- L’educazione di Marco Aurelio
- Il vice di Antonino Pio
- La diarchia con Vero
- Un regno sfortunato
- Le guerre infinite
- L’imperatore stakanovista
- Come se non bastasse, c’è pure un ammutinamento
- Morte di Faustina e politica culturale
- Morte di Aurelio
- Divinizzazione di Aurelio
- Aurelio e i cristiani
- La Filosofia di Marco Aurelio
- Marco Aurelio disse veramente la frase "La morte sorride a tutti. Un uomo non può far altro che sorriderle di rimando” - come dicono nel film “il Gladiatore”?
Tito Aurelio Antonino Pio (138-161). Antonino, nativo della Gallia, aveva cinquantadue anni quando salì al trono. Il nome Pio gli fu conferito dal Senato a causa dell'affettuoso rispetto che aveva dimostrato per Adriano. Era un uomo di nobile aspetto, fermo e prudente, e sotto di lui gli affari di Stato si svolsero senza problemi.
Continua a leggere... »
Marco Aurelio Antonino (121-180), imperatore romano e filosofo stoico, nacque a Roma nel 121 d.C.; la data di nascita è stata variamente indicata come 6, 21 e 26 aprile.
Il suo nome originale era Marco Annio Vero. Sua madre, Domizia Calvilla (o Lucilla), era una donna di rango consolare e la famiglia del padre Annio Vero (prefetto della città e tre volte console), originaria della Spagna, aveva ricevuto il rango di patrizio da Vespasiano.
Marco aveva tre mesi quando il padre morì e fu quindi adottato dal nonno. La formazione morale ricevuta dal nonno e dalla madre deve essere stata pressoché perfetta. Le nobili qualità del bambino attirarono l’attenzione di Adriano che, giocando sul nome “Verus”, disse che doveva essere cambiato in “Verissimus” (riportato anche sulle medaglie).
Adriano adottò, come suo successore, Tito Antonino Pio (zio di Marco), a condizione che questi adottasse a sua volta sia Marco (allora diciassettenne) sia Lucio Ceionio Commodo, figlio di Elio Cesare, che era stato originariamente destinato da Adriano come suo successore, ma era morto prima di lui. Marco, all’età di quindici anni, era stato promesso in sposa a Fabia, la sorella di Commodo; il fidanzamento fu rotto da Antonino Pio ed egli fu promesso in sposa a Faustina, la figlia di quest’ultimo. Nel 139 gli fu conferito il titolo di Cesare e abbandonò il nome di Vero. Il nome completo che portava allora era Marco Elio Aurelio Antonino, mentre Elio proveniva dalla famiglia di Adriano e Aurelio era il nome originale di Antonino Pio. Nel 140 fu nominato console.
L’educazione di Marco Aurelio
L’educazione di Aurelio in gioventù fu molto accurata (cfr. Medit. i. 1-16). Non si poteva concepire un tutore migliore di Antonino Pio. Marco stesso dice: “Agli dei devo il merito di aver avuto buoni nonni, buoni genitori, una buona sorella, buoni maestri, buoni collaboratori, buoni parenti e amici, quasi tutto ciò che è buono”.
Fu educato, non a scuola, ma da precettori, Erode Attico e M. Cornelio Frontone, nel consueto programma di retorica e poesia; ma all’età di undici anni conobbe Diogneto, pittore e filosofo stoico (Hist. script. aug. i. 305), fu affascinato dalla filosofia che insegnava, seguì l’etica di quella scuola filosofica e infine abbandonò la retorica e la poesia per la filosofia e il diritto, avendo tra i suoi maestri per l’una Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco e poi Q. Giunio Rustico, e per l’altra L. Volusio Maeciano (o Metiano), un illustre giurista.
Approfondì la pratica e la teoria dello stoicismo e condusse una vita così rigida e impegnativa da finir per danneggiare la sua salute. Dai suoi maestri stoici imparò a lavorare duramente, a non porre in primo piano sè stesso, a non ascoltare le maldicenze, a sopportare le disgrazie, a non deviare mai dai suoi propositi, a essere grave senza affettazione, delicato nel correggere gli altri, “a non dire spesso a nessuno, né a scrivere in una lettera, che non avevo tempo libero”, né a scusare la negligenza dei doveri adducendo occupazioni urgenti. In tutta la sua formazione stoica Aurelio conservò la naturale dolcezza della sua natura.
Il vice di Antonino Pio
Durante il regno di Antonino Pio (dal 138 al 161), la concordia tra lui e Aurelio fu completa; Capitolino (c. 7) dice “nec praeter duas noctes per tot annos mansit diversis vicibus” (“non dormì mai fuori di casa se non in due occasioni”). I due erano associati nell’amministrazione e nelle semplici occupazioni di campagna della villa sul mare di Lorium, luogo di nascita di Pio, dove egli amava ritirarsi. Si è ipotizzato, sulla base di un passo del Capitolino, che Aurelio abbia sposato Faustina nel 146, ma il passo in questione non è chiaro e altri indizi fanno propendere per il 140; in ogni caso sembra certo che sempre nel 140 gli sia nata una figlia. Antonino Pio morì nel 161, avendo indicato come suo successore Aurelio, allora quarantenne, senza nominare Commodo, l’altro figlio adottivo, comunemente chiamato Lucio Vero.
La diarchia con Vero
Si ritiene che il senato abbia sollecitato Aurelio ad assumere l’amministrazione unica. Ma egli dimostrò la magnanimità della sua natura ammettendo subito Vero come suo socio, conferendogli i poteri tribunizi e proconsolari e i titoli di Cesare e Augusto. Era la prima volta che Roma aveva due imperatori come colleghi. Vero, un uomo debole ed egocentrico, aveva tuttavia un grande rispetto per il fratello adottivo e si rimetteva uniformemente al suo giudizio. Nel primo anno di regno, Faustina diede alla luce due gemelli, uno dei quali sarebbe diventato l’imperatore Commodo.
Un regno sfortunato
La Historia Augusta afferma che in origine si chiamava Catilio Severo, come il nonno della madre; se così fosse, il nome fu presto scartato.
La prima parte del regno di Aurelio fu offuscata da disgrazie nazionali. Un’inondazione del Tevere spazzò via gran parte di Roma, distruggendo i campi, annegando il bestiame e causando una carestia (162); seguirono terremoti, incendi e pestilenze; i soldati in Britannia cercarono di indurre il loro generale Statio Prisco a proclamarsi imperatore; infine, i Parti sotto Vologese III. ripresero le ostilità, annientarono le forze romane sotto Severiano a Elegia in Cappadocia e devastarono la Siria.
Vero, uomo di notevole coraggio e capacità, fu inviato a contrastare i Parti, ma si lasciò andare a bagordi ed eccessi (soprattutto sessuali) e la causa romana in Armenia sarebbe stata persa, così come forse l’impero stesso, messo ora in pericolo, se Vero non avesse avuto sotto di sé abili generali, il principale dei quali era Avidio Cassio. Grazie a loro la guerra partica si concluse nel 165, ma Vero e il suo esercito portarono con sé una terribile pestilenza, che si diffuse in tutto l’impero. Al popolo sembrava che fossero ormai giunti gli ultimi giorni di Roma.
Le guerre infinite
I Parti erano stati al massimo vinti, non sottomessi; i Britanni minacciavano rivolte; c’erano segnali anche da varie tribù d’oltralpe che intendevano irrompere in Italia. In effetti, la maggior parte del regno di Marco Aurelio fu dedicata agli sforzi per respingere gli attacchi dei barbari. Egli stesso partecipò alle guerre con Vero nel 167, prima ad Aquileia e poi in Pannonia e Norico, svernando a Sirmium in Pannonia. Alla fine i Marcomanni, la più feroce delle tribù che abitavano il paese tra l’Illiria e le sorgenti del Danubio, chiesero la pace nel 168. Nel gennaio o febbraio del 169 Vero morì ad Altinum, apparentemente di apoplessia, anche se alcuni azzardarono l’ipotesi che fosse stato avvelenato proprio da Aurelio.
L’imperatore stakanovista
Marco Aurelio fu quindi padrone indiscusso dell’impero, durante uno dei periodi più travagliati della sua storia. Il suo regno è ben descritto da F. W. Farrar (Seekers after God): “Egli si considerava, di fatto, il servo di tutti. L’anagrafe dei cittadini, la soppressione delle controversie, l’elevazione della morale pubblica, la cura dei minori, il contenimento delle spese pubbliche, la limitazione dei giochi e degli spettacoli gladiatori, la cura delle strade, il ripristino dei privilegi senatoriali, la nomina di magistrati non degni di nota, perfino la regolamentazione del traffico stradale, questi e altri numerosi doveri assorbivano così completamente la sua attenzione che, nonostante la salute cagionevole, lo tenevano spesso al lavoro dalle prime ore del mattino fino a mezzanotte inoltrata.”
La sua posizione, infatti, richiedeva spesso la sua presenza a giochi e spettacoli, ma in queste occasioni si occupava di leggere, farsi leggere o scrivere appunti. Era uno di quelli che ritenevano “che nulla dovesse essere fatto frettolosamente e che pochi crimini fossero peggiori della perdita di tempo“. La completezza delle sue riforme legali e giuridiche è davvero impressionante. Furono beneficiati gli schiavi, gli eredi, le donne e i bambini, e si cercò seriamente di far fronte alla costante diminuzione del tasso di natalità dei figli legittimi.
Nell’autunno del 169 due tribù germaniche, i Quadi e i Marcomanni, con i loro alleati Vandali, Iazigi e Sarmati, rinnovarono le ostilità e, per tre anni, Aurelio risiedette quasi costantemente a Carnuntum. Alla fine i Marcomanni furono cacciati dalla Pannonia e furono quasi distrutti nella loro ritirata attraverso il Danubio. Nel 174 Aurelio ottenne sui Quadi una vittoria decisiva, ricordata da una delle sculture sulla colonna di Antonino.
La “Legione Tonante” e il Miracolo della pioggia
Si narra che i Romani, bloccati in un fossato, con le riserve ormai esaurite, soffrissero la sete. Un’improvvisa tempesta donò pioggia in abbondanza, mentre grandine e tuoni confusero i nemici e permisero ai Romani di ottenere una vittoria facile e completa. Questo trionfo fu universalmente considerato all’epoca, e molto tempo dopo, fu considerato un vero e proprio miracolo e portò il nome di “Miracolo della legione tonante”. Gli scrittori pagani (ad esempio Dione Cassio, lxx. 8-10) attribuirono la vittoria alle arti magiche di un egiziano di nome Arnuphis, il quale si impose su Mercurio e su altri dèi.
Aurelio fu stato duramente criticato per inviato Vero al suo posto. Tra le varie ragioni, la più convincente è che la presenza di Aurelio fosse necessaria a Roma; inoltre, il vero capo era evidentemente Cassio.
I cristiani, invece, lo attribuirono alle preghiere dei loro confratelli appartenenti ad una legione alla quale, affermano, l’imperatore diede il nome di “Tonante”. Dacier, tuttavia, e altri che aderiscono alla visione cristiana del miracolo, ammettono che l’appellativo di “Tuonante” o “Fulminante” fu dato alla legione perché sugli scudi c’era una figura di fulmine. È stato inoltre praticamente dimostrato che la legione in questione aveva questo titolo anche sotto il regno di Augusto.
Come se non bastasse, c’è pure un ammutinamento
Aurelio marciò poi verso la Germania. Lì gli giunse la notizia che Avidio Cassio, comandante delle truppe romane in Asia, si era ribellato e si era proclamato imperatore (175). Ma dopo tre mesi Cassio fu assassinato e la sua testa fu portata ad Aurelio, che con la sua caratteristica magnanimità convinse il senato a perdonare tutta la famiglia di Cassio. È una prova della saggezza della clemenza di Aurelio il fatto che egli abbia avuto pochi o nessun problema a pacificare le province che erano state teatro di ribellioni.
Le trattò tutte con tolleranza e si dice che, quando gli fu portato l’epistolario di Cassio, lo bruciò senza leggerlo. Durante il suo viaggio di pacificazione, morì Faustina, che gli aveva dato undici figli. Dione Cassio e Capitolino accusano Faustina della più spudorata infedeltà nei confronti del marito, che viene addirittura incolpato di non aver prestato attenzione ai suoi crimini. Ma nessuna di queste storie poggia su prove attendibili; d’altra parte, non c’è dubbio che Aurelio si fidò di lei finché visse e ne pianse la perdita.
Morte di Faustina e politica culturale
Dopo la morte di Faustina e la pacificazione della Siria, Aurelio, al suo ritorno in Italia, passò per Atene e si fece iniziare ai misteri eleusini; il motivo di questa scelta è che era sua abitudine conformarsi ai riti consolidati dei Paesi che visitava.
Donò ingenti somme di denaro per la dotazione di cattedre di filosofia e di retorica, con l’obiettivo di rendere le scuole una meta per gli studenti provenienti da tutte le parti dell’impero. Insieme al figlio Commodo entrò a Roma nel 176 e ottenne un trionfo di vittorie in Germania. Nel 177 si verificò quella persecuzione dei cristiani, la cui parte avuta in essa da Aurelio è stata oggetto di tante controversie. Intanto la guerra di Germania continuava e i due Quintilii, che erano stati lasciati al comando, pregavano Aurelio di scendere nuovamente in campo.
Morte di Aurelio
In questa campagna Aurelio, dopo una serie di successi, fu colpito, secondo alcune fonti, da una malattia infettiva, a causa della quale morì dopo sette giorni di agonia, o nel suo accampamento di Sirmium (Mitrovitz), sulla Save, in Pannonia inferiore, o a Vindobona (Vienna), il 17 marzo 180, nel cinquantanovesimo anno di età. Altre testimonianze sono: 1) che fu avvelenato nell’interesse di Commodo (Dio. Cass. lxxi. 33, 4), 2) che morì per una malattia cronica allo stomaco; quest’ultima è forse la più probabile. Le sue ceneri (secondo alcune fonti, invece il suo corpo) furono portate a Roma.
Divinizzazione di Aurelio
Di comune accordo fu divinizzato e tutti coloro che potevano permetterselo, ottennero una copia della sua statua o del suo busto; per molto tempo queste sue statue occuparono un posto tra i penati dei Romani. Commodo, che era con il padre quando morì, eresse alla sua memoria la colonna Antonina (ora in Piazza Colonna a Roma), attorno al cui fusto si trovano sculture in rilievo che ricordano il miracolo della Legione Tonante e le varie vittorie di Aurelio sui Quadi e sui Marcomanni. Una statua equestre in bronzo fu collocata nel Foro, ora in Campidoglio.
Marco Aurelio per tutto il suo regno fu ostile al cristianesimo. I cristiani subirono una persecuzione sistematica e molti storici, con una strana mancanza di intuito, hanno denunciato il suo atteggiamento a riguardo, che era però solo il risultato naturale delle sue convinzioni. Durante il suo regno la società romana era fortemente impregnata dalla filosofia popolare greca alla quale, etica a parte, il cristianesimo era diametralmente opposto. Sotto Antonino la “caccia” ai cristiani non esisteva proprio; sotto Traiano e Adriano era invece vietata (cfr. Keim, Aus dem Urchrist, p. 99).
Aurelio e i cristiani
Ma Aurelio era un patriota entusiasta e un uomo dalla mente logica. Fin dalla prima giovinezza aveva imparato a identificare il rituale della religione romana con l’essenza stessa dell’idea imperiale. Divenne sacerdote saliano all’età di otto anni e ben presto imparò a memoria tutte le forme e l’ordine liturgico del culto ufficiale, e persino la musica sacra. Nella statua più antica che abbiamo è raffigurato come un giovane che offre incenso; negli ultimi rilievi trionfali è un sacerdote sull’altare sacrificale.
Naturalmente egli riteneva che la prevalenza del cristianesimo fosse incompatibile con il suo ideale di prosperità romana, e quindi che la politica degli imperatori Flavi fosse l’unica soluzione logica di un problema importante. Neumann ha sostenuto che la recrudescenza della persecuzione attiva fu avviata da un deliberato rescritto ad hoc emanato probabilmente nel 176 d.C. Sir W. M. Ramsay, tuttavia, ne dubita (The Church in the Roman Empire, London, 1893), e sostiene che essa fu dovuta a una lunga serie di istruzioni ai governatori provinciali (mandata, non decreta) che interpretarono il loro compito in gran parte in conformità con l’atteggiamento dell’imperatore regnante.
In altre parole, ai governatori veniva ordinato semplicemente di punire il sacrilegio e, sotto Aurelio, il cristianesimo era considerato tale. In secondo luogo, anche se è vero che le persecuzioni indicate da Celso (Origene, Celso, viii. 69), Giustino, Melito (in Eusebio, S.E., iv. 26), Atenagora (Libellus pro Christianis) e dagli Atti dei martiri, erano di gran lunga superiori a quelle registrate nei regni precedenti, non bisogna dimenticare che fu solo in questo periodo che i cristiani iniziarono a tenere dei registri.
In terzo luogo, non c’è dubbio che i cristiani avessero da poco assunto un atteggiamento molto più audace, separandosi così dalla massa di quelle sette eterodosse che i Romani potevano permettersi di disprezzare. Come i druidi in Gallia (cfr. T. Mommsen, Prov. Rom. Emp., trad. ingl. i. 105, e V. Duruy, Rev. archeol., apr. 1880), i cristiani erano particolarmente pericolosi, in quanto insegnavano un’unità che trascendeva quella dell’Impero romano e dovevano, quindi, essere considerati antagonisti dell’organismo politico e sociale esistente.
Aurelio conosceva poco i cristiani; l’unica menzione di essi nelle sue Meditazioni è un riferimento sprezzante a certi fanatici che persino Clemente di Alessandria paragona per la loro sete di martirio ai gimnosofisti indiani, e infine che i meno degni di loro erano senza dubbio quelli più in vista. Non possiamo dunque dubitare che Aurelio agisse indiscutibilmente nell’interesse di un ideale perfettamente comprensibile. Era “romano nella risoluzione e nella repressione, romano nella nobiltà e nell’orgoglio civico, romano nella tenacia dell’obiettivo imperiale, romano nel rispetto della legge, romano nell’abnegazione al servizio dello Stato” (G. H. Rendall).
La Filosofia di Marco Aurelio
Il libro che contiene la filosofia di Aurelio è noto con il titolo di Riflessioni o Meditazioni, anche se non è questo il nome che egli stesso gli diede). Sulla genuinità dell’opera non si nutrono oggi dubbi. Si ritiene che abbia scritto anche un’autobiografia, che è andata perduta. Le Meditazioni furono scritte, è evidente, a seconda delle occasioni – nel bel mezzo degli affari pubblici e alla vigilia di battaglie da cui dipendevano le sorti dell’impero – da qui il loro aspetto frammentario, ma anche gran parte del loro valore pratico e persino del loro fascino.
Molti critici ritengono che fossero destinati al figlio di Aurelio, Commodo; in ogni caso sono generalmente considerati uno dei più preziosi lasciti dell’antichità. Renan le ha addirittura definite “il più umano di tutti i libri” e J. S. Mill, nella sua Utilità della religione, le ha descritte come quasi uguali, in termini di elevazione etica, al Discorso della montagna.
Aurelio aderì per tutta la vita alla filosofia stoica. Ma, come dice Tenneman, le conferì “un carattere di dolcezza e benevolenza, subordinandola all’amore per l’umanità, alleato alla religione”. I suoi pensieri rappresentano un movimento di transizione ed è difficile scoprire in essi qualcosa di simile a una filosofia sistematica. Tuttavia, dal modo in cui cerca di distinguere tra la materia e la causa o la ragione, e dalla serietà con cui consiglia agli uomini di esaminare tutte le impressioni della loro mente, si può dedurre che egli sostenesse l’opinione di Anassagora – che Dio e la materia esistono indipendentemente, ma che Dio governa la materia.
Non c’è dubbio che Aurelio credesse in una divinità, anche se Schultz ha probabilmente ragione nel sostenere che tutta la sua teologia si riduce a questo: l’anima dell’uomo è intimamente unita al suo corpo, e insieme formano un unico animale che chiamiamo uomo; e così la divinità è intimamente unita al mondo o all’universo materiale, e insieme formano un unico insieme. Nelle Meditazioni non troviamo speculazioni sulla natura assoluta della divinità, né chiare espressioni di opinione su uno stato futuro.
Possiamo anche osservare che, come Epitteto, egli non è così deciso sul tema del suicidio, come anche gli stoici più anziani. Aurelio è soprattutto un moralista pratico. L’obiettivo della vita a cui tendere, secondo lui, non è la felicità, ma la tranquillità, o equanimità.
Questa condizione spirituale può essere ottenuta solo “vivendo in modo conforme alla natura”, cioè a tutta la propria natura, e come mezzo l’uomo deve coltivare le quattro virtù principali, ognuna delle quali ha un ambito distinto: la saggezza, o la conoscenza del bene e del male; la giustizia, o il dare a ogni uomo ciò che gli spetta; la fortezza, o la sopportazione del lavoro e del dolore; e la temperanza, o la moderazione in ogni cosa. Non si tratta di una “virtù fuggitiva e claustrale” quella che Aurelio cerca di incoraggiare; al contrario, l’uomo deve condurre la “vita dell’animale sociale”, deve “vivere come su una montagna”; e “è un ascesso dell’universo colui che si ritira e si separa dalla ragione della nostra comune natura scontentandosi delle cose che accadono”. Se il principio primo nell’uomo è quello sociale, “il principio successivo è quello di non cedere alle persuasioni del corpo, quando non sono conformi al principio razionale che deve governare”.
Questa divinità “all’interno dell’uomo”, questa “facoltà legislativa”, che da un certo punto di vista è la coscienza e da un altro la ragione, deve essere obbedita implicitamente. Colui che le obbedisce raggiungerà la tranquillità d’animo; nulla potrà irritarlo, perché tutto è secondo natura, e la morte stessa “è come la generazione, un mistero della natura, una composizione dagli stessi elementi e una decomposizione negli stessi, e non è affatto una cosa di cui un uomo debba vergognarsi, perché non è contraria alla natura di un animale ragionevole, né alla ragione della nostra costituzione”.
Non si può dire che la morale di Marco Aurelio fosse nuova quando egli scriveva. Il suo fascino risiede nel suo squisito accento e nella sua infinita tenerezza. Ma soprattutto, ciò che conferisce alle sentenze di Marco Aurelio un valore e un fascino duraturi, e le rende superiori agli enunciati di Epitteto e Seneca, è che sono il vangelo della sua vita. I suoi precetti sono semplicemente la documentazione della sua pratica.
Alla santità del chiostro, aggiunse la saggezza dell’uomo di mondo; fu costante nelle disgrazie, non si esaltò per la prosperità, non “portò mai le cose al limite del sudore”, ma conservò, in un’epoca di corruzione universale, di scarso senso della realtà e di autoindulgenza, una natura dolce, pura, piena di abnegazione, intatta.
Marco Aurelio disse veramente la frase “La morte sorride a tutti. Un uomo non può far altro che sorriderle di rimando” – come dicono nel film “il Gladiatore”?
Nonostante quello che riportano molti siti web dedicati alle citazioni di personaggi storici famosi, questa frase non è attribuibile a Marco Aurelio come dimostrano i documenti storici e la sua raccolta di pensieri. La citazione deriva dal film Il gladiatore (2000) con Russell Crowe, regia di Ridley Scott., in cui il protagonista, Massimo Decimo Meridio pronuncia questa frase alludendo appunto a Marco Aurelio.
Uno dei pensieri autentici di Marco Aurelio che più si avvicina a questa citazione è il seguente:
” Accetta la morte con spirito allegro, come nient’altro che la dissoluzione degli elementi da cui è composto ogni essere vivente”. (Meditazioni 2.17)
Un altro passo della stessa opera, in qualche modo simile, è stato tradotto dal greco antico (lingua nella quale è stata originalmente composta l’opera) in vari modi:
Passa per la tua strada, poi, col volto sorridente, sotto il sorriso di colui che ti invita ad andare.
— Meditazioni 12.36• Esci dunque con grazia, la stessa grazia che ti è stata mostrata.
— Meditazioni 12.36• Vai allora in pace: il dio che ti lascia andare è in pace con te.
— Meditazioni 12.36
Wikiquote, ad esempio, riporta la frase “La morte sorride a tutti” (“Death smiles at us all”) tra le citazioni del film appunto, ma non la elenca nella pagina dedicata a quelle autentiche di Marco Aurelio, neppure nelle edizioni in lingua straniera.
Ridley Scott è uno specialista in citazione sbagliate degli autori classici: nel 2001 (proprio l’anno dopo aver realizzato il Gladiatore) esce il suo film “Black Hawk Down – Black Hawk abbattuto”, dove viene riportata la frase “Solo i morti hanno visto la fine della guerra” attribuendola erroneamente a Platone; anche in questo caso, molti siti web dedicati alle citazioni la riportano attribuendola alla fonte sbagliata. Sembra che l’autore di questa massima sia invece George Santayana, ed è contenuta nel suo libro “Soliloquies in England and Later Soliloquies” del 1922.
A proposito ancora di errori, sempre nel film Il Gladiatore, viene attribuita a Marco Aurelio la ferma volontà di ripristinare a Roma la Repubblica. Al Marco Aurelio storico, questa idea non passò mai neppure per l’anticamera del cervello: Roma non tornerà più ad essere una Repubblica per tutta la successiva storia dell’Impero Romano e oltre (quando diverrà parte dello Stato Pontificio).
Tranne poi i tentativi effimeri di ripristinare l’antico sistema di governo con Cola di Rienzo (tra il 1344 e il 1354), Napoleone (tra il 1798 e il 1799) e nel 1849 con la Seconda Repubblica Romana, Roma farà poi stabilmente parte della forma di monarchia costituzionale creatasi successivamente, dopo l’indipendenza e l’unificazione. Ma la città tornerà poi solo nel secondo dopoguerra ad essere una Repubblica, ma come parte della Repubblica italiana.
(Libera traduzione e rielaborazione da “Encyclopædia Britannica Eleventh Edition”, 1910-1911, con aggiunte e integrazioni)
Nel prossimo episodio: COMMODO, UN IMPERATORE DA CIRCO »