela dei diritti d’ ognuno e della comune salute.
Di qui le Iodi universalmente date ad Augusto, la sua apoteosi politica che precedette l’apoteosi religiosa; il che non era frutto di adulatrice abiezione d’ animo, ma di schietta e radicata persuasione; di qui il rivolgere l’attività pubblica a sostegno dell’imperatore, e il desiderarne come massimo dei premi l’amicizia e i favori. Rimanevano bene dei vecchi repubblicani che vedevano con orrore le tendenze dei nuovi tempi, come ad es., i giuristi Cascellio e Labeone:, ma non erano approvati dal maggior numero, da molti anche più inclini alla servitù, derisi. Lo spirito repubblicano era dunque spento negli animi e i sentimenti dell’universalità s’erano affatto mutati.
Molti sforzi anche si fecero per migliorare i costumi e ravvivare la fede religiosa. Augusto s’ adoperò in tutti i modi per raggiungere questo fine; restaurò una grande quantità di templi in Roma e nelle province. ne innalzò dei nuovi; riorganizzò i collegi sacerdotali e le cerimonie del culto , di cui egli stesso dava l’esempio di essere scrupoloso osservatore; creò nuovi culti e nuove feste; rispetto ai costumi pure tentò di migliorarli con promulgare leggi adatte.
A queste riforme di Augusto contribuivano i poeti, che, incitati da lui o da’ suoi amici, rievocavano la memoria delle antiche leggende religiose, come Virgilio, oppure satireggiando il vizio, facevano sentire la necessità di farsi migliori, come Orazio, e qualche buon effetto si ottenne da questi sforzi; la generazione dell’eta di Augusto fu alquanto migliore della precedente; ma purtroppo non fu un effetto durevole; a vincere lo scetticismo religioso non bastava ricondurre la fede pagana alle sue origini, giacché in nessun modo essa rispondeva più alla progredita cultura e però tutto si riduceva ai rinnovati splendori del culto; e i costumi se furon migliori sotto Augusto, ricaddero peggio di prima sotto i successori; che anzi negli ultimi suoi anni, ebbe Augusto il dolore di vedere la sua stessa casa contaminata da quelle infamie da cui egli credeva aver liberato Roma.
Comunque sia, il carattere proprio dell’età di Augusto è appunto questo: la tendenza verso il meglio, L’aspirazione ad un ideate più elevato, ma ciò più per volere più dell’Imperatore che per impeto naturale degli animi, e però, cortigianeria e menzogna da un lato, miglioramento passeggero dall’altro e finale inefficacia di sforzi, che non muovevano da un sentimento universale e profondo. Di qui anche il principio di una rovinosa decadenza.
La Letteratura non poteva rimanere estranea a questo nuovo indirizzo delle menti: mutati cosl sostanzialmente i motivi che l’ ispiravano, essa doveva assumere forme affatto diverse da quelle che aveva avuto nell’età di Cicerone. Anzitutto non più Roma e la Repubblica, ma Roma ed Ottaviano divennero il centro e il perno di tutto il movimento letterario; l’Imperatore coi favori accordati ai cultori delle lettere ed aiutato da valenti cooperatori come Cilnio Mecenate (68 – 8 a.C.), Asinio Pollione (76 a.C. – 5 d. C.) e anche Valerio Messala, (64 a.C.- 8 d. C.) che era tra i patroni anche se ma meno ligio ad Augusto, fece servire le lettere ai propri scopi, le rese strumento delle sue riforme, e banditrici delle sue lodi.
Perciò la letteratura divenne più religiosa e morale in apparenza, ma in fondo meno sincera o adulatrice i alcuni generi caddero di per sé, come l’eloquenza che vive solo nella libertà: alla prosa prevalse di nuovo la poesia; la quale, nutrita da studi profondi dell’arte greca, giunse al più alto grado di perfezione, massime per quel che concerne la forma.
Veramente non mancavano di quelli che, avversando le novità letterarie, preferivano e celebravano i vecchi scrittori; erano anche in genere i nemici del nuovo ordine di cose che si mantenevano fedeli alle idee repubblicane. Ma la letteratura nuova era troppo favorita dai tempi, e troppo bene difesa dall’ingegno dei suoi cultori per non vincere in questa lotta e non divenire a poco a poco il pascolo prediletto delle menti colte. Al che contribuirono e le nuove biblioteche fondate di questi tempi, quella di Pollione nell’atrio della Libertà, quella di Augusto nel tempio di Apollo Palatino , e l’altra pure d’ Augusto nel portico di Ottavia, e l’uso ora introdotto di recitare componimenti letterari sia poetici sia prosaici davanti ad un pubblico invitato appunto per ascoltarli.
Di qui poi viene un’ altra conseguenza, che la letteratura e principalmente la poesia come tendeva a perfezionarsi nella forma per soddisfare al gusto del pubblico intelligente, così si allontanava sempre più dal popolo (odi profanum volgus et arceo, odio il volgo profano, e lo tengo lontano, Orazio, Odi) la oui rozzezza cominciò a divenire uggiosa e insoffribile ai colti ingegni (pingui nil mihi cum populo – con le persone stupide non ho niente a che fare, Appendix Virgiliana, Catalepton. – non ego ventosae plebi suffragia venor, io non compro i voti della plebe incostante, Orazio, Epistole ). Tali sono i lineamenti generali della letteratura augustea.
Anche l’educazione scolastica si risentiva del nuovo indirizzo della cultura, Non più preparare i giovani alla vita pubblica era lo scopo della scuola, ma questo esclusivamente di istruirli; non si volgeva più alla pratica, ma alla coltura dell’ intelletto , ormai apprezzata di per sé come mezzo utile al conseguimento del proprio benessere. L’ordinamento delle scuole non fu tuttavia mutato; ma i grammatici vennero ad acquistare più importanza, come quelli che iniziando i giovani alla lettura dei classici, Ii ponevano meglio in grado di coltivare i vari generi della letteratura; le scuole dei retori, non avendo più lo scopo di preparare degli oratori, si ridussero ad esercizi di stile ed a declamazioni, futili e spesso dannose.
Né molto migliore era l’insegnamento della filosofia, assunto spesso da persone inette e fatto consistere nell’esposizione delle teorie più paradossali, senza alcuna profonda intelligenza delle ragioni di ogni sistema. La cultura dei giovani si compiva poi nei circoli e nelle conversazioni delle persona colte; giacché in nessuna età fu così grande come in questa il numero delle persone che si dedicarono per tutta la vita agli studi letterari, coltivandoli come un’occupazione geniale; tanto s’ erano mutati i Romani dai primi secoli, quando pareva disonorevole ogni occupazione che non si riferisse alla vita politica. Passiamo ora a dire particolarmente dei poeti e dei prosatori dell’eta augustea.
I poeti dell’età augustea
Virgilio
P. Virgilio (cosl dice il nostro popolo due secoli, ma il vero nome era Vergilius) Marone nacque ad Andes vicino a Mantova – l’anno 70 a.C. (15 ottobre). Fu istruito a Cremona sino all’età in cui assunse la toga virile; allora andò a Milano ove stette due anni, poi a Roma, ove fu a scuola di eloquenza con Ottaviano presso Epidio, e più tardi di filosofla con Alfeno Varo presso il filosofo epicureo Sirone. Studiò anche matematiche e scienze naturali. Tornato in patria si dedicò alla poesia. Avendo Ottaviano fatto distribuire tra i suoi veterani i terreni situati tra Cremona e Mantova, anche Virgilio fu spogliato del suo campicello; ma per intercessione di Asinio Pollione, allora governatore della Gallia, lo recuperò.
Più tardi ad Asinio Pollione essendo succeduto Alfeno Varo, questi non poté impedire che in una nuova distribuzione di terreni Virgilio fosse di nuovo spogliato, anzi corresse pericolo di vita per mano di un certo Clodio. Scampato a questo pericolo, andò a Roma, ed ivi per via di Mecenate, al quale le sue poesie lo avevano già fatto conoscere favorevolmente, ebbe un’altro possesso in compenso. Virgilio entrò in intima familiarità con Mecenate tanto da potergli presentare Orazio; e visse poi sempre amico a questi e ai più nobili ingegni d’allora , come L. Vario Rufo, Cornelio Gallo, Emilio Macro, tutti poeti; amico puro e caro ad Ottaviano alle cui idee di riforma servì meglio d’ogni altro colla sua musa gentile.
Passò il resto della vita attendendo agli studi poetici, parte a Roma parte a Napoli, dove aveva case e una villa che era il suo soggiorno prediletto. Decise poi di fare un viaggio in Grecia ed in Asia per raccogliere notizie e conversare con dotti uomini al fine di poter poi al ritorno dare l’ultima mano alla sua Eneide; ma giunto ad Atene e qui incontratosi con Augusto che ritornava dal suo viaggio d’Oriente, si lasciò indurre anch’egli a tornare in Italia; si ammalò lungo la via, e, approdato a Brindisi, morì dopo pochi giorni (22 settembre 733/19); conforme al suo desiderio le sue ossa furono trasferite a Napoli ed ebbe onorata sepoltura nella villa di Pozzuoli; l’Eneide che egli avrebbe voluto bruciata, perché non perfetta, fu invece per ordine da Augusto pubblicata com’era da L. Vario e Plozio Tucca, gli amici del poeta ed ora eredi di una parte delle sostanze di lui.
Virgilio era d’indole buona e gentile; Orazio lo dice ottimo e anima candida; a Napoli il popolo lo chiamava Παρθενίας ( Parthĕnĭas da Παρθένος; “vergine” ,per la purezza dei suoi costumi); era poi così umile che quando veniva a Roma e si accorgeva d’essere mostrato a dito da qualcuno, si nascondeva nella casa più vicina. Non gli mancarono dei nemici, e specialmente detrattori della sua fama poetica, ma le loro voci furono soffocate presto dalle lodi universali. Un giorno al teatro, lui presente, all’udir recitare de’ versi suoi, tutti si alzarono in piedi come fosse I’Imperatore.
Crebbe la fama di lui nei secoli seguenti e nel Medio Evo si giunse perfino a farne un mago o un santo del Cristianesimo; Dante gli fece grande onore scegliendolo a maestro e guida sua nella Divina Commedia.
Opere di Virgilio
1° Bucolica
10 Ecloghe, composte negli anni 41- 39 a. C., imitate e in parte tradotte da Teocrito, ma con molte allusioni a persona e fatti contemporanei. Sono dialoghi o soliloqui di pastori, che esprimono in versi le loro passioni o sfogano il loro dolore; ma spesso sotto i nomi di Titiro, Menalca, Licida, il poeta intende sé stesso e i suoi amici. Ciò rendeva più interessanti le egloghe ai lettori, ma travisava alquanto l’indole della poesia pastorale, togliendole quella semplicità di affetti e d’espressione che formava il suo principale pregio negli idilli dei poeti siciliani. Va ricordata particolarmente l’ecloga 4, che, celebrando il cominciamento di un nuovo ordine d’anni secondo un’opinione diffusa allora per tutto il mondo, e la nascita di un figlio di Asinio Pollione, fu interpretata dai padri della Chiesa come una profezia della venuta del Cristo; non ultima sorgente delle leggende medievali su Virgilio.
2° Georgica
poema didascalico in 4, libri, condotto a termine in 7 anni dal 37 al 29 a.C. 1° libro contiene precetti relativi all’agricoltura, il 2° da precetti di arboricoltura, il 3° si occupa dell’allevamento del bestiame, il 4° dell’apicoltura. Fu fatta quest’ opera per suggerimento di Mecenate, il quale, servendo ai disegni di Augusto, voleva rinfrescare nell’animo dei Romani,l’amore della vita campestre e la moralità e religiosità che comunemente va con essa congiunta. Due edizioni fece Virgilio delle Georgiche; una verso ii 29 a.C., l’altra dopo il 26; mentre la prima nel quarto libro celebrava le lodi del poeta Cornelio Gallo, la seconda fatta dopo che Gallo era caduto in disgrazia di Augusto e morto, sostituì a quelle lodi l’episodio del pastore Aristeo. Questa seconda edizione è quella che noi possediamo.
È forse il componimento piu perfetto di tutta la letteratura latina; non tanto per la bontà dei precetti che Virgilio, oltre che dall’esperienza propria, attinse alle migliori tonti come l’ Economico di Senofonte, le Georgiche di Nicandro, le opera di Catone e di Varrone, quanto per l’arte con cui seppe esporre questi precetti, dando rilievo al lato del sentimento descrivendo le scene di natura con insuperata evidenza, intrecciando episodi graziosissimi, o soprattutto adornando in guisa meravigliosamente perfetta i suoi pensieri col magistero della parola, sia rispetto alle immagini, sia rispetto all’armonia del verso. Ebbe a modelli fra i Greci Esiodo ed Arato, fra i Latini, Lucrezio a cui non fu inferiore per il sentimento della natura, e superiore di gran lunga nel maneggio della forma.
3° Aeneis
L’Eneide, poema epico in 12 libri, intorno a cui Virgilio lavorò per gli ultimi 10 anni di sua vita, e avrebbe voluto dedicargliene altri tre per recarlo a perfezione. Argomento del poema e il racconto delle vicende di Enea troiano dalla distruzione di Troia sino alla sua venuta in Italia, e da questa sino alla vittoria riportata su Turno re dei Rutuli, onde il suo stabilirsi nel Lazio e l’origine di Roma. Lo scopo finale del poeta e appunto questo, di celebrare l’origine dell’imperio Romano e tessere le lodi di Cesare che era creduto discendente di Enea. Quindi egli non tralascia alcuna opportunità di magnificare la storia Romana, come nel libro VI, dove ad Enea disceso per l’antro della Sibilla nell’Inferno, suo padre Anchise profetizza i principali avvenimenti della storia di Roma (756 e seg.); e nel libro VIII ove si descrivono le figure scolpite sullo scudo fabbricato da Vulcano per Enea, tutte allusive a cose di Roma, tra l’altro la stessa battaglia d’Azio.
Virgilio seppe dunque risolvere in questo modo la difficoltà, finora tentata invano dai suoi predecessori, di far servire l’epopea alle lodi di Roma e della sua storia, e pur non uscire dal cerchio delle leggende, le quali sole, per l’elemento meraviglioso e soprannaturale che contengono, possono essere materia di poema epico. Nella trattazione del suo tema poi Virgilio imitò Omero. l’Odissea nei primi sei libri, I’iliade negli altri sei; né solo imitò nelle invenzioni, nell’intreccio, ma anche nelle similitudini, nelle immagini traducendone talora degli interi versi.
E nondimeno fu in molti tratti originale, principalmente là dove ebbe a esprimere i più dolci affetti dell’animo; per esempio l’amore di Didone, la regina africana, per Enea testé approdato nelle sue terre, e la miserabile fine di lei dopo essere stata dall’amante tradita (v. libro IV), sono una reazione tutta nuova, e nessuna letteratura può vantare una pittura di alfetto più vera e più bella; massime che vi si intreccia la storia, e nella imprecazione della morente contro i discendenti di Enea tu scorgi manifesta l’allusione alle secoIari guerre cartaginesi e alll’inestinguibile odio tra i due popoli.
Alcuni episodi sono graziosissimi, come quello di Eurialo e Niso nel libro IX; e se il carattere del protagonista e freddo e poco simpatico, meotre e molto piu interessante il carattere di Turno che difende il suo paese e la sua sposa, ciò dipende dall’aver voluto Virgilio rappresentare il fondatore di Roma come un essere ossequente ai voleri della divinità, e perciò superiore alle passioni umane, conforme a quel senso di religiosità che spira in tutto il poema, e rispondeva alle idee riformatrici di Augusto; 1 ma dove il poeta non deve servire ad altri intendimenti, tratteggia i caratteri con molta verità e naturalezza, come è appunto il caso di Didone, di Latino, di Evandro, di Pallante, ecc, ecc. D’altro lato che nell’Eneide si scorgano difetti molti, incongruenze, lacune, piccole contraddizioni, versi non finiti (circa sessanta) non farà meraviglia quando si pensi che il poeta non potè limare la sua opera; e nonostante ciò vi sono tante bellezze, la lingua e ii verso vi sono maneggiati così maestrevolmente, che sarà sempre oggetto della più profonda ammirazione.
Opere minori di Virgilio o a lui falsamente attribuite:
1° Culex:
poemetto in 412 versi, dove I’anima di una zanzara descrive I’ inferno; invenzione meschina, ma versificazione perfetta. Se è veramente di Virgilio, del che dubitano parecchi, fu un lavoro della sua prima giovinezza, e vi si sentono infatti i preludi di alcuni motivi, che il poeta riprese in seguito ad elaborare.
2° Ciris
racconto in 541 versi del tradimento di Scilla, figliuola di Niso re di Megara e della sua trasformazione nell’uccello Ciris. Certo non è di Virgilio, perché l’autore dipinge se stesso come vecchio desideroso di dedicarsi alla filosofia epicurea; imitò molto Virgilio e ancor più Catullo, e talvolta anche Lucrezio.
3° Moretum
(la Torta d’erbe), grazioso idillio in 124 versi, ove si rappresenta un contadino che, levatosi all’alba, si cuoce il pane, poi si prepara una torta di erbe e se ne va al lavoro. Niente repugna a ritenere questo lavoro come virgiliano; è imitato dal greco, e perfetto nella forma.
4° Copa (l’Ostessa)
elegia in 19 distici, d’intonazione festosa; non di Virgilio, certo dell’eta augustea, per la bontà della forma. 5° Catalecta, raccolta di 14 componimenti in metro elegiaco e giambico, e di vario contenuto, Alcuni certo non son di Virgilio, come il 5° e 11°; su altri cade il dubbio, come il 5° il 9° e i due ultimi; i rimanenti possono ritenersi genuini.
Molti furono i commentatori di Virgilio. Uno dei più antichi ed importanti e M. Valerio Probo, celebre grammatico; più tardi ci fu Servio di cui noi possediamo ancora il commentario, ed è preziosissimo. Nei tempi della decadenza si fecero anche centoni di versi virgiliani; e il volgo superstizioso si servì delle poesie di Virgilio per trarne auguri, onde le cosiddette Sortes Vergilianae.
Orazio
Q. Orazio Flacco nacque I’ 8 dicembre del 65 a.C. a Venosa sul confine tra l’Apulia e la Lucernia, ed era figlio di un liberto, che con l’impiego di riscuotitore delle gabelle s’era fatto qualche risparmio e possedeva un piccolo podere. Fece le prime scuole nel luogo nativo, ma presto fu da suo padre condotto a Roma, dove ebbe maestro Orbilio Popilio di Benevento, e dove sotto la scorta del padre, uomo di molto buon senso, imparò a conoscere gli uomini, a notarne i difetti, ad evitarli.
Verso il 45 a.C. si recò ad Atene per compiervi i suoi studi, ed ivi udì vari maestri di filosofia e studiò le loro dottrine, senza professare alcuna in particolare. Nell’agosto del 44 sopraggiunto in Atene M. Bruto, l’uccisore di Cesare, che si disponeva a far guerra contro gli eredi dell autorità cesariana, guadagnò Orazio alla sua causa e lo creò tribuno dei soldati.
In tal qualità Orazio percorse la Macedonia e l’Asia, fu presente alla battaglia di Filippi (autunno del 42 ), e fu travolto anche lui nella fuga dei seguaci di Bruto. Tornato a Roma in forza dell’amnistia, si trovò spogliato del paterno podere per distribuzione di terreni ai veterani; per cui fu costretto a procurarsi un impiego di scrivano presso il questore. Ma poco soddisfatto di questa posizione , egli cominciò a coltivare la poesia , e presto si fece conoscere per le satire che componeva alla maniera di Lucilio. Sul flnire del 39 per mezzo di Virgilio e di Vario fu presentato a Mecenate; nove mesi dopo (autunno del 38) fu ammesso nella sua società.
D’ allora in poi, lasciato il misero impiego, visse tutto per l’arte, ed ebbe da’ suoi protettori i mezzi per vivere lautamente ; nel 33 gli fu donata la villa sabina che divenne il suo soggiorno prediletto, e fu celebrata spesso nei suoi versi: per mezzo di Mecenate pure entrò in relazione con Augusto a cui fu caro, sebbene esso si contenesse verso lui con grande riserbo.
Passò il rimanente della vita senza contrasti, circondato dagli amici, e immerse negli studi. Morl poco dopo Mecenate, il 27 novembre dell’anno 8, e fu seppellito vicino a lui. Dotato dalla natura di un’indole finissima e di un gran buon senso, Orazio seppe, sia nella vita intellettuale sia nella vita pratica, evitare ogni eccesso e mantenersi in quella via di mezzo, di cui ultra citraque nequit consistere rectum, «v’è una misura nelle cose; vi sono determinati confini, al di là e al di qua dei quali non può esservi il giusto» (Satire).
Figlio del suo tempo, amava sopra ogni altra cosa il quieto vivere, e però accettò volentieri il nuovo ordine di cose, ma non ne esagerò l’importanza, e inneggiò ad Augusto solo dopo la battaglia di Azio, quando l’adulazione era divenuta universale. Conoscitore profondo del cuore umano, osservò che la prima ragione dell’Infelicità degli uomini era dentro i loro animi e consisteva nell’essere essi schiavi delle loro passioni, e scrisse per inculcare loro la necessità di liberarsene.
Conosceva anche sé stesso; sapeva misurare le sue forze; confessava i suoi difetti e s’ingegnava di correggerli. Talvolta si notano in lui delle contraddizioni; ora rigido custode della virtù, ora seguace di Aristippo; ora ti ricorda gli amorii più carnali, ora ti addita i più nobili ideali. La ragione è che egli non era migliore del suo tempo, non perché mirasse ad un elevato concetto della virtù, ma solo perché insegnava ad evitare gli eccessi:
Virtus est vitium fugere et sapientia prima stultitia caruisse (“Fuggire dal vizio è l’inizio della virtù, e liberarsi della follia è l’inizio della saggezza”. Epistole); ora la strada di mezzo fra gli eccessi è abbastanza larga da permettere delle oscillazioni. In ogni modo Orazio fu uno degli uomini più notevoli del suo secolo, e ne riassume meglio d’ogni altro le tendenze, i difetti, i pregi.
Opere di Orazio
Nei manoscritti e nelle edizioni le poesie di Orazio son sempre messe in quest’ordine:
1° i 4 libri delle Odi; 2° gli Epodi; 3° il Carmen saeculare; 4° le Satire; 5° le Epistole. Ma in ordine di tempo furono composte prima le satire. Nello stesso anno in cui fu pubblicato il 1° libro delle satire, furono pure pubblicati gli Epodi.
Frutto di età più matura furono i tre primi libri delle Odi, pubblicati verso il 24; e poi il 1° libro delle Epistole che è del 20. Il 17 e l’anno del Carmen saeculare, scritto in occasione dei rinnovati ludi Apollinares. Ripreso, per istanza d’Augusto, il genere lirico, Orazio compose appresso il 4° libro delle Odi, che pubblico verso il 13. Quasi contemporaneamente furono scritte le prime epistole del 2° libro; la 3° ed ultima, cioè l’epistola ad Pisonem, detta comunemente Arts poetica va assegnata agli ultimi anni della vita d’Orazio.
Satire
Sono 18 in tutto, 10 del 1°libro, 8 del 2°; conversazioni alla buona (dette dall’autore stesso sermones) su vari argomenti; ora son presi di mira certi difetti degli uomini , come il non esser mai contenti del proprio stato, l’ abbandonarsi ad illeciti amori macchiando il buon nome, il non saper mai contenersi nei giusti limiti e il peccare in tutto o per eccesso o per difetto; ora si dà addosso all esagerazioni e ai paradossi degli stoici e degli epicurei; ora son narrate alcune vicende personali, come nella 5 del 1° libro, il viaggio a Brindisi e l’incontro di Mecenate e Virgilio; ora si difende il genere letterario preso a trattare e si fa la critica di quelli che lo trattarono prima. Insomma vi è una grande varietà di soggetti; vi si pongono davanti agli occhi molte scene della vita Romana d’ ogni giorno, e molti personaggi coi loro vizi e colle loro virtù: e ciò condito di tanta lepidezza e grazia, con un senso così fine delle esigenze dell’arte, sia per quel che riguarda la scelta delle cose da dire sia per la maniera di dirle, che si prova un grandissimo diletto a leggere queste satire; massime che la perpetuità della umana natura, anche nelle sue debolezze, fa sì che in ogni tempo riescano opportune e feconde di qualche utile ammaestramento.
Orazio per quest’opera ottenne gran lode; pur avendo imitate in molte cose di Lucilio, gli fu tanto superiore, massime per la bellezza della forma, da apparire in tutto originale; anche seppe egli perfezionare sé stesso, e le satire del 2° libro sono in generale meglio condotte di quelle del 1°, e il suo esametro (che a questo si ridusse, lasciata la varietà metrica di Varrone), col suo andamento facile e in apparenza trascurato, è adattissimo al genere del componimento e agli argomenti trattati.
Epodi
Gli Epodi furono detti così dai grammatici a motivo del metro, che consta in generale di distici, in cui un verso più lungo e seguito da uno più corto (detto ἐπῳδός); ma Orazio non li chiamava cbe col nome di iambi, e sono difatti componimenti alla maniera di Archiloco, contenenti per lo più violenti assalti contro persona determinate, o poeti maledici Cassio, Severo e Nevio, o la perfida Canidia, fabbricatrice di veleni, o altri; qualche rara volta Orazio vi prende un tono più elevato, come la dove si scaglia contro il popolo roniano che rinnova le scellerate guerre civili, o dove fa l’ elogio della libera vita campestre.
In queste poesie Orazio cominciò a usare vario genere di metri a strofe (giambica, alcmanica, archilochia, pitiambica); perciò costituiscono l’anello di congiunzione colle poesie propriamente liriche, cioè colle Odi. Delio quali i primi tre libri, come si disse, formano un’ opera a parte, così il 4° libro e il Carmen saeculare. Veramente Orazio non aveva ingegno sovranamente lirico; era più nato per la satira e fu in questa insuperabile ; ma i molti studi fatti sui poeti greci, non solo su quelli dell’eta alessandrina, ma sui maggiori della scuola Eolia, Alceo, Saffo, ed altresì sui grandissimi come Pindaro, Bacchilide, I’abilità conseguita nel maneggio della lingua e del verso, qualche ispirazione propria, lo fecero essere anche poeta lirico; e se non raggiunse l’altezza di Pindaro, fu certo il più grande poeta lirico di Roma.
Cantò mille soggetti, l’amore, la patria, la quiete della vita domestica, le lodi di Augusto, le scene della natura, la religione; e se non fu sempre ispirato, se gli manca spesso l’entusiasmo lirico o non dura, svolse i suoi soggetti con studiato raccostamento di pensieri e di immagini, i cui inattesi contrasti danno novità e bellezza, e seppe armonizzare il verso col pensiero in guisa veramente perfetta e insuperabile.
Si notano alcune differenze fra i vari libri, specialmente fra i primi tre e il quarto, pubblicato dopo i cinquant’anni di età, nel quale la forma e perfezionata massime per la fattura dei versi, l’ispirazione e men viva, il lirismo meno audace, Il 3° libro è quello che contiene le odi più belle, ad es. le prime d’argomento patrio, la 9 a Lidia, la 29 a Mecenate, e altre, le quali son prova che, avendo Orazio preso le mosse dall’ imitazione di modelli greci, seppe a poco a poco elevarsi a un certo grado di originalità, e trattare argomenti nuovi non meno bene dei Greci.
Epistole
Le Epistole, genere di poesia preferito da Orazio negli ultimi anni di sua vita, sono di nuovo componimenti in tono familiare ed in esametri, come le satire; ma con questa differenza che vi si sente l’uomo più maturo, più temperato, e che ha acquistato maggior coscienza dell’arte propria. Si trattano anche qui argomenti morali e di critica letteraria; il poeta vi espone la sua filosofia, cha consiste nel consigliare la moderazione, la saviezza, l’aborrimento dei vizi, stimando che solo questa intima questa possa produrre la contentezza dell’animo; vi espone poi anche le sue dottrine intorno all’arte dello scrivere, massime nella famosa Epistola ad Pisones, che è un vero capolavoro del suo genere, e fu ritenuta in ogni tempo come il codice del buon gusto per ogni vuol scriver bene.
Anche Orazio ebbe molti commentatori, massime che assai presto le sue poesie cominciarono a essere lette nelle scuole. Si citano fra costoro Modesto, Valerio Probo, Q. Perensio Scauro, Elenio Acrone, Pomponio Porfirione. Gli scolii di quest’ultimo sono pervenuti anche a noi; quelli che portano il nome di Acrone sono di età posteriore.
Tibullo
Albio Tibullo apparteneva a famiglia equestre Romana e nacque con tutta probabilità
verso il 54 a.C. Agiato in origine, pare abbia dovuto egli pure subire perdita di possessioni nella partizione dei terreni fatta nel 41; ma più tardi entrato in relazione con Valerio Messala riebbe una discreta ricchezza; e visse quieto e senza contrasti fino al 19. Poco sappiamo intorno alla sua vita.
Nell’anno 30 accompagnò Messala nella sua spedizione contro gli Aquitani, e l’accompagnò pure subito dopo nel viaggio d’Oriente, ma a Corcira s’ammalò, e lo vide partire per l’ Egeo senza poter più far parte del cortegglo, Del resto Tibullo, bello di forma e di animo mite e gentile, era inclinato all’ amore e alla poesia più che ai viaggi ed alla guerra.
Delia, Nemesi, Glicera furono le donne amate da lui, le due prime celebrate anche nei suoi versi; e in questa storia di passioni amorose si riassume tutta la sua vita. – Studiosissimo della poesia amorosa alessandrina, Tibullo si dedicò a quel genere elegiaco ehe a’ suoi tempi era coltivato già con successo da Cornelio Gallo, l’ amico di Virgilio ed Orazio (69 – 27), e abbandonandosi all’ispirazione che nasceva nel suo animo da un sentimento vero e profondo, raggiunse in questo genere la perfezione, e il suo nome si trasmise alla posterità come il nome del primo poeta elegiaco di Roma.
Noi possediamo ora 4 libri di elegie attribuite a Tibullo; ma il 3° libro concernente gli amori di Ligdamo e di Neera certamente non è suo, ma di un poeta più giovane (nato nel 43 come si rileva dall’ El. 5. v. 16-17), che appartenendo anche al circolo di Messala, o avendo imitato Catullo, fu dalla rozza posterità con lui confuso; anche nel 4° libro il panegirico di Messala in 211 esametri (l’unico componimento della raccolta non scritto in metro elegiaco) si ritiene da molti come opera non tibulliana e le elegie 8-11 si attribuiscono da alcuni a Sulpicia, i cui amori con Cerinto son celebrati da Tibullo nelle elegie 2-7 del medesimo libro.
Di tutta questa raccolta sono notevoli particolarmente le elegie a Delia del 1° Iibro e le or ora menzionate intorno a Sulpicia e Cerinto del 4°; tanta soavità d’ affetto vi spira, tanta vivacità di sentimento, specialmente dove si descrive la vita frugale e tranquilla dei campi, e si scorge un uso così magistrale del metro, che vanno tra le più belle cose scritte dai Romani.
Properzio
Altro cultore del genere elegiaco fu Sesto Properzio nativo dell’Umbria, probabilmente di Assisi. In che anno sia nato si ignora; certo fu più giovane di Tibullo, più vecchio di Ovidio; dunque verso il 49 a.C. Anche la sua famiglia ebbe a soffrir danni nella partizione di terreni del 41; poco dopo Properzio venne a Roma ove si istruì. Abbandonata la giurisprudenza per la poesia, scrisse il suo primo libro di elegie intitolato Cynthia; pel quale conosciuto favorevolmente, fu presentato a Mecenate e visse amico di lui e d’Augusto, quantunque per I’eta giovanile non poté entrare con loro in grande dimestichezza. Alieno, come Tibullo, dalle occupazioni pubbliche, si diede tutto agli amori e alla poesia. Amo prima una Lycinna, poi per parecchi anni la famosa Cynthia, il cui vero nome, secondo Apuleio, doveva essere Ostia e doveva essere parente del poeta epico Ostio.
I vari momenti di queste passioni amorose formano il principale oggetto delle sue elegie, ch’egli componeva a imitazione dei poeti alessandrini, specialmente di Callimaco e di Fileta. Cagionevole di salute; Properzio espresse sovente il pensiero di dover presto morire, e morì infatti giovane, pare verso il 15, perché nello sue elegie non si trovano cenni di avvenimenti posteriori al 16.
Oltre il 1° libro che fu pubblicato a parte, come dicemmo, altri tre libri di elegie ci ha trasmesso l’ antichità col nome di Properzio; però il 2° libro, dopo il Lachmann, è ora generalmente diviso in due, perché la elegia 10 di esso ha tutta l’ apparenza di essere un’ elegia dedicatoria di un libro intero ad Augusto, e nella 13 si parla di tre libelli che Properzio morendo potrebbe portare in dono a Persefone. II 4° Iibro poi (il 5° delle edizioni moderne) è stato oggetto di molte controversie, ritenendolo alcuni (per es., il nostro D. Carutti) come non genuino (sec. il Carutti sarebbe di Sabino, secondo altri di Passenno Paolo); ma oggi prevale di nuovo l’opinione che attribuisce a Properzio tutte le elegie a noi pervenute.
Le quali per vivacità di sentimento non sono inferiori a quelle di Tibullo, e se non vi spira altrettanta dolcezza e grazia, son però più energiche conforme alla gagliarda tempra del poeta; leggi, ad es.,le elegie 11 e 18 del 1° libro, e la 15 del 2° (3 e 7 del 3° secondo Laohmann), e vedrai quanta forza di passione, e nel contrasto fra la gioia di alcuni istanti e il dolore di altri quanta bellezza!
V’è pero in Properzio il difetto di abusare dell’erudizione mitologica alla maniera degli Alessandrini, onde riesce spesso oscuro, e l’impeto della passione viene ritardato da allusioni che, specialmente a noi moderni, paiono con troppo studio cercate e ammosse senza necessita. Oltre l’elegie amorose, vanno anche ricordate elegie di argomento narrativo, come la 1, la 4, la 6, la 9 e 10· del libro 4° (5°), le quali provano che Properzio sapeva anche trattare assai bene la storia di Roma; ma disgraziatamente questo libro nel quale il poeta pare volesse celebrare le feste religiose et cognomina prisca locorum (4°, 1, 69) non fu compiuto.
Ovidio
P. Ovidio Nasone è il più giovane e il più fecondo dei poeti vissuti nell’età augustea (43 a.C . – 17 d. C.). Nacque a Sulmona, terra dei Peligni; venuto giovanetto a Roma studiò dapprima eloquenza sotto la disciplina di Arellio Fusco, ma nel declamare gli uscivano spontanee le immagini poetiche e i versi, tanto era di natura propenso alla poesia.
Per ragion di studio, col suo amico Emilio Macro si recò ad Atene, visito le più importanti città dell’Asia, andò in Sicilia ove si fermò circa un anno (Pont. 2, 10, 31). Tornato a Roma, ebbe cariche pubbliche: fu due volto triumvir capitalis, fu decemvir litibus iudicandis e membro del tribunale dei cento; ma non diede mai gran peso alla carriera politica, voglioso com’ era di abbandonarsi ai dolci ozi della poesia, Dopo i primi saggi da lui pubblicati, divenne l’idolo di tutte le persone colte d’allora, ed ebbe amici Properzio, Virgilio, Tibullo, Orazio, Pontico, Macro, Sabino, Grecino e molti altri.
Dopo due matrimoni seguiti da divorzio, sposò quella Fabia che gli rimase fedele e affezionata anche durante I’ esilio. II quale esilio fu un colpo gravissimo per Ovidio. Aveva cinquant’anni, quando l’ ira del principe da lui offeso l’obbllgò a lasciar Roma per recarsi a Tomi sul Mar Nero (oggi Costanza): era soltanto relegato, non esule, e però non ebbe conflscati i beni.
La ragione di questa severa condanna non è ben chiara; dice egli stesso che i suoi crimini furon due, carmen et error: e per carmen intendeva l’ars amandii, libro veramente scandaloso e che non poteva piacere ad Augusto riformatore dei costumi: ma è da notare che il libro era stato pubblicato dieci anni prima, sicché non poteva esserne ragione diretta ed immediata.
Rimane dunque l’error, circa il quale Ovidio non si è mai espresso con chiarezza, per non offender un’altra volta Augusto; egli parla di aver visto qualche brutta cosa; la sua colpa e di aver avuto occhi ; probabilmente fu testimonio di qualche disonorevole azione di un membro della famiglia imperiale, forse di Giulia, la nipotina d’ Augusto, il quale ne fece responsabile il poeta, primo ispiratore di turpitudini.
Comunque sia di ciò, Ovidio, avvezzo sino allora ad una vita senza travagli e contrasti, non ebbe animo forte contro la sventura; ne fu vinto ed accasciato, non fece altro che piangere, e adulava Augusto più di prima per ottenerne perdono. Dopo sei anni di querele e preghiere, pare che Augusto fosse disposto a concedergli almeno un cambiamento di residenza, ma in quella morì, e il successore Tiberio non pensò più all’infelice poeta; sicché questi morì in esilio. Ciò avvenne tre anni dopo la morte di Augusto.
Ebbe sepoltura onorata dai Tomiti, pei quali aveva scritto poco prima in lingua getica un epicedio in onore d’Augusto. – Le opere di Ovidio si possono distinguere in tre categorie, rispondenti ai tre principali periodi della sua vita. Il 1 ° comprende le poesie erotiche, cioè: a) Amores, elegie amorose in tre libri (prima erano cinque, ridotti poi a tre dal poeta stesso in una seconda edizione); b) Epistolae ad Heroides, finte lettere amorose di donne dell’età eroica ai loro amantii, e di questi a quelle; c) Ars amatoria, o precetti intorno all’ arte di amare, in tre libri; d) Remedia amoris, consigli per sradicare dall’animo la passione amorosa; e) Medicamenta faciei, un trattato sulla toeletta delle donne, di cui a noi rimangono solo 100 versi, forse un quinto di tutta l’ opera. – Appartiene a questo periodo ancne una tragedia, Medea, molto lodata dagli antichi, a noi non giunta. Il secondo periodo comprende le opere composte poco prima dell’esilio, e sono: a) Le Metamorfosi, in 15 libri; b) i Fasti, o spiegazione del calendario Romano.
L’esilio non permise al poeta di dar l’ultima mano alle Metamorfosi, onde egli aveva già dato alle fiamme il manoscritto, e non ci sarebbe pervenuta l’opera se già alcuni amici non ne avessero fatte delle copie; e l’esilio pure impedì che l’opera dei Fasti fosse condotta oltre il sesto mese dell’anno (quindi soli 6 Iibri invece di 12). II 3° periodo abbraccia le cose scritte durante l’esilio e sono: a) Tristia, elegie in 5 libri; b) ex Ponto, 4 libri di lettere scritte dal Mar Nero ai suoi amici e congiunti di Roma; c) lbis, invettiva contro uno sconosciuto che diceva male del poeta; d) un poemetto didascalico sopra i pesci, Halieutica, che a noi pervenue incompiuto.
Le poesie amorose del 1° periodo sono in genere di componimento a cui più inclinava Ovidio per I’indole sua. Vivendo fra la gioventù scapestrata di Roma o in mezzo ai facili amori, Ovidio sentiva vivamente le gelosie, i dispettucci, le gioie e i dolori, le paci e le guerre dell’anime innamorate; e il suo ingegno, più che a cantare cose grandi, lo chiamava a dar veste poetica a questo lato della vita. E veramente seppe trattare questo tema sotto tutti gli aspetti. Negli amores celebrò l’amor suo con una Corinna, molto meno appassionato che Tibullo e Properzio, ma più ricco di situazioni, con più spirito e con inesauribile vena poetica.
L’argomento delle epistole si prestava pure a significare i più vari atteggiamenti della passione amorosa, giacché ognuna di quelle eroine ha rapporti suoi propri con l’amante; sicché il poeta vi poté dar prova del suo ingegno, trattando il tema monotono con grande varietà di tinte e calore di affetto. Sono 21 le eroidi che noi abbiamo; ma ve ne sono alcune non genuine, come quella di Saffo a Faone, ed altre, nelle quali si incontrano delle specialità prosodiche e metriche aliene all’uso ovidiano.
Infine le altre opere sull’arte di amare e di farsi belli e su quella di guarire del mal d’amore, come lasciano vedere l’ indole leggiera de! poeta sulmonese, così per altro rispetto attestano il suo ricco ingegno e contengono qua e là sentenze bellissime suggerite dalla profonda conoscenza ch’egli aveva del cuore umano. Solo è a dolere che in queste opere Ovidio si sia abbandonato al suo estro, senza badare ch’egli si faceva maestro di disonestà, o spesso vorresti ch’egli fosse state men realista, e piu casto ; ma scriveva in tempi corrotti e può servir di documento dell’immoralità che serpeggiava allora tra la gioventù Romana, anche nonostante i tentativi di riforma d’Augusto (in questo passo Felice Ramorino, che scrive alla fine dell’Ottocento, si allinea al tono moraleggiante proprio dei testi didattici dell’epoca. Nota del curatore di greciaRoma.com).
Al più alto volo si innalzò Ovidio col poema delle Metamorfosi. Il soggetto era già stato trattato da poeti greci dell’età alessandrina; v’era Ὀρνιθογονία (Ornithogonia) di Beo, gli (Ἑτεροιούμενα Heteroiúmena) di Nicandro, le Erotica Pathemata (Ἐρωτικὰ Παθήματα, Pene d’Amore) di Partenio, le Αλλοιώσεις di Antigono, ed altre consimili, Tale argomento sedusse il nostro poeta, perché offriva una grande varietà di casi e permetteva alla fantasia di spaziare con tutta libertà.
Ovidio pensò dunque di cantare le. trasformazioni mitiche, cominciando dal Caos e venendo fino alla mutazione di Cesare in un astro, il poema che egli ne fece suol dirsi epico, e la forma difatti e narrativa e v’e anche usato il metro dell’epopea; ma un concetto direttivo che guidi il racconto e importi la successione delle scene non c’è; i miti vi sono riferiti uno dopo l’altro senza molta cura dei passaggi, di che già gli antichi mossero rimprovero ad Ovidio; sicché la bellezza di questo lavoro sta tutta nelle singole narrazioni; qui dèi ed uomini, cielo e terra, tutto vi è rappresentato e descritto con straordinaria vivacità di colori; avventure meravigliose, scene ora terribili ora patetiche vi sono raccontate con una singolare facilità, con un verso sempre armonioso ed elegante; e come una gran galleria di quadri, e questi pare abbiano la virtù di destare altre e altre immagini nella fantasia del lettore; per qual rispetto Ovidio può bene paragonarsi al nostro Ariosto.
La lingua è eletta sempre; ma qualche novità nel costrutto e nel significato delle parole fa sentire i primi sintomi della decadenza. 1 – Dopo le Metamorfosi in metro eroico, Ovidio torno al suo prediletto metro elegiaco adoperandolo anche là dove era meno appropriato, come nei Fasti.
Quest’ opera è pure molto ricca di poesia, e contiene poi notizie preziosissime sulla religione dei Romani e sui loro costumi; e molto a dolere che non sia stata ultimata. Infine dei lavori fatti in esilio, i Tristia e le lettere dal Ponto, quantunque ammirevoli per la bellezza del verso, sono meno interessanti per noi, talvolta anche stucchevoli per le continue querimonie che vi fa il poeta sulla sua sorte.
L’Ibis fu fatto ad imitazione dell’invettiva di Callimaco contro Apollonio Rodio intitolata pure Ibis (dal nome dell’uccello che distrugge i rettili); il metro elegiaco usato qui invece del giambico e affatto disadatto al soggetto, e il poeta stesso lo riconosce. In conclusione Ovidio va annoverato fra i più grandi poeti non tanto per la vastità dell’ingegno quanto per la ricchezza della fantasia, e per la potenza che ha nell’esprimere i sentimenti più delicati del cuore umano; la facilissima vena gli impedì spesso di usare con pazienza la lima; sicché nelle sue opere e pin da ammirare la spontaneità di quel che sia da ricercare la· perfezione; affatto differente in ciò da Virgilio e da Orazio.
Scrittori di prosa dell’età di Augusto
Come nel precedente secolo, così nei sessant’ anni che corsero dalla morte di Cicerone a quella d’Augusto, molti fra i Romani si dedicarono alla storia. Le civili discordie degli ultimi anni offrivano larga materia a chi voleva parlare di uomini e cose, o I’una parte difendendo o I’altra.
Come di Catone subito dopo la sua morte parlarono parecchi o esaltandolo o biasimandolo, cosl ancora adesso lo difese con un suo scritto Munazio Ruso, e lo attaccò Augusto nella sua risposta a Bruto de Catone, ricordata da Svetonio (66); di Bruto l’uccisore di Cesare scrissero apologeticamente P. Volunnio e L. Carpurnio Bibulo ; di M. Antonio e della sua spedizione contro i Parti parlo Q. Dellio; tutta la storia dell’ultima guerra civile a cominciiare dal 60 voleva trattare Asino Pollione, ma dopo aver condotto quest’opera fino alla battaglia di Filippi, essendo periculoeae plenum opus oleae (opera piena di rischi pericolosi, Or. Od. II, 1 ), interruppe il lavoro; in ogni modo le sue Historiae servirono da fonte a Plutarco ed Appiano; infine anche M. Valerio Messala Corvino scrisse Commentarii de bello civili. Altri attesero alla narrazione delle proprie gesta, come M. Vipsanio Agrippa il generale d’Augusto, e Augusto stesso che scrisse tredici libri De vita sua fino alla guerra cantabrica, e poi un indice rerum a se gestarum, destinato ad essere inciso su tavole di bronzo e riprodotto in vari punti dell’ impero, e perciò a noi pervenuto per via della copia quasi completa che si trove scolpita sulle pareti marmoree del tempio di Augusto e Roma in Ancira di Gallazia (v. Monumentum Ancyranum edito dal Mommsen, Berlin, 1883). Altri finalmente attesero a rifare tutta la storia di Roma, come Ottavio Musa, amico di Orazio e Virgilio.
Tito Livio
Il piu grande di tutti Tito Livio di Padova (59 a.C.- 17 d. C.). Passò costui la più parte della sua vita in Roma, lungi dalle faccende politiche, ma amico di Augusto e attendendo a studi di filosofia e di storia. Scrisse dei dialoghi filosofici, una epistola ad fllium contenente precetti di retorica; ma la sua opera principale sono gli Annales, come egli li chiamava, o gli ab urbe condita libri, come sono intitolati nei migliori codici. Era una grandiosa storia di Roma in 142 libri che dalle origini giungeva sino alla morte di Druso (9 a.C.).
Disgraziatamente, per la mole stessa dell’ opera, che soleva mettersi in commercio a decadi di libri, e per altre ragioni, a noi non pervenne che la prima decade e i libri 21-45, oltre alcuni scarsi frammenti degli altri. Abbiamo però dei perduti, meno ohe del 136° e del 137°, le periochae di autore ignoto, conservateci nei manoscritti di Floro. I libri liviani superstiti contengono la storia Romana dalle origini sino al 293 a.C (prima decade) e dal cominciamento della seconda guerra punica (218) sino al trionfo di Emilio Paolo sopra la Macedonia (168). L’opera fu incominciata a scrivere da Livio dopo che già Ottaviano aveva ricevuto il titolo d’Augusto (v. 1, 19, 3), perciò dopo il 27; e veniva man mano pubblicata a parti separate, ciascuna col suo titolo, per es., i libri 109-116 portavano il titolo bellum civile; l’opera fu poi compiuta alla morte di Druso.
Si suppone che l’intenzione di Livio già vecchio fosse di arrivare con 150 libri fino alla morte di Augusto; ma se ebbe questa intenzione, non la poté effettuare, perché non sopravvisse che di tre anni ad Augusto stesso. – Proposito di Livio nello scrivere quest’opera colossale, fu d’innalzare un monumento alla sua diletta Roma, facendo vedere quanto grande ella fosse divenuta per le virtù de’ suoi cittadini; egli paragona l’immoralità e I’irreligiosità de’ suoi tempi colla virtù de’ maggiori, e si sentiva l’ animo pieno di entusiasmo per questi ultimi, Cincinnato ad es. Papirio Cursore, Camillo, Sesto Tempanio, P. Decio, Fabio il Temporeggiatore, e scrisse per dare sfogo a questo entusiasmo e sollevar I’ animo dalle miserie del presente.
In politica ammiratore della Roma severa e aristocratica, sentiva di dover inneggiare a Pompeo, Cicerone, Catone; e, cosa notevole, seppe nonostante ciò mantenere l’ amicizia di Augusto, che si accontentava di chiamarlo Pompeiano. Quindi il fine principale di Livio era un fine morale e civile anziché scientifico. Di qui l’aver accolto, specialmente per quel che riguarda le origini, molte leggende evidentemente alterate dalla tradizione; di qui l’aver tenuto conto dei prodigi, che per essere oggetto di pubblica fede dovevano essere annoverati tra i moventi delle azioni; di qui l’indirizzo e il colore dato a tutta la narrazione, e lo sdegno frequente con cui biasima gli atti disonesti, e la cura posta nell’elogiare gli uomini virtuosi per far sl che i lettori se ne innamorassero e sentissero voglia di imitarli. Perché la storia di Livio e opera piena di begli esempi, piena di patriottismo e di idealità, Ma se è una grande opera dal lato morale, è essa grande pure dal lato scientifico.
Applicò Livio scrivendo le esatte norme dell’arte critica per scevrare il vero dal falso! Che Livio fosse animato da un amore disinteressato della verità, e che dove conobbe il vero l’abbia senza reticenze significato, e indubitabile; ma che egli possedesse l’arte di investigare la verità storica, consultando documenti, sottoponendo a severa disamina le fonti di cui si serviva, comparando le diverse testimonianze, questo non si può dire ; studio bensì gli annalisti che lo precedettero, segui corne fonti i più autorevoli, ma non sempre con criteri precisi e sicuri: quindi accolse nelle sue storie molte affermazioni o dubbie o non vere, principalmente per i tempi più antichi che la Leggenda aveva sfigurati.
Quindi da questo lato l’opera di lui è da leggere con molto riguardo; sebbene sia esagerata la sentenza di coloro che affermarono in generale, Livio esser tanto debole come critico quanto fu grande come scrittore. Resta a dar giudizio della storia liviana dal lato dell’arte. Quantunque la materia sia stata da Livio divisa per anni conforme al modo tenuto dagli annalisti, e secondo il loro esempio abbia dato più sviluppo alla storia più remote, nondimeno egli ha saputo presentare tutta la storia di Roma in guisa eminentemente artistica, sopratutto per l’abilita nel disegnare le figure, nell’ addurre i motivi psicologici delle loro azioni, ciò che ottenne spesso con i discorsi retorici opportunamente intrecciate nel racconto.
Notevole e pure il suo stile grandiose, abbondante, scorrevole, adattissimo a far sentire la maestà di Roma, stile che egli s’era formato con lo studio degli oratori e massime di Cicerone. Ciò era conosciuto dagli antichi, ed è famoso il giudizio di Quintiliano che contrapponeva la lactea ubertas (“abbondanza di latte”) di Livio alla velocità sallustiana, lodandole del pari. Quanto alla lingua, essa è in generale pura, nonostante la patavinità rimproveratagli da Asinio Pollione; ma nei costrutti, nel giro delle frasi si sente già l’influenza che i poeti avevano esercitato sulla lingua comune, sicché già vi sono parecchie divergenze dall’uso più corretto di Cesare e Cicerone.
Altri storici
Quasi contemporaneo a T. Livio fu Pompeo Trogo il quale scrisse una specie di storia universale col titolo Historiae Philippicae in 44 libri, cominciando da Nino re dell’Assiria e venendo fino ai suoi tempi, evidentemente col proposito di completare la storia di Livio che s’era dovuta restringere alle cose puramente Romane. Il materiale era tratto da fonti greche e la lingua e lo stile erano perfettamente classici, Noi non possediamo più quest’opera, ma ci rimane l’ epitome che nell’età degli Antonini ne fece Giustino, conservando qua e là le frasi e le espressioni di Trogo. Sono finalmente da ricordare L. Arrunzio che scrisse una storia della guerra punica imitando Sallustio; Fenestella diligente ricercatore di cose antiche secondo l’esempio di Varrone, e autore di Annales opera molto estesa di cui egli stesso fece un riassunto; C. Giulio Igino liberto d’Augusto e bibliotecario della palatina (circa 64 a.C. – 17 d. C.), il quale scrisse: De vita rebusque inlustrium virorum, de situ urbium italicarum, de familiis troianis (Fram. in Peter p. 279); infine M. Verrio Flacco, liberto egli pure e maestro dei nipoti d’ Augusto, di cui si citano i libri rerum memoria dignarum, altri rerum etruscarum, oltre ai Fasti che egli compilò per essere incisi su pareti marmoree a Preneste e ad un’opera lessicale col titolo de verborum significatu, di cui noi abbiamo un estratto fatto molto tempo dopo da Pompeo Festo, epitomato anche questo da Paolo Diacono nel nono secolo dell’era volgare.
(Da Letteratura Romana di Felice Ramorino, 1886)
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