Da Caravaggio a Salvador Dalì, da John Keats, Oscar Wilde, Edgar Allan Poe fino a Rainer Maria Rilke e oltre. Da Szymanowski, a Bob Dylan o Alanis Morisette fino a Carmen Consoli. Da Otto Rank a Sigmund Freud fino a Herbert Marcuse. Nella letteratura, nella musica, nell’arte in genere, nella psicologia del profondo. Il mito di Narciso continua ad ispirare ed affascinare dopo millenni e millenni. Impossibile resistere al giovane semidio e cacciatore, di cui tutti erano e continuano ad essere follemente innamorati – della sua persona come della sua storia – mentre egli invece, non ha occhi che per la propria immagine riflessa, alla quale darà tutto il suo cuore e alla quale sacrificherà la sua stessa vita. C’è un amore più impossibile di questo?
La favola di Narciso (in greco Νάρκισσος / Nárkissos, forse derivato da narkê, «sonno») nasce in realtà non per fini letterari o estetici, ma educativi. Un ammonimento ai giovani di non lasciarsi irretire dalla vanità della bellezza esteriore, ingannevole e fugace. Ma la bellezza non si cura né della saggezza né della morale; ed ecco che noi continuiamo ad adorare questo ragazzo bellissimo e crudele anche contro sé stesso. Lo amiamo, eppure non dovremmo farlo.
La bellezza per i greci è un mezzo di elevazione, ma può essere anche la strada per la rovina, quella propria e quella degli altri. Si pensi ad Elena di Troia, causa involontaria – anche se forse non del tutto inconsapevole – di odio, rivalità, conflitto e addirittura della guerra più celebre dell’antichità. La bellezza spesso destina il suo possessore ad una morte prematura, come succede ad Adone. E come accade inesorabilmente anche a Narciso. Ed è forse per questo, per questa caducità che la loro bellezza è davvero splendida e davvero eterna. Esaltata, non vinta dalla morte e per sempre immune dalle ingiurie del tempo.
Narciso prima di diventare vittima del suo stesso fascino, è già condannato dagli dèi. Il giovane in questione infatti, è amato e desiderato disperatamente da tutti, ed egli arriva al punto di non riuscire più a provare altro che fastidio e noia di fronte a costoro, diventando sprezzante e superbo nei confronti dell’amore stesso, e causando – anche lui forse inconsapevolmente – solo dolore e disgrazia intorno a sé. Il destino di Narciso è la sua punizione: l’amore impossibile e disperato di sé stesso.
Nascita di Narciso
Narciso, nasce a Tespie, in Beozia, ed è figlio del dio fluviale Cefiso e della Naiade Liriope, ninfa delle sorgenti, la quale un giorno, mentre stava facendo il bagno nelle sue acque, fu stuprata dal dio mentre la teneva prigioniera delle sue onde.
Così dunque venne alla luce Narciso, incredibilmente bello come la madre, e inaspettatamente crudele, come il padre. Ma, come molti altri personaggi, i mitologi gli attribuiscono anche altri genitori: suo padre sarebbe il pastore Amirinto, abile cacciatore seguace di Artemide, secondo alcuni; o piuttosto Endimione, re dell’Elide, e invece per madre avrebbe avuto Selene, dea lunare, secondo altri. Quest’ultima potrebbe forse giustificare il suo carattere solitario e malinconico
Il mito secondo Ovidio
Il mito di Narciso conosce diverse versioni, non di rado contraddittorie. La più bella e più celebre è quella del poeta latino Ovidio, che, come in molti altri casi, ci consegna l’immagine definitiva della vicenda, quella che resterà nell’immaginario per secoli. Qui, Narciso è il giovane bellissimo che conosciamo, e di cui tutti si innamorano a prima vista. Liriope, la madre, interrogò l’indovino Tiresia per conoscere il destino del fanciullo, e la risposta del veggente, come tutti gli oracoli, fu un enigma: Narciso – egli disse – sarebbe vissuto fino a quando non avesse conosciuto se stesso.
Desiderato da ninfe e uomini indifferentemente, il divino ragazzo non provava però che tedio, noia ed indifferenza verso tutti questi adulatori.
Anche la ninfa Eco si innamora di lui, ma ella viveva isolata dal mondo, perché la vendicativa e rancorosa Era le aveva lanciato contro un incantesimo. La bella giovane Eco infatti, era una ninfa dalla cui bocca uscivano le parole più belle che mai si fossero udite. Ora avvenne che la fanciulla distraesse la dea Era, mentre Zeus intanto corteggiava altre ninfe, dando loro il tempo di fuggire.
Quando Era scoprì l’inganno, punì Eco togliendole la voce e costringendola a ripetere solo l’ultima parola detta dalla persona con cui stava conversando; non potendo dunque più parlare, se non limitandosi a pronunciare soltanto le parole degli altri, come un pappagallo, la ninfa si ritirò in solitudine, lontana da tutti.
Invaghitasi dunque di Narciso, la bella Eco lo segue incessantemente di nascosto attraverso i boschi, mentre lui è a caccia di cervi, facendo “eco” appunto alle sue parole, nella speranza vana che il giovane si accorga di lei.
Finché, preso il coraggio a due mani, gli si para davanti e tenta di baciarlo. Narciso la respinge con disprezzo e fugge via da lei. Il dolore per la ninfa è inconsolabile. Ella si nasconde in un luogo solitario e si lascia morire lentamente. Di lei resterà solo l’eco, la flebile traccia sonora della voce dell’amato.
Nemesi, la dea della vendetta, indignata per il comportamento crudele del giovane, decise di punirlo come si meritava. Così un giorno, avvicinatosi Narciso ad una fonte per dissetarsi, egli vide il proprio volto riflesso nell’acqua. Fu amore a prima vista e Narciso rimase ad ammirare se stesso per ore e poi per giorni interi.
Ma accorgendosi che l’immagine non gli rispondeva, oppure accortosi che era soltanto un riflesso, o ancora, avendo cercato di afferrarla, ma sembrandogli che il movimento delle acque increspate gliel’avesse sottratta per sempre – comunque fosse andata – egli morì annegato, per disperazione o per follia, cercando di recuperare l’oggetto del suo amore impossibile. Sul luogo dove morì, nacque un fiore che porterà per sempre il suo nome: il Narciso.
Quando giunse nell’Oltretomba, mentre stava sulla barca di Caronte, cercò ancora di vedere il proprio volto, tanto amato; ma lo Stige è il fiume oscuro dei morti e non ha riflessi. Narciso si consolò a questo pensiero: forse la sua immagine amata viveva ancora sulla terra, bellissima e felice.
Versioni alternative
Ovidio però non è l’unico a raccontarci il mito. Altri autori ci tramandano la storia, riducendo il ruolo della ninfa Eco o eliminandola completamente.
Si racconta anche che Narciso fosse un giovane della città di Tespie, di cui si era innamorato – non corrisposto – un altro giovane, di nome Aminia, che era assai costante e determinato nei suoi tentativi di sedurlo. Affinché quell’importuno seccatore capisca che non è il caso d’insistere (anche qui Narciso è uno che dell’amore non gliene importa proprio niente) gli spedisce una spada; un messaggio non proprio amorevole: visto che non puoi vivere senza il mio amore, ammàzzati con questa! Sbarazzami della tua asfissiante presenza e anche tu liberati da tuo dolore!
Aminia, non la prende ovviamente molto bene, ma ormai in preda ad un inconsolabile dolore, ubbidisce e si uccide. Non prima però di aver invocato su Narciso la maledizione degli dèi.
Ed ecco che Narciso si innamora di nuovo della propria immagine speculare e, ora lui affranto e devastato per il suo amore impossibile, si uccide allo stesso modo di Aminia, trafiggendosi con la spada.
Anche altre fonti concordano sulla morte di Narciso per annegamento, sempre nel disperato tentativo di possedere la propria immagine riflessa nell’acqua.
Pausania, geografo greco del II secolo d.C. (che individua la fonte citata nel mito, a Tespie in Beozia) ci offre invece una versione del tutto originale: Narciso, secondo lui, non poteva essere così stupido da scambiare la propria immagine speculare per una persona in carne ed ossa, innamorandosene addirittura.
Il giovane infatti, avrebbe avuto una sorella, che gli somigliava come una goccia d’acqua, è il caso di dirlo. Quando la ragazza morì, suo fratello cadde in uno stato di tristezza incolmabile. Finché un giorno, specchiandosi nelle chiare acque di un ruscello, non scambiò il proprio volto per quello della fanciulla, ed egli per un momento pensò che non fosse morta. Da allora in poi Narciso, forse in preda ad una sorta di follia, si recò frequentemente alla sorgente, per illudersi di rivedere la ragazza di nuovo in vita e lenire il dolore della sua perdita.
Sebbene la versione di Pausania mantenga quell’alone di follia, dolore e morte che caratterizza il mito, è evidente che la storia perde molto del suo fascino e non suggerisce più quei simbolismi, quelle pulsioni e quelle ambiguità che ne hanno fatto la fortuna nei millenni. Aridatece Ovidio!
Narciso fino ad oggi
Il mito di Narciso si tramanda nell’arte e nella cultura occidentale fino ai giorni nostri, come già detto. La versione di Ovidio venne ripresa nel Novellino, raccolta di cento novelle del XIII secolo, di un ignoto autore fiorentino, in cui Narciso diventa un cavaliere cortese.
Successivamente, nel periodo del Barocco, Giambattista Marino rievoca la sua figura (accanto a quella di altri personaggi dei miti classici, come Ganimede, Ciparisso, Ila, Ati ecc.) nel Canto V, intitolato La Tragedia, del suo poema L’Adone, stampato per la prima volta a Parigi nel 1623.
Nel Novecento Andrè Gide gli dedica un saggio: Il Trattato di Narciso, Umberto Saba una poesia dal titolo Narciso al fonte ed Herman Hesse si ispira a lui per il romanzo Narciso e Boccadoro, ma non mancano altri riferimenti fino a Faulkner e Paulo Coelho.
Contrariamente a quanto di solito si crede non fu Sigmund Freud a coniare il termine “narcisismo” per descrivere una patologia nevrotica della psiche, ma fu Havelock Ellis a introdurlo per primo, seguito dallo stesso padre della psicanalisi e da Otto Rank.
Lo psicoterapeuta Thomas Moore, rileggendo la versione di Ovidio, interpreta il mito in modo nuovo. Narciso è preoccupato per la sua bellezza ma non ne è pienamente consapevole e cerca sempre, per questo motivo, di mettersi in mostra con gli altri senza potersi impegnare in una relazione. In altre parole, di per sé, la manifestazione dell’amor proprio narcisistico indica l’incapacità di amarsi. Il suo incontro con la ninfa Eco, che può solo rimandare le sue stesse parole e davanti alla quale egli indietreggia, illustra il vuoto e la sterilità di questo rapporto con il mondo. È quando Narciso scopre, ammirandosi alla fonte, di essere veramente bello, che riuscirà ad amarsi piuttosto che cercare riconoscimento all’esterno. Questa profonda trasformazione è simboleggiata dalla sua morte e dalla sua trasformazione in fiore (morte dell’ego, fioritura del Sé)
Il filosofo Fabrice Midal, rigetta con vigore l’interpretazione attuale del mito, che considera un tradimento del testo di Ovidio. Secondo lui, la necessità di amarsi è stata progressivamente condannata dall’ingiunzione delle società occidentali contemporanee di dimenticare se stessi e razionalizzare la propria esistenza in vista della produzione. Il carattere di Narciso, al contrario, ci invita a prenderci il nostro tempo per guardarci dentro, per cercare, attraverso la bellezza, il senso profondo della nostra esistenza.
Herbert Marcuse elabora un collegamento tra Orfeo e Narciso in Eros e Civiltà (capitolo VIII). Orfeo e Narciso sono figure che rappresentano la gioia e l’appagamento. Il canto non impartisce ordini, ma è un atto di offerta e di accoglimento. Il momento in cui ci si libera dalla tirannia del tempo, e l’uomo si unisce alla divinità e alla natura.
L’arte, tra Ottocento e Novecento, esplora il mito dal punto di vista onirico e sensuale, con Benczùr Gyula (Narcissus, 1881) e Salvador Dalì (Metamorfosi di Narciso, 1936).