Le Moire(Mοῖραι). Erano le dee greche del destino. Omero, in un passo (Il. XXIV. 209), parla genericamente di una sola Moira, che tesse il filo della vita per gli uomini alla loro nascita; in un altro (ib. 49), di diverse Moire; e altrove (Od. VII. 197), delle Κλῶθες, o Filatrici.
La loro relazione con Zeus e il resto degli dèi non è definita più chiaramente né da Omero né dagli altri autori greci. In alcuni passi dei poemi omerici, il fato è un potere con dominio illimitato sugli uomini e sugli dei, e la volontà del fato è rispettata ed eseguita da Zeus insieme con gli altri dèi (Il. XIX. 87; Od. XXII. 413); in altri, Zeus è chiamato il più alto governatore dei destini; o ancora, lui e gli altri dei possono cambiare il corso del fato (Il. XVI. 434), e persino gli uomini possono superare i limiti che esso impone (Il. XX. 336). In Esiodo sono chiamate in un passo (Theog. 211-17) figlie della notte e sorelle delle dee della morte (Κῆρες), mentre in un altro (Theog. 904) sono figlie di Zeus e Temi e sorelle delle Horae, che distribuiscono la buona e la cattiva sorte ai mortali alla loro nascita.
I loro nomi sono Cloto (la Filatrice), che tesse il filo della vita; Lachesi (Dispensatrice), che ne determina la lunghezza, e Atropo (l’Ineluttabile), che lo recide. In quanto esercitano il potere al momento della nascita, sono collegati con Ilizia, la dea della nascita, che doveva stare accanto a loro, ed era invocata insieme a loro, essendo esse stesse, insieme alla dea Ker (il nume della morte violenta) coloro che avevano il potere di decidere quando la vita dovesse finire.
Come alla nascita, esse determinano i destini degli uomini nella vita, sono perciò anche in grado di prevederli. Se da un lato sono considerate come le rappresentanti imparziali del governo del mondo, dall’altro sono talvolta concepite come crudeli e gelose, perché contrastano senza pietà i piani e i desideri degli uomini.
Nell’arte, appaiono come fanciulle dall’aspetto grave. Cloto è solitamente rappresentata con un fuso; Lachesi con un rotolo, o un globo; e Atropo con un paio di bilance o con delle cesoie.
I Romani identificavano le Moire con le loro dee native del destino, le Parche (Parcae). Queste erano anche chiamate Fatae, e venivano invocate alla fine della prima settimana di vita di un bambino, come Fata Scribunda, le dee che scrivevano il destino degli uomini nella vita.
Le Moire sono rappresentate dai poeti come divinità femminili austere, inesorabili, anziane, orribili e anche zoppe, il che evidentemente vuole indicare la marcia lenta e incerta del destino, che esse controllavano. Pittori e scultori, invece, le raffiguravano come belle fanciulle dall’aspetto grave ma gentile.
C’è un’affascinante rappresentazione di Lachesi, che la ritrae in tutta la grazia della giovinezza e della bellezza. È seduta a girare la conocchia, e ai suoi piedi giacciono due maschere, una comica, l’altra tragica, come per trasmettere l’idea che per una divinità del destino, le scene più luminose e quelle più tristi dell’esistenza terrena sono ugualmente indifferenti, e che essa invece persegue tranquillamente e costantemente la sua occupazione, indipendentemente dal benessere o dal dolore umano.
Quando sono rappresentate ai piedi di Ade nel mondo inferiore, sono vestite con abiti scuri; ma quando appaiono nell’Olimpo indossano vesti luminose, cosparse di stelle, e sono sedute su troni radiosi, con corone sul capo.
Si riteneva compito delle Moire indicare alle Furie il preciso supplizio che gli empi dovessero subire per i loro delitti.
Erano considerati divinità profetiche e avevano santuari in molte parti della Grecia.
Le Moire sono menzionate per aver aiutato le Cariti a condurre Persefone nel mondo superiore durante il suo periodico ricongiungimento con la madre Demetra.
(Libera rielaborazione e adattamento da E. M. Berens. “The Myths and Legends of Ancient Greece and Rome”, 1880 e da Harry Thurston Peck. Harpers Dictionary of Classical Antiquities 1898.)