I cittadini liberi, fondamentalmente, componevano la società romana delle origini, ma alcuni erano comunque più liberi degli altri: le famiglie aristocratiche. Questa distinzione tra la popolazione libera generale e gli aristocratici divenne gradualmente più definita, quando si formarono gli “ordini”, cioè le classi sociali, noti come plebei (la maggioranza) e patrizi (gli aristocratici). Non era una divisione etnica ma puramente di censo: legata alla ricchezza fondata sul possesso delle terre. Le originarie famiglie patrizie si organizzarono quindi in clan (gentes) di discendenze legate tra loro per mezzo dei matrimoni, accumulando terre e controllando dunque la società romana.
Nei primi secoli di Roma, il controllo totale di tutti i privilegi politici e di tutte le alte cariche, sacerdozio incluso, era in mano ai patrizi, che ottennero questi privilegi grazie a un forte senso di casta. Saldamente ancorati al loro potere e, altrettanto saldamente determinati ad escluderne tutti gli altri, cioè la plebe.
Dal canto suo la plebe, fra i quali c’erano anche i ricchi borghesi, che avevano fatto fortuna, era determinata in senso opposto: cioé a conquistarselo questo potere. Ne scaturì inevitabile la lotta politica tra patrizi e plebe, detta Conflitto degli Ordini.
I plebei combatterono continuamente per porre fine al monopolio dei patrizi sul potere politico e su tutti i principali uffici dello stato. Uno dei cambiamenti più significativi avvenne nel 455 a.C. quando fu revocato il divieto dei matrimoni misti tra nobili e cittadini comuni. Ciò avvenne però solo quando le famiglie patrizie ebbero la necessità di unirsi, tramite il matrimonio, con le ricche famiglie plebee. Motivo? Il denaro! Che altro? Senza denaro anche per un patrizio era impossibile fare politica. La plebe arricchita divenne quindi di nobiltà acquisita e si comportò da classe dominante. L’emancipazione complessiva della plebe sarà un processo molto più lungo e neppure mai pienamente attuato.
Cave Canem
A Roma venivano uccisi anche molti animali negli spettacoli nelle arene. Ma i romani non per questo erano del tutto privi di sentimenti per agli animali. Come in molte altre civiltà, e come noi, anche essi avevano animali domestici o animali da lavoro che facevano parte della famiglia. Cani e gatti erano essenziali per la caccia ai roditori, flagello dei raccolti epoi c’erano ovviamente i cani da guardia. Una piastrina del quarto secolo d.C. reca la scritta “Tienimi, che io non fugga, e restituiscimi al mio padrone Viventius nella tenuta di Callisto”. Famoso il mosaico sul portale di una casa di Pompei con l’iscrizione che recita Cave Canem, “Attenti al cane!” Un dipinto murale di un’altra casa di Pompei mostra un cane simile a un terrier e altrettanto celebre, sempre a Pompei è il calco di un cane che non ebbe la possibilità di salvarsi dalla pioggia di pomice e lava che cadde sulla città durante l’eruzione del 79 d.C., perché era legato. Il corpo del cane si decompose, lasciando un vuoto nello strato di pomice e cenere solidificata che è stata poi riempita di gesso dagli archeologi.
Tre classi separate
Per capire il sistema di governo a Roma, bisogna prima a capire la struttura delle classi romane. I cittadini romani appartenevano ad una delle tre seguenti classi: I romani di famiglie benestanti che risiedevano a Roma da molto tempo erano chiamati patrizi (dalla parola patres, che significava “padri”). Di conseguenza, erano considerati figure paterne o capi di Roma.
I patrizi
Nel III secolo aC, la mescolanza di antiche famiglie patrizie e plebe benestante era diventata la nuova aristocrazia (nobiles) dei ricchi proprietari terrieri, l’unica rispettabile fonte di ricchezza per un aristocratico romano. I nobili non prendevano parte a commerci o altro (almeno direttamente). Semplicemente perché ricchi, possedevano l’abilitazione alla proprietà per entrare in Senato (un milione di sesterzi al tempo di Augusto) e servire nelle magistrature come edili, pretori e così via, perché tutti questi incarichi non erano retribuiti ed erano considerati un onore pubblico (honor). Le famiglie nobili erano considerate tali se avevano avuto consoli nel loro albero genealogico e di cui ci si aspettava che le generazioni successive seguissero le orme, servendo nelle magistrature del cursus honorum (“la successione degli onori”), la scala della carriera per i futuri Politici e statisti romani. Quindi, sebbene la plebe si fosse aggiudicata il diritto di candidarsi, in pratica chi non aveva un reddito sostanzioso non poteva prendere la cosa neppure in considerazione.
In teoria, tutto il corpo cittadino poteva votare i magistrati. In pratica, le uniche persone che potevano farlo erano quelle che si trovavano a Roma in quel momento (cioè ad esempio, non impegnate a coltivare i campi, che per molti significava procurarsi da mangiare: sarà uno dei motivi per cui Catilina non riuscirà a farsi eleggere). Inoltre, le potenti famiglie nobili usarono la loro influenza sui loro clienti, così come la corruzione e altri mezzi, per assicurarsi che le magistrature andassero sempre chi volevano loro. Il risultato è stato che tale ufficio divenne altrettanto ereditario, perché le famiglie più eminenti manipolavano le elezioni per assicurarsi che le posizioni fossero tramandate di generazione in generazione.
I nobili indossavano tuniche con un ampio bordo verticale viola (laticlavius) su entrambi i lati e toghe, un capo di abbigliamento tradizionale romano, con un ampio bordo viola. Alcuni nobili indossavano un anello di ferro, come simbolo dei tempi più antichi. Le famiglie nobili possedevano il diritto di ius maginum. Ius significa “legge” o “diritto”. Alcune alte cariche consentivano al titolare di sedere in pubblico su una speciale sedia intarsiata d’avorio chiamata Sella Curulis.
I loro discendenti potevano fare riprodurre i busti dei loro antenati (immagina) e mostrarli nelle sale pubbliche della casa di famiglia affinché tutti potessero vederle. Maggiore era il numero di tali figure in una nobile famiglia, maggiore era la sua stima e dignità. Coloro che provenivano da famiglie prive dello ius imaginum, ma che erano riusciti ad ottenere alte cariche, erano chiamati ‘uomini nuovi’ (novi homines) e trattati con grande ostilità (come accadrà a Caio Mario).
I patrizi si ritenevano superiori ai meno abbienti. Per molti anni i patrizi ebbero l’esclusiva di servire in Senato. Al di Sotto i patrizi sulla scala sociale c’erano gli equites.
Gli Equites
Gli equestri risalgono ai tempi dei re, quando la società romana era divisa in classi in base alla capacità di pagarsi le armi per il servizio militare. Gli equites non avevano tanto denaro quanto i patrizi. Originariamente cavalieri, erano gli uomini d’affari dell’epoca – mercanti e banchieri – e oggi li definiremmo probabilmente la classe media di Roma. Il nome equite deriva dalla parola latina equis per cavallo. Per essere uno di loro, dovevi avere abbastanza soldi per comprarti un cavallo.
Nel corso degli anni, man mano che la ricchezza di Roma cresceva, c’erano molti più uomini con le qualifiche necessarie per essere equestri di quanti fossero necessari per la guerra, soprattutto perché Roma arrivò a fare affidamento su alleati e provinciali per formare il grosso dei combattimenti.
I cavalieri dunque, furono sempre più coinvolti nel commercio, dal quale si auto escludevano i nobili senatori (almeno in apparenza). Ai giorni della seconda guerra punica (218–202 aC), gli appaltatori del governo rifornivano l’esercito romano e questi dovevano essere cavalieri. Dopo la guerra, chiunque avesse una proprietà di 400.000 sesterzi era considerato equestre.
Questi includevano alcune aristocrazie municipali nelle città italiane con status di cittadino romano e gli uomini d’affari “finanzieri equestri” a Roma. Nella tarda Repubblica, i cavalieri costituirono un’importante forza politica rivale per i senatori, specialmente a Roma dopo il 122 a.C, quando Gaio Gracco introdusse una legge che stabiliva che i giudici nei processi dovessero essere equestri.
Nel I secolo a.C. gli equestri furono riconosciuti a pieno titolo (ordo equester) e furono uniti come un unico ordine nell’anno 22 d.C. sotto l’imperatore Tiberio. Non c’era più alcun collegamento con il servizio militare. Per contrassegnare il loro status e distinguerli dai nobili, i cavalieri indossavano un anello d’oro e le loro tuniche avevano una stretta striscia verticale viola (angusticlavius) su entrambi i lati.
I cavalieri potevano essere promossi allo stato senatoriale in massa per aumentare i numeri in Senato oppure singolarmente. Ai tempi dell’Impero, i cavalieri erano usati per ricoprire molti incarichi amministrativi, come gli affari finanziari delle province o il governatorato delle province minori. Il più famoso di tutti fu Ponzio Pilato, che divenne governatore della Giudea.
I plebei
La classe più bassa dei cittadini romani (dopo di loro c’erano solo gli schiavi) era la classe plebea. Erano cittadini nati liberi che lavoravano sodo ma non avevano molto denaro. Alcuni di loro hanno persino dovuto elemosinare il cibo per sopravvivere. Se i plebei vivevano in città, avevano la fortuna di ottenere un qualche lavoro, oppure potevano vendere del cibo in una delle tante bancarelle o gestire un piccolo negozio o una taverna.
I plebei che vivevano in campagna, potevano vivere in una piccola fattoria dove guadagnavano poco, ma coltivavano abbastanza cibo per sfamare la loro famiglia.
La parola plebs significa “maggioranza” o “moltitudine”, ma anche nel senso di “marmaglia” e includeva tutti tranne i ricchi plebei che avevano preso piede nell’alta borghesia di Roma. Le antiche famiglie patrizie lottarono per la sopravvivenza mentre i matrimoni misti e il crescente potere della plebe benestante le erodevano. Sotto il regno di Augusto (27 a.C.–14 d.C.) erano rimaste solo circa 15 famiglie patrizie e sotto Traiano (98–117 d.C.) solo sei.
Al tempo di Costantino I (307–337 d.C.) il titolo di “patrizio” era esteso a chiunque ricoprisse alte cariche alla corte imperiale. Poiché i patrizi controllavano la società romana, il resto della popolazione divenne totalmente dipendente da loro, lavorando come braccianti o fittavoli nelle loro terre. Da ciò si sviluppò il rapporto patrono-cliente: Il primo si comportava come una figura paterna con i suoi clienti, che spesso erano i suoi liberti (ex schiavi): si interessava personalmente alle loro carriere, alle loro preoccupazioni finanziarie e a qualsiasi altro loro problema legale o commerciale. Il cliente aveva il dovere di lealtà verso il suo mecenate, il che significava aiutarlo con denaro se il suo mecenate ricopriva una carica pubblica o se era stato multato, per esempio, o se era stato catturato in guerra e tenuto in ostaggio, e generalmente offrendogli sostegno.
Patroni e clienti non potrebbero mai comparire l’uno contro l’altro in un tribunale, nemmeno come testimoni. Avere molti clienti era un segno di status e particolarmente utile per i nobili politicamente ambiziosi.
Le donne, indipendentemente dalla classe alla quale appartenevano, non potevano affatto partecipare alla vita politica, soprattutto durante i primi tempi della Repubblica. Una donna doveva fare tutto ciò che diceva il suo paterfamilias (capofamiglia maschio). Se una donna era sposata, il suo pater familias era appunto il marito, altrimenti era suo padre o l’uomo più anziano della sua famiglia a ricoprire questo ruolo.
Sebbene le donne romane fossero pienamente cittadine ai sensi del diritto romano (a meno che non fossero schiave), non erano tuttavia tutelate: come già detto, le donne non potevano votare e gli uomini ritenevano giusto che le donne dovessero essere assolutamente sotto il controllo maschile.
Ci si aspettava anche che le donne più rispettabili rimanessero nelle loro case, fuori dagli occhi del pubblico. Il loro compito era quello di mantenere o gestire la casa.
Col passare del tempo, però, le cose iniziarono a cambiare. Con migliaia di mariti uccisi in guerra o nelle campagne militari, molte donne furono costrette a ricoprire il ruolo del marito scomparso. Ereditarono e presero il controllo del denaro dei mariti, una responsabilità che richiedeva che uscissero di casa e si affermassero in pubblico. Si incontrarono con altre donne – e uomini – per discutere dei loro affari, parteciparono a conferenze e iniziarono ad avere i propri ospiti. Mentre questo movimento prendeva slancio, le donne iniziarono ad apparire come i soggetti principali anche nelle opere d’arte. Una maggiore attenzione di vario tipo portò a maggiori diritti e libertà per le donne.
Gente comune
Fra il mondo dei senatori e dei cavalieri e quello dei i cittadini comuni, c’era un abisso. Questi ultimi erano un’umanità di vario tipo: cittadini romani, cittadini latini e il resto (a parte gli schiavi). Tutte queste persone trascorrevano la loro esistenza lavorando molto duramente per guadagnarsi da vivere.
Poiché furono praticamente ignorati dagli storici dell’epoca, li conosciamo solo dalle iscrizioni sulle lapidi, dai graffiti e dai reperti archeologici. Tutto questo materiale ci racconta ad esempio che il mondo romano era pieno di industrie di servizi di tutti i tipi, come le tintorie e i riciclatori di vestiti, gli insegnanti, i dipendenti pubblici, esattori e prestatori di denaro.
C’erano produttori e riparatori di abbigliamento e di scarpe, artigiani che realizzavano utensili in metallo, attrezzi, arredi architettonici e mobili. C’erano anche muratori, stuccatori, scultori, falegnami e carpentieri. Il cibo veniva fornito da commercianti, cuochi, fornai, proprietari di ristoranti, pescivendoli, macellai e agricoltori.
Alcuni lavori erano svolti sia da schiavi che da liberti. Questa gente conduceva una dura esistenza, di breve durata ed esposta continuamente ai pericoli, poiché ogni legislazione sulla salute e sulla sicurezza era inesistente. Ma era la stessa folla di individui che i nobili intrattenevano nel circo e nell’anfiteatro e che venivano da essi sovvenzionati con sussidio di grano e di olio. I nobili potevano forse disprezzare la folla romana, ma sapevano che non avrebbero mai potuto farne a meno.
Il diritto di insultare
L’imperatore Vespasiano (69–79 d.C.) ritenne necessario regolamentare perfino gli insulti; probabilmente perché il fenomeno del turpiloquio e degli attacchi personali nella scena politica doveva essere degenerato parecchio. Ma anche al giorno d’oggi spesso gli onorevoli e i parlamentari non mostrano sempre atteggiamenti dignitosi e controllati. Per tornare a Vespasiano, egli dispose che non si potesse insultare un senatore usando un linguaggio volgare. Tuttavia, se fosse stato il senatore stesso a rivolgere per primo delle male parole contro un cavaliere (uno degli equites), quest’ultimo aveva il pieno diritto di rivolgersi contro di lui con gli stessi toni. Insomma, almeno limitatamente alle classi superiori, si poteva insultare anche un senatore, se costui fosse stato villano, pur se non si apparteneva allo stesso status sociale. Ovviamente, questo non valeva per un plebeo qualsiasi o, peggio ancora, per uno schiavo, perché in quest’ultimo caso sarebbe scattata come minimo la punizione corporale.