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ORFEO ED EURIDICE: PRIMA DI ROMEO E GIULIETTA, L’AMORE SFIDA LA MORTE

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I mitici cantori della Grecia

Orfeo ed Euridice, Edward Poynter, 1862
Orfeo ed Euridice, Edward Poynter, 1862

Le gesta degli dèi immortali venivano raccontate e cantate davanti ad ogni focolare della Grecia; e tra questi racconti di miti e di eroi non c’era nessuno che fosse più popolare della storia di come Apollo innalzò, insieme a Poseidone, le celeberrime mura di Troia. Molti musici sarebbero stati assai felici di compiere un’impresa simile, solo per la fama che questa avrebbe loro procurato, ma temevano che il tentativo di imitare Apollo avrebbe portato essi solo ad esporsi al fallimento e al ridicolo (per non parlare della possibilità di scatenare l’ira divina). Così nessun mortale si azzardò a dire che poteva rendere le rocce e le pietre obbedienti all’incantesimo della propria musica.

C’era però un musico in particolare, Anfione, re di Tebe, che invece era ansioso di dimostrare a tutti che il suo modo di suonare fosse pari a quello di Apollo, ma sapendo quanto fosse imprudente competere con un essere immortale (anzi un dio) decise di non mettere alla prova la sua abilità pubblicamente, ma di portare a termine il disegno che tanto gli stava a cuore di notte, quando gli uomini sognavano nei loro letti. Era ansioso di costruire delle alte mura intorno a Tebe, e di costruirle proprio come Apollo aveva fatto con le mura di Troia; così, quando il sole tramontò e l’oscurità ricoprì tutta la terra, Anfione si fermò appena fuori dalle porte della città e cominciò a suonare la sua lira. Immediatamente le pietre si alzarono dal suolo e si mossero ritmicamente per prendere il loro posto nel muro, che presto si innalzò forte e alto: una difesa più solida di qualsiasi altra che potesse essere mai costruita dalle mani dell’uomo.

Arione e i pirati

Un altro famoso musico fu Arione, che ottenne non solo grandi elogi per la sua notevole abilità nel suonare, ma anche una cospicua ricchezza grazie alla sua arte. Ogni volta che si teneva una gara in cui veniva messo in palio un premio in denaro, Arione era infatti solito competere come uno dei concorrenti; e, poiché la sua musica era davvero più raffinata di quella della maggior parte degli altri suonatori, egli vinceva facilmente ogni volta la ricompensa prevista. Un giorno egli stava tornando da un festival in Sicilia, dove molti musici si erano recati per via appunto del ricco premio offerto; e poiché ne era uscito vincitore, stava lasciando quelle coste straniere con un bel carico d’oro.

Arione sul delfino, François Boucher (1748)
Arione sul delfino, François Boucher (1748)

Sfortunatamente si imbarcò su una nave di pirati, i quali, saputo della grande ricchezza che egli aveva con sé, stavano tramando contro di lui per impadronirsi di qualsiasi cosa egli avesse portato a bordo. Poiché il modo più semplice per farlo era ucciderlo, i pirati presero a legarlo con delle corde affinché egli non potesse muoversi e nuotare, una volta gettato in mare. Arione accettò serenamente il suo destino, ma pregò la brutale ciurma di permettergli di suonare ancora una volta la sua lira prima di andare incontro alla morte.

I pirati acconsentirono e, quando la sua musica meravigliosa riempì l’aria, un branco di delfini nuotò verso la nave e si tenne vicino ad essa, affascinato dal suono della lira di Arione. Essendo certi che quella musica fosse magica, i pirati si affrettarono a gettare in mare il suonatore e la sua lira senza neppure aspettare di legarlo prima; ma Arione non annegò come essi si aspettavano, perché un delfino amico lo prese sul dorso e nuotò con lui fino alla riva, dove egli approdò in tutta sicurezza. Quando molto tempo dopo Arione morì, gli dei lo collocarono, insieme alla sua lira e al gentile delfino, nel cielo, come due costellazioni.

Orfeo, il più grande di tutti

Il più famoso di tutti i musicisti, tranne il dio che suonava nelle splendenti sale dell’Olimpo, era Orfeo, figlio di Apollo e della musa Calliope. Quando egli era ancora un bambino, suo padre gli diede una lira e gli insegnò a suonarla; ma Orfeo non ebbe bisogno di molte lezioni, perché non appena pose la mano sulle corde, le bestie selvatiche uscirono dalle loro tane per accovacciarsi accanto a lui; gli alberi sul fianco della montagna si avvicinarono per poterlo ascoltare; e i fiori spuntarono a mazzi intorno a lui, non volendo più rimanere addormentati nella terra.

Scalfì le dure rocce con un canto soave,
e dominava i fiumi mentre scorrevano.
I faggi alti, che fioriscono vicino a Zone,
Ricordano ancora il suo canto sublime:
Gli alberi di Pieria che ascoltano i suoi versi,
si muovono al suono della sua lira.

Apollonio di Rodi, Argonautica

Orfeo che suona una cetra in mezzo agli animali, mosaico di Tarso, III secolo a.C.
Orfeo che suona una cetra in mezzo agli animali, mosaico di Tarso, III secolo a.C.

La bella Euridice

Quando Orfeo cercò di sposare Euridice dai capelli d’oro, c’erano anche altri pretendenti che ambivano alla mano della giovane, ma sebbene portassero ricchi doni e molte terre in dote, non riuscirono a conquistare l’amore della fanciulla, che si allontanò da loro per concedere la sua mano solo ad Orfeo, il quale in realtà non aveva altro modo per corteggiarla se non la sua musica. Il giorno delle nozze si svolsero i soliti festeggiamenti, ma si verificò anche un evento funesto che gettò un’ombra sulla felicità della coppia di sposi. Quando Imene, dio del matrimonio, arrivò con la sua fiaccola per benedire il banchetto nuziale, la luce che avrebbe dovuto ardere limpida e pura, cominciò invece a brillare in modo sinistro, come se predicesse un futuro disastro.

Questo cattivo presagio si avverò troppo presto, perché un giorno, mentre Euridice passeggiava per i prati, la ragazza incontrò il giovane Aristeo, il quale rimase così affascinato dalla sua bellezza da insistere per poter rimanere accanto a lei e rivolgerle ardenti parole d’amore, ma le orecchie della fanciulla non ne volevano proprio sapere di ascoltare le profferte di un rude selvaggio come Aristeo. Per sfuggire dunque alle insistenti e ostinate attenzioni del ragazzo (che in realtà voleva proprio violentarla, senza andare troppo per il sottile), Euridice fuggì via da quel bruto, ma, mentre ella correva, calpestò un serpente velenoso che si girò rapidamente e che la morse.

Orfeo conduce Euridice via dagli inferi, Jean Baptiste Camille Corot
Orfeo conduce Euridice via dagli inferi, Jean Baptiste Camille Corot

La morte e la fanciulla

La fanciulla fece appena in tempo a raggiungere la sua casa, prima che il veleno facesse il suo effetto, e Orfeo non poté far altro che ascoltare il racconto di quel che le era successo dalle sue stesse labbra, mentre ella moriva. Non appena Hermes portò via l’anima di Euridice, il marito in lutto, si affrettò a raggiungere le splendenti sale dell’Olimpo e, gettandosi ai piedi di Zeus assiso sul suo trono dorato, implorò il grande sovrano degli dei e degli uomini di restituirgli la moglie. Nel cuore degli dei c’è sempre pietà per coloro che muoiono nel periodo del pieno fiorire della giovinezza; così Zeus diede il permesso a Orfeo di scendere nell’Ade e di chiedere al dio stesso degli inferi la grazia che desiderava.

Nel mondo dei morti

Il viaggio verso il regno dei morti era oscuro e pericoloso, e la strada era una di quelle che nessun piede mortale aveva mai percorso; ma grazie all’amore per Euridice, Orfeo dimenticò i pericoli del cammino, e ogni volta che pronunciava il nome di lei, l’oscurità lungo il sentiero svaniva. Quando poi arrivò alla porta dell’Ade, dove il feroce cane a tre teste Cerbero gli impediva di passare, Orfeo rimase immobile nell’oscurità incerta e cominciò a suonare.

Mentre cantava, il ringhio del cane cessò e il rumore del suo respiro roco si affievolì. Allora Orfeo proseguì indisturbato per la sua strada, ma continuò a suonare dolcemente la sua lira, e quei suoni fluttuarono lontano nel lugubre interno dell’Ade, dove le anime dei condannati erano eternamente costrette a scontare la loro pena. Tantalo sentì la musica e smise di lottare per ottenere anche una sola goccia dell’acqua a lui proibita; Issione si riposò un attimo accanto alla sua ruota sempre in movimento; e Sisifo rimase in ascolto, mentre il masso che doveva rotolare per tutta l’eternità gli cadde giù dalle braccia stanche.

Le figlie di Danao deposero le loro urne accanto al setaccio in cui era condannate a versare perennemente l’acqua e, mentre il mesto lamento della lira di Orfeo raccontava la storia del suo amore perduto, esse piansero allora, per un dolore che non era il loro. La musica era così struggente che tutte le schiere degli spiriti che fluttuavano nell’aria senza pace per l’eternità, versarono lacrime di compassione per il dolore del cantore; persino le guance delle Furie si imperlarono di pianto.

Quando Orfeo si presentò al cospetto di Ade, l’implacabile monarca lo respinse con rabbia mentre quello cercava di perorare la propria causa e gli intimò di andarsene via subito. Allora il figlio di Apollo cominciò a suonare la sua lira e, grazie alla sua musica, egli raccontò la storia della perdita della sua amata e pregò il sovrano di queste miriadi di anime di dargli l’unica, la sola fra esse che egli desiderava.

“Puoi riaverla, ma non devi voltarti”

Orfeo suonò così meravigliosamente che il duro cuore di Ade fu toccato dalla pietà e acconsentì a restituire Euridice al suo sposo; a condizione che, mentre entrambi percorrevano insieme la strada che li doveva condurre via dell’odiato paese dei morti, egli non si voltasse mai per guardarla. A questo strano decreto Orfeo promise volentieri di obbedire; così Euridice fu convocata tra le milioni di ombre che affollano le silenziose sale della morte. Ade le disse a quali condizioni avrebbe ottenuto la libertà e le ordinò quindi di seguire il marito.

“Amore, mi hai chiamato?”

Durante tutto il faticoso viaggio di ritorno sulla terra, Orfeo non dimenticò mai la promessa fatta, anche se spesso avrebbe voluto dare un’occhiata frettolosa al volto di Euridice per vedere se poco a poco la tristezza stesse svanendo dal suo viso. Mentre si avvicinavano al punto in cui i primi deboli barlumi di luce ormai filtravano nell’oscurità impenetrabile, Orfeo credette di sentire la sposa che lo chiamava e si guardò rapidamente intorno per capire se ella lo stesse ancora seguendo. Ma proprio in quel momento la forma leggera che aleggiava dietro di lui cominciò piano piano a svanire e una voce luttuosa, apparentemente lontana, gli rivolse un triste addio.

“E non erano ormai tanto lontani
dalla meta agognata quando Orfeo,
nel timore che lei non lo seguisse,
smanioso di vederla, si voltò:
in quell’istante, come risucchiata
da un vortice implacabile, Euridice
scivolò indietro e tendendo le braccia
cercava invano di aggrapparsi a lui
e d’essere afferrata, ma, infelice,
altro non strinse che l’aria sfuggente.
Ma non ebbe parole di rimprovero
per il suo sposo in quella nuova morte
(di cosa mai poteva lamentarsi
se non d’essere amata?): «Addio!», gli disse,
e l’estremo saluto giunse appena
alle sue orecchie, mentre lei svaniva
nell’abisso da cui era salita.”

Ovidio. “Le Metamorfosi”, Libro X trad. Mario Scaffidi Abbate.

La solitudine del cantore

Orfeo e le Baccanti, Gregorio Lazzarini
Orfeo e le Baccanti, Gregorio Lazzarini

Orfeo sapeva che non gli sarebbe stata data una seconda possibilità di strappare la moglie dalla morsa di Ade e dunque della morte, anche se egli fosse riuscito a incantare di nuovo il Cerbero a tre teste o a convincere Caronte, l’arcigno traghettatore, a portarlo un’altra volta da vivo, dall’altra parte del fiume. Così tornò sulla terra e visse in una grotta della foresta, in completo isolamento, lontano dalla compagnia degli uomini. All’inizio aveva solo la sua lira con cui condividere la propria solitudine, ma presto le creature della foresta vennero a vivere proprio accanto a lui e spesso gli sedevano intorno, per ascoltare la sua musica, con l’anima profondamente placata, ma piena di malinconia. Anche nelle ore di sonno, quando egli credeva di sentire Euridice che lo chiamava, Orfeo non era mai del tutto solo, perché il pipistrello e il gufo e le creature che amano l’oscurità, gli svolazzavano intorno, ed egli poteva vedere le lucciole dirigersi verso di lui dall’erba fredda della notte.

Le Baccanti vogliono ballare, ma Orfeo risponde “Non sono un Jukebox”

Un giorno un gruppo di Baccanti si imbattè in lui e lo vide seduto fuori dalla grotta, mentre suonava la triste canzone che raccontava del suo amore perduto. Le seguaci di Dioniso gli chiesero allora di smettere di intonare quelle tristi note, e di intrattenerle invece con qualcosa di allegro, in modo che esse potessero danzare al ritmo della musica. Ma Orfeo era troppo preso dal suo dolore per poter suonare un qualsiasi brano di musica da ballo e si rifiutò.

…riposta sbagliata

Le Baccanti, che erano già mezze pazze ed ubriache per aver trascorso giorni interi di festa a bere in onore di Dioniso, a questo rifiuto si infuriarono a tal punto, che si avventarono subito sullo sfortunato musicista e lo fecero letteralmente a pezzi. Poi gettarono il corpo maciullato di Orfeo nel fiume.

Il canto che sopravvive alla morte e alle ingiurie del tempo

Così, mentre la testa mozza di Orfeo andava alla deriva, le sue labbra continuavano invece a mormorare ancora e ancora “Euridice…Euridice“, finché le colline riecheggiarono quel nome tanto amato e le rocce, gli alberi e i fiumi lo ripeterono ad unisono in un coro luttuoso. In seguito, le Muse raccolsero i suoi resti per dar loro degna sepoltura e si dice che sulla tomba di Orfeo l’usignolo canti più dolcemente che in qualsiasi altro luogo della Grecia.

Poesie e riti orfici

Come altre figure leggendarie tipo Bacis, Museo, Abaris, Aristeo, Epimenide e la Sibilla, un gran numero di poemi religiosi greci in esametro sono stati attribuiti a Orfeo. Della vasta letteratura sopravvivono solo due esempi completi: una serie di inni composti nel III o II secolo a.C. e un’Argonautica Orfica composta tra il VI e il IV secolo a.C. C.. La prima letteratura orfica che potrebbe risalire al VI secolo a.C. C. sopravvive solo in frammenti di papiro e in citazioni di autori successivi.

Oltre a fungere da deposito di dati mitologici, la poesia orfica veniva recitata in riti misteriosi e rituali di purificazione. Platone, in particolare, parla di una classe di sacerdoti mendicanti che offrivano ai ricchi, attraverso sacrifici e incantesimi, purificazioni dai peccati che loro o i loro antenati potevano aver commesso. Aggiunge che queste pratiche, dette “iniziazioni ai misteri” erano basate sui libri di Orfeo e di Museo. Coloro che erano particolarmente devoti a questi rituali e ai canti sacri, praticavano spesso il vegetarianismo e l’astinenza sessuale ed evitavano di mangiare le uova. Questa usanza divenne nota come “vita orfica” (Orphikos bios).

L’orfismo

L’orfismo è un movimento filosofico-religioso che fonda i principi stessi del pensiero greco: il concetto di un principio immortale e divino che risiede nel corpo umano e, di conseguenza, di un dualismo corpo-anima. Questa concezione apparve assai presto presso i Greci, infatti e già citata da alcuni autori nel VI secolo a.C.

Secondo la tradizione fu proprio il poeta e profeta della Tracia, Orfeo, ad introdurre questi nuovi principi. Secondo tale dottrina, l’uomo è una miscela di due essenze divine, una dionisiaca e l’altra titanica: la prima è l’essenza buona che deve essere liberata dal male (titanico) e ottenere così la salvezza. Questa liberazione si realizza attraverso la reincarnazione o metempsicosi e la pratica delle purificazioni spirituali come redenzione della colpa originaria. Quindi l’Orfismo contiene tre punti dottrinali importanti: Teogonia, Antropogonia ed Escatologia.

Antropogonia

La cosmogonia orfica si conforma al modello di Esiodo con due o tre variazioni. Ma ciò che caratterizza bene la dottrina è l’antropogonia di Orfeo che è così raccontata: Dioniso, figlio di Zeus, fu ucciso e il suo corpo fu fatto a pezzi dai Titani che cucinarono la sua carne in calderone e poi la divorarono. Zeus, pieno di rabbia, colpì i Titani con un fulmine e dalle loro ceneri nacque il popolo degli uomini. Questo spiega la natura umana composta da due parti: una malvagia, titanica e l’altra buona, dionisiaca. Il popolo, dunque, nato dalle ceneri titaniche contiene in sé, fin dalle origini, un elemento perverso e insieme un elemento positivo, cioè la persona contiene in sé un conflitto dualistico. L’intera filosofia di Pitagora contiene questo aspetto dualistico. Anche Platone, che ereditò questo principio dal pitagorismo, stabilì le basi della sua metafisica su questa concezione bidimensionale dell’uomo.

Escatologia

L’escatologia di Orfeo mostra la via per la liberazione dell’anima dall’elemento titanico. L’anima, per liberarsi da quella parte malvagia, deve sottoporsi a determinati rituali di purificazione. Uno di questi percorsi di redenzione è la reincarnazione: attraverso di essa l’anima è costretta, dopo la morte, a ritornare in un altro corpo, umano, animale o anche vegetale. Questa riunificazione della parte divina con quella titanica in una nuova esistenza terrena, rappresenta la punizione e il riscatto del delitto originario. Altre vie di redenzione sono le purificazioni rituali, la pratica ascetica e il vegetarianismo.

Quanto all’anima dopo la morte, la dottrina di Orfeo elabora il vecchio concetto dell’Ade presentato da Omero ed Esiodo, ampliandone però le dimensioni. La regione più oscura e più abissale era chiamata Tartaro, la regione di mezzo Erebo e quella superiore e più nobile Elisio. Le prime due regioni erano destinate le anime dei peccatori, dove esse subivano delle pene assai dolorose.

Nell’ultima regione si recavano invece le anime che avevano patito grandi dolori nella loro esistenza terrena, ma che si preparavano ora al ritorno in vita (reincarnazione); le anime, qui, bevevano l’acqua del fiume dell’oblio, il Lete, per dimenticare il loro passato e prepararsi alla rinascita sulla terra.

Anche i romani adottarono questo insieme di credenze, come ci testimonia Virgilio nel suo mito sull’origine di Roma. Secondo il poeta latino, Enea, dopo la distruzione di Troia, partì per l’Occidente con suo padre Anchise e suo figlio. Durante il viaggio suo padre morì. Una notte, mentre dormiva, Enea, liberatosi dal suo corpo, si recò nell’Ade e lì incontrò suo padre, e quando il figlio gli chiese chi fosse quella folla di gente che beveva dal fiume Lete, Anchise gli spiegò che quegli uomini e quelle donne erano le anime che bevevano per dimenticare e rinascere nel futuro.

Orfeo nell’arte

La figura di Orfeo, simbolo del potere immortale dell’arte e della poesia, ha ovviamente ispirato gli artisti di tutti i secoli successivi. 

Nella storia della musica – la stessa arte praticata da Orfeo – è particolarmente rilevante l’opera di Claudio Monteverdi, La favola di Orfeo (1607), considerata una dei primi melodrammi della storia. Altri importanti compositori hanno trattato lo stesso mito: tra questi, Christoph Willibald Gluck (Orfeo ed Euridice) e Jacques Offenbach (nella sua opera parodistica Orfeo all’inferno).

Nella poesia latina Orfeo compare nel quarto libro delle Georgiche di Virgilio e nel decimo libro delle Metamorfosi di Ovidio.

Nella pittura, Dürer, Émile Lévy ed Émile Bin realizzarono delle opere tutte con argomento La morte di Orfeo.

Anche il Novecento riservò numerosi tributi ad Orfeo: Rainer Maria Rilke pubblicò i Sonetti a Orfeo (Sonette an Orpheus) nel 1923. Nella pittura, il simbolista Jean Delville rappresentò anche egli la morte di Orfeo. Jean Cocteau scrisse un’opera teatrale e realizzò ben due film basati sul mito, mentre Marcel Camus diresse una pellicola L’Orfeo negro, in cui la storia di Orfeo ed Euridice viene trasferita durante il Carnevale di Rio de Janeiro.

Alain Resnais diresse il film Vous n’avez encore rien vu, in cui due gruppi di attori di due diverse generazioni, che rappresentano in teatro il mito di Orfeo, vengono consultati dal loro ex regista sulla fattibilità di una rappresentazione di parte di un terzo gruppo teatrale. Lo spettatore assiste così a tre rappresentazioni simultanee dell’opera.

C’è anche un musical Off-Broadway chiamato Hadestown, scritto e composto dall’americana Anaïs Mitchell, che narra il mito di Orfeo ed Euridice ambientato negli anni della Grande Depressione.

L’attore Anthony Hopkins ha composto una canzone basata sul mito di Orfeo e sulla ricerca di Euridice per il suo CD intitolato appunto Orfeo.

Reflektor (2013), quarto album in studio del gruppo indie rock canadese Arcade Fire, contiene due brani che alludono al mito di Orfeo ed Euridice: “Awful Sound (Oh Eurydice)” e “It’s Never Over (Oh Orpheus)”.

(Libera traduzione da “Stories of Old Greece And Rome”, Emilie Kip Baker, 1913  con aggiunte e integrazioni)

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