< – Nelle puntate precedenti: Dopo la vittoria di Azio, Ottaviano torna in Roma e concentrando in sè la pienezza d’ogni potere inizia il principato. L’autorità imperiale è espressa dai poteri che si fa conferire: l’imperio (29) e la potestà tribunicia perpetui (23), il titolo di principe del senato (28), quello di Augusto (27), la potestà consolare perpetua e il diritto di far decreti con forza di leggi (19), la dignità di pontefice massimo (12). Possiede inoltre la potestà proconsolare, la prefettura dei costumi e onori divini, ecc. Augusto restringe il senato a 600 membri, divide con questo l’amministrazione delle provincie, ordina il catasto dell’impero, crea nuovi uffici (prefetto della città, del pretorio, dei vigili, ecc.), frena la corruzione, riordina l’amministrazione, ravviva il commercio, fonda nuove colonie, ecc. Queste le sue opere pacifiche. Grazie alla pace, la civiltà romana fa grandi progressi nelle provincie conquistate.
Carattere di Tiberio
Tiberio fu imperatore di Roma dal 14 al 37 dopo Cristo. Il suo nome completo era Tiberio Claudio Nerone Cesare. Figlio di T. Claudio Nerone e di Livia; nacque il 16 novembre del 42 a.C., prima che la madre sposasse Augusto.
Tiberio era alto e robusto e la sua salute era molto buona. Il suo viso era bello a vedersi e spiccavano in esso i suoi grandi occhi. Fu educato con cura secondo l’uso del tempo ed ebbe una buona conoscenza della letteratura greca e latina. Aveva talento sia come oratore che come scrittore, amando soprattutto occuparsi di quegli argomenti che al tempo venivano compresi sotto il termine di grammatica. Il suo maestro di retorica fu Teodoro di Gadara. Era un grande purista e aveva una meravigliosa precisione nelle parole, alla forma delle quali prestava spesso più attenzione che alla sostanza.
Pur non essendo privo di coraggio militare, come dimostra la sua vita, era un tipo molto timido ed era di indole gelosa e sospettosa; questi aspetti del suo carattere lo renderanno alla lunga un tipo crudele, dopo aver acquisito il potere. Era più il tipo dell’osservatore acuto, attento, fine e perspicace, piuttosto che il genere d’uomo deciso e sicuro di sé, anche se non di rado, inaspettatamente, poteva diventare risoluto.
Fin dalla giovinezza fu un ragazzo asociale, malinconico e riservato, e questo suo carattere si sviluppò maggiormente con l’avanzare dell’età. Non sembrava avere simpatie né affetti. Era indifferente al piacere o al dolore degli altri: possedeva tutti gli elementi potenziali di un soggetto che sarebbe potuto diventare apatico oppure spietato; il sospetto alimentava il suo temperamento implacabile e il potere gli diede l’opportunità di soddisfare i desideri di vendetta che aveva tenuto a lungo chiusi e nutriti in sè stesso.
I suoi ultimi anni di vita sono dipinti sotto una luce fosca dalle fonti classiche: lo accusano di aver dato sfogo a tutte le sue pulsioni sessuali più spinte, in tutti i modi che un’immaginazione depravata poteva suggerire. La perversione e la crudeltà rimasero un marchio indelebile sulla figura di Tiberio. Si dice anche che abusasse del vino, divenendo quindi un alcolizzato. In origine non era avaro, ma col tempo lo divenne. Aveva un occhio di riguardo per la decenza e per le apparenze. Secondo Tacito, storico di fede repubblicana per nulla tenero con diversi imperatori, Tiberio era il principe degli ipocriti e i fatti avvenuti nel suo regno non sarebbero altro che la dimostrazione del suo carattere detestabile.
Un po’ Amleto, un po’ Riccardo III. Insicuro, schiacciato da personaggi (a partire dalla sua stessa famiglia) che volevano solo manipolarlo, intuendo le sue debolezze e cercando di sfruttarle. Oppure – e ancora anche in questo c’entra la sua famiglia – sempre oppresso dall’ombra di qualcuno che gravava su di lui come un modello da seguire o un giudice esigente da soddisfare. Augusto prima di tutti, il suo patrigno, il pater patrie, primo imperatore, salvatore dello Stato e vendicatore di Cesare…si può mai essere adeguati agli occhi di uno così? E infatti Augusto non amava per niente Tiberio e forse il giovane Tiberio a sua volta lo odiava, perché egli non sapeva accettarlo così come era.
E la madre? Livia era tutta intenta ad assicuragli quel potere che poi voleva esercitare lei stessa in sua vece. Vi pare che una madre del genere possa stare ad ascoltare e capire il desiderio di un figlio di essere accettato per quello che è? E di essere accettato così da lei soprattutto?
E i fratelli, i cugini e tutti gli altri? Il clima competitivo che doveva regnare all’interno dei giovani rampolli della Casa Giulio Claudia, doveva essere più pesante di quello che si respira alle Olimpiadi, negli spogliatoi o prima di una gara . Come poteva sentirsi a suo agio Tiberio, il fragile Tiberio, il nerd Tiberio, il secchione che sapeva tutto sull’astronomia e la retorica, in mezzo a tutti questi gagliardi giovani principi, ansiosi di conquistarsi un posto nella casata e dunque nella storia, anche a costo di scavalcare i legittimi diritti dovuti al grado di parentela o di primogenitura.
Bramosi di guadagnarsi l’attenzione e poi il favore dell’imperatore, che poteva donarti incarichi prestigiosi o perfino adottarti, spianandoti la strada a tutto il possibile. In ognuno dei rampolli della sua famiglia, Tiberio avrà visto solo una folla di persone pronte a metterlo in ombra, a sottrargli visibilità e gloria. Perfino dei potenziai attentatori alla sua stessa vita, dato che, come presto vedremo, alla corte imperiale romana, così come dappertutto e in ogni epoca, le questioni dinastiche si risolvevano a suon di congiure ed eliminazioni fisiche dei propri rivali, anche se erano dei parenti.
Nella sua adolescenza e giovinezza, Tiberio si sarà sentito un po’ come il personaggio di quella canzone di Battisti, che si limita a guardare i ragazzi più grandi, sicuri di sé, un po’ sfacciati e intraprendenti, che vendono i loro vecchi libri di scuola agli alunni più giovani. Lui invece resta lontano, cercando il coraggio di imitarli; “ma il coraggio di vivere, quello ancora non c’é”. Non il coraggio in battaglia, si badi bene. Di quello Tiberio ne aveva da vendere e lo dimostrò brillantemente in più di un occasione.
“Vi immaginate dove sarebbe potuto andare quest’uomo se solo fosse stato amato?” Si chiede Kissinger nel film di Oliver Stone, “Gli intrighi del potere”, dedicato a Nixon. Sotto questo aspetto, Tiberio è il Nixon del mondo imperiale romano. Sempre consapevole di non essere amato dagli altri, di non essere mai davvero accettato, di non essere adeguato quasi per nessuna cosa. E come Nixon visse male il confronto con Kennedy, bello ricco, amato dal pubblico e dalle donne, così Tiberio visse male in confronto con Druso, Germanico, e perfino con Augusto.
Loro erano amati e benvoluti dagli uomini e dagli dèi. Eppure, nonostante ciò, fu proprio Tiberio ad essere chiamato dal destino a reggere il potere supremo. Proprio come in un’altra occasione, fu sempre il destino a scegliere un altro principe assolutamente inadeguato, Amleto, assegnandogli una missione fatale: vendicare un regicidio e giustiziare gli usurpatori.
Perché al destino, lo sappiamo tutti, non manca certo il senso della beffa e dell’ironia, oltre ad una smisurata crudeltà. La mancanza di amore, spinse quindi Tiberio il tentativo di meritarlo nell’esercizio delle sue funzioni regali; e dato che anche in ciò fallí, – neppure si era insediato infatti e già alcune legioni lo volevano rifiutare, acclamando invece Germanico come imperatore – arrivò dunque a pretendere l’amore come un atto dovuto. Fino a che non scoprì che essere temuti e di gran lunga più appagante che essere amati. Ma è proprio quando cominci a pensarla in questo modo, è allora che tutto ciò significa che sei già diventato o che stai diventando un mostro; e quella è una strada dalla quale non si fa più ritorno.
Ascoltate dunque la storia del triste e malinconico Tiberio, che magari voleva solo essere un buon generale con l’hobby degli oroscopi, e che invece divenne uno dei primi imperatori tirannici della storia romana. Ma come Shakespeare fa dire ad Antonio al funerale di Cesare: “il male che uno fa, spesso gli sopravvive; il bene, spesso resta sepolto con le sue ossa.” Così sia anche per il nobile Tiberio.
Ecce homo dunque; visto che Gesù fu martirizzato e crocifisso su ordine Pilato – che usò quelle esatte parole “Ecce homo” quando appunto il Messia venne portato al suo cospetto – proprio durante il regno di Tiberio.
Ecce homo, Ecce Tiberio. Giudicatelo voi, senza lavarvene le mani. Forse è proprio il nostro giudizio, la nostra condanna o la nostra assoluzione, il nostro rammarico o il nostro disprezzo. Forse è questo ciò che manca all’irrequieta anima di Tiberio che si tormenta da più di duemila anni. Forse egli è solo uno che come noi, come tutti noi, cercava e cerca ancora soltanto un po’ di pace.
Giovinezza di un tiranno
Tiberio aveva circa tredici anni quando accompagnò Augusto nel suo ingresso trionfale a Roma (29 a.C.) dopo la morte di Antonio: Tiberio cavalcava alla sinistra di Augusto e Marello alla sua destra. Augusto conferì a Tiberio e a suo fratello Druso pari titoli di dignità, mentre i suoi nipoti, Caio e Lucio, erano ancora in vita; ma oltre a Caio e Lucio, Marcello, il nipote di Augusto, aveva pretese superiori alla successione, e la prospettiva che Tiberio potesse succedere al potere del marito di sua madre sembrò a un certo punto essere molto remota. La morte di Agrippa fece sì che Tiberio venisse impiegato negli affari pubblici e Augusto lo costrinse, di fatto calpestando la sua volontà, a divorziare dalla moglie Vipsania Agrippina, figlia di Agrippa, che amava molto e che era allora incinta, e a sposare Giulia (11 a.C.), vedova di Agrippa e figlia dell’imperatore, con la quale Tiberio non visse a lungo in armonia: erano due caratteri completamente opposti, quasi come il Principe Carlo e Diana d’Inghilterra. Ebbero anche un figlio, ma questi non sopravvisse.
Tiberio fece la sua prima campagna nella guerra cantabrica come Tribunus Militum. Nel 20 a.C. fu inviato da Augusto a riportare Tigrane sul trono d’Armenia. Artabazio, l’occupante del trono, fu assassinato prima che Tiberio raggiungesse l’Armenia stessa e Tiberio non ebbe difficoltà a portare a termine la sua missione. Fu durante questa campagna che Orazio indirizzò una delle sue epistole a Giulio Floro, che era al servizio di Tiberio. Nel 15 a.C. Druso e suo fratello Tiberio erano impegnati in una guerra contro i Reti, che occupavano le Alpi di Tridentum (Trento), e le imprese dei due fratelli furono cantate da Orazio (Hor. Carm. 4.4, 14; D.C. 54.22.)
Nel 13 a.C. Tiberio era console assieme a P. Quintilio Varo, il futuro responsabile del disastro militare di Teutoburgo. Nell’11 a.C., lo stesso anno in cui sposò Giulia, mentre il fratello Druso combatteva contro i Germani, Tiberio lasciò la nuova moglie per condurre, sempre su ordine di Augusto, la guerra contro i Dalmati che si erano ribellati e contro i Pannoni. (Dio Cass 54.31.)
Druso morì (9 a.C.) a causa di una caduta da cavallo, dopo una campagna contro i Germani tra il Weser e l’Elba. Alla notizia dell’incidente, Tiberio fu inviato da Augusto, che allora si trovava a Pavia, da Druso, che trovò moribondo. Trasportò quindi il suo corpo a Roma dalle rive del Reno, percorrendo tutto il tragitto a piedi (Sueton. Tiber. 7), e pronunciò un’orazione funebre in onore del fratello nel Foro. Tiberio tornò alla guerra in Germania e attraversò il Reno. Nel 7 a.C. era di nuovo a Roma, fu nominato console per la seconda volta e celebrò il suo secondo trionfo. (Vell. 2.97.)
Nel 6 a.C. ottenne la tribunicia potestas per cinque anni, ma durante questo periodo si ritirò con il permesso dell’imperatore a Rodi, dove trascorse i successivi sette anni. Tacito (Tac. Ann. 1.53) afferma che il motivo principale per cui lasciò Roma fu quello di allontanarsi dalla moglie, che lo trattava con disprezzo e la cui vita licenziosa non era un segreto per il marito: probabilmente, inoltre, non era disposto a rimanere a Roma quando i nipoti di Augusto stavano raggiungendo la maturità, poiché c’era una gelosia reciproca tra loro e Tiberio.
Durante la sua permanenza a Rodi, Tiberio si dedicò, tra le altre cose, all’astrologia, altra cosa che contribuì a gettare sulla sua figura una luce sinistra. Il suo principale maestro in quest’arte era allora Trasilo, che gli predisse che sarebbe diventato imperatore. (Tac. Ann. 6.21) Augusto aveva permesso di malavoglia a Tiberio di ritirarsi a Rodi e non era disposto a farlo tornare; ma, su richiesta di Caio Cesare, lo richiamò a Roma, nel 2 d.C.
Durante la sua assenza era scoppiato uno scandalo, poiché sua moglie Giulia era stata bandita, ufficialmente per condotta immorale, nell’isola di Pandataria (2 a.C.) ed egli non la rivide mai più. Svetonio dice che Tiberio, inviò una lettera, in cui pregava l’imperatore di lasciare a Giulia tutto ciò che le aveva dato. Tiberio si occupò degli affari pubblici fino alla morte di L. Cesare (2 d.C.), seguita da quella di C. Cesare (4 d.C.). Augusto, essendo ormai privo di un successore del suo stesso sangue, adottò Tiberio, figlio della moglie Livia, con l’intento di lasciargli il potere che lui stesso aveva acquisito; allo stesso tempo impose a Tiberio di adottare Germanico, figlio di primo letto della moglie Livia.
Tiberio aveva un figlio, Druso, nato da suo matrimonio con Vipsania. (Sveton. Tiber. 15; Vell. 2.103.) Augusto non ignorava il carattere di Tiberio, ma, come fecero e faranno altri, preferì lasciare il potere a un uomo che, sebbene non gli piacesse e che non poteva stimare, apparteneva comunque alla sua famiglia: ciò era di gran lunga meglio che permettere che l’impero cadesse nella mani di qualcun altro al di fuori della sua casata. Augusto aveva infatti adottato anche Postumo Agrippa, il fratello di C. e L. Cesare, ma non c’era nulla di buono da sperare da lui; e Germanico era troppo giovane per essere adottato da Augusto in vista della successione diretta.
Dall’anno della sua adozione alla morte di Augusto, avvenuta nel 14 d.C., Tiberio fu al comando degli eserciti romani nelle campagne militari, anche se visitò Roma più volte. Fu inviato in Germania nel 4 d.C. e lo storico Velleio Patercolo lo accompagnò come praefectus equitum.
Nel 9 d.C. Tiberio ridusse in sottomissione l’Illirico e nel 12 d.C. ebbe l’onore di un trionfo a Roma per le sue vittorie in Germania e Dalmazia. Tiberio dimostrò un vero talento militare durante le sue campagne transalpine; mantenne la disciplina nel suo esercito e si prese cura della condizione dei suoi soldati. Nel 14 d.C. Augusto tenne il suo ultimo censimento, nel quale ebbe Tiberio come collega.
Poiché Tiberio fu inviato a sistemare gli affari dell’Illirico, Augusto lo accompagnò fino a Beneventum, ma mentre stava tornando a Roma l’imperatore morì a Nola il 19 agosto del 14 d.C.
Tiberio imperatore
Tiberio fu immediatamente richiamato in patria dalla madre Livia, che gestì gli affari in modo da assicurare il potere al figlio. Di Tiberio non si ricorda quasi altro che la sua condotta di quando fu imperatore, ma se si considera tuto l’arco della sua vita egli ci appare come un uomo non peggiore molti altri Romani: tormentato, contraddittorio, misterioso e protagonista di una parabola discendente morale ed esistenziale.
La sua ascesa al potere sviluppò tutte le qualità che non erano ignote a coloro che lo conoscevano, ma che fino a quel momento non erano state messe in piena luce. Assunse il potere che nessuno era disposto a contendergli, mostrando sempre una grande riluttanza; rifiutò il nome di Pater Patriae e assunse quello di Augusto solo quando scriveva ai principi stranieri. Iniziò il suo regno mettendo a morte Postumo Agrippa, sostenendo che ciò fosse il volere di Augusto (Tac. Ann. 1.6).
Per il resto, la sua condotta fu improntata alla moderazione e alla prudenza; rifiutò tutte le lusinghe del Senato; conferì le cariche secondo il merito e permise a chi le ricopriva, di mantenerle a vita.
Si sforzò di sfrontare il problema della scarsità del pane, un problema ricorrente a Roma, nonostante, e forse, in conseguenza degli sforzi del governo per assicurare una fornitura di cibo alla città. Il suo stile di vita era frugale e senza ostentazioni, e c’era ben poco da eccepire su di lui.
Si era sbarazzato di Agrippa, che il suo maggior rivale e che, se avesse acquisito meriti e successi, sarebbe sembrato in diritto di avanzare pretese al potere imperiale assai più legittime di Tiberio stesso, poiché Agrippa era appunto figlio di Giulia. Germanico invece era figlio di suo fratello minore, e nella catena dei possibili candidati alla successione al trono veniva dopo Tiberio; ma quest’ultimo temeva comunque le virtù e la popolarità di Germanico e, finché lo vide come un possibile rivale, la sua condotta nei suoi confronti fu estremamente circospetta. (Tac. Ann. 1.14, 15)
Quando poi si sentì sicuro del suo posto, cominciò a mettere in atto il suo piano di gestione del potere. Tolse all’assemblea popolare l’elezione dei magistrati e la trasferì al senato, come ci riferisce Tacito negli Annali: l’assemblea popolare promulgava ancora le leggi, anche se le consulte del senato erano la forma ordinaria di legislazione prima dell’ascesa di Tiberio. L’imperatore si limitava a raccomandare annualmente al senato quattro candidati, che ovviamente venivano eletti, e lasciava che fosse il senato a scegliere gli altri. Nominò poi anche i consoli.
La notizia della morte di Augusto suscitò un ammutinamento tra le legioni in Pannonia, che fu sedata da Druso, figlio di Tiberio, aiutato dal terrore suscitato da un’eclissi che si rivelò davvero provvidenziale (27 settembre 14 d.C.). Gli eserciti sul Reno sotto Germanico mostrarono una tale disposizione a respingere Tiberio e un tale spirito di ribellione che, se Germanico fosse stato propenso a tentare la fortuna di una guerra civile, avrebbe potuto avere l’alleanza delle forze germaniche contro lo zio.
Ma Germanico ristabilì la disciplina nell’esercito con la sua fermezza e mantenne la sua fedeltà al nuovo imperatore. Tiberio, tuttavia, non era ancora libero dai suoi timori e guardava con sospetto sia Germanico e la sua focosa moglie Agrippina, invisa anche a Livia, la madre di Tiberio.
Il primo anno di regno fu segnato dalla morte di Giulia, che Augusto aveva fatto trasferire da Pandataria a Rhegisum; il marito la privò del sussidio che aveva avuto dal padre e la lasciò a vivere nell’indigenza. Uno dei suoi amanti, Semipronio Gracco, che viveva in esilio in una piccola isola sulla costa africana, fu messo a morte per ordine dello stesso Tiberio. (Tac. Ann. 1.53.)
Germanico (15 d.C.) continuò la guerra, anche senza ottenere risultati importanti, ma il coraggio di Agrippina in un’occasione difficile suscitò i timori dell’imperatore, il quale ora aveva accanto a sé, Seiano, un uomo che lavorava sul temperamento sospettoso dell’imperatore per raggiungere i suoi scopi sinistri. In questo periodo divennero un fatto comune le accuse di tradimento o di laesa majestas contro l’imperatore; le persone venivano accusate non solo di atti, ma anche di parole o atteggiamenti contro la corona e anche i gesti più insignificanti vennero fatti oggetto di tali accuse.
Si formò così una classe infame di individui, sotto il nome di Delatores (delatori appunto), che divennero un terribile strumento di ingiustizia e di oppressione (Tac. Ann. 1.73), e che si arricchivano a spese delle loro vittime incoraggiando i crudeli sospetti dell’imperatore.
Durante il regno di Augusto, Tiberio aveva esortato il sovrano a punire chiunque parlasse in modo irrispettoso dell’imperatore, ma il suo più prudente patrigno, convinto della solidità del potere reale e della sicurezza dello Stato, permise ai Romani di assecondare il loro gusto per la satira e le pasquinate. (Sveton. Aug. 100.51) Tiberio stesso seguì per un certo periodo questo saggio atteggiamento e fece grande professione di libertà di parola, ma alla fine prevalse il suo vero carattere e il minimo pretesto fu sufficiente per fondare un’accusa di laesa majestas (lesa maestà) (Sveton. Tiber. 100.28). Pagò malvolentieri e in ritardo l’eredità lasciata da Augusto al popolo, e iniziò invece a ripagarli con atti di crudeltà, conditi per giunta di umorismo.
Quando, durante un funerale, un giullare chiamò ad alta voce il cadavere per dirgli di far sapere ad
Augusto
nell’aldilà che l’eredità che egli aveva lasciato al popolo non era ancora stata pagata,
Tiberio
fece condurre quel buffone davanti a sé e ordinò che gli venisse dato il dovuto: lo mise dunque a morte, ordinandogli di andare a riferire poi la verità allo spirito di suo padre.
Poco dopo, quando un cavaliere romano di nome Pompeo si oppose strenuamente a un provvedimento in senato, Tiberio minacciò di imprigionarlo, dichiarando che in quanto Pompeo avrebbe fatto di lui un pompeiano: un crudele gioco di parole sul nome dell’uomo e sulla sorte subita del vecchio partito avversario di Cesare.
(Svetonio, Vite dei Dodici Cesari, Tiberio, 100.57 – Dione Cassio, racconta la stessa storia, 57.14,) Per quanto sembri incoerente, visto che Tiberio stesso era dedito all’astrologia e alla divinazione, fu proprio lui l’imperatore che bandì dall’Italia chi operava nel campo dell’occulto (Tacit. Ann. II 32).
Germanico e Druso
Germanico stava portando avanti la guerra con successo in Germania e Tiberio, che da tempo era geloso della sua fama crescente, lo richiamò a Roma con il pretesto di tributargli un trionfo, che avvenne 26 maggio 17 d.C., come era stato decretato. Tiberio aggiunse all’impero romano il regno di Cappadocia, il cui ultimo re, Archelao, era stato convocato a Roma, dove morì, probabilmente per vecchiaia e per dolore allo stesso tempo, dopo essere stato accusato pretestuosamente davanti al Senato.
Grazie ai prodotti importati della nuova provincia, Tiberio poté ridurre l’imposta dell’1% sulle aste a mezzo centesimo (Tac. Ann. 2.42). Lo stato degli affari in Oriente, dove i regni di Commagene e Cilicia erano turbati da dissensi civili e la Siria e la Giudea erano inquiete per il peso delle tasse; ciò diede a Tiberio l’opportunità di allontanare Germanico da Roma, conferendogli con un decreto del Senato il governo dell’Oriente.
Druso, figlio di Tiberio, fu inviato nell’Illirico. Quest’anno rimane memorabile per il grande terremoto in Asia, il più grande mai registrato all’epoca in cui si verificò, e tanto più distruttivo in quanto avvenuto di notte. Dodici città furono danneggiate o rase al suolo, la terra si aprì e inghiottì le persone e le cose, e anche l’Italia meridionale e la Sicilia sentirono la terribile scossa.
Sardi fu la più colpita delle dodici città. L’imperatore alleviò la calamità con la sua generosità e, nel caso di Sardi, con la remissione di tutti i pagamenti all’aerarium o fiscus per cinque anni. È giusto ricordare il suo rifiuto di accettare lasciti testamentari, se non fatti da persone che erano in rapporti di intimità con lui; ma l’imperatore non era a corto di denaro, né di prudenza; non era infatti saggio prendere denaro da tutti, anche da chi non aveva carattere. In questo anno morirono Tito Livio, lo storico, e Ovidio nel suo esilio a Tomi.
Germanico riportò la quiete in Armenia (18 d.C.) incoronando con le proprie mani Artaxias come re nella città di Artaxata. La sua amministrazione dell’Oriente fu prudente e di successo, ma morì in Siria nel 19 d.C. e l’antipatia nei suoi confronti da parte di Tiberio e l’inimicizia di Cn. Pisone, governatore della Siria, diedero credibilità alla notizia che Germanico fosse stato avvelenato, notizia probabilmente infondata.
L’attenzione alla decenza esteriore era una delle caratteristiche del regno di Tiberio, e un decreto del Senato fu emanato contro alcune classi di donne che professavano il mestiere di cortigiane. (Sueton. Tiber. 100.35; Tac. Ann. 2.85.)
Tiberio mise anche fuori legge i baci nelle cerimonie pubbliche, sperando che ciò aiutasse a frenare la diffusione dell’herpes.
Ma fu la tolleranza religiosa a non costituire proprio uno dei pilastri del tempo di Tiberio; un senatus consultum impose sanzioni a coloro che praticavano il cerimoniale del culto egiziano o ebraico, anche se questo non era il primo esempio di questo tipo di intolleranza a Roma. (Tac. Ann. 2.85; cfr. Seneca, Ep. 108)
Agrippina e Giulia
Nella primavera del 20 d.C. Agrippina sbarcò a Brundisium con le ceneri del marito. I resti di Germanico ricevettero una sepoltura pubblica, ma Tiberio e Livia non si fecero vedere, e Tacito ne attribuisce una ragione, che può essere vera o falsa.
Lui e Augusta si astennero da qualsiasi apparizione in pubblico, sia perché ritenevano poco dignitoso per la loro maestà dolersi alla vista degli uomini, sia perché temevano che, se tutti gli occhi avessero osservato i loro sguardi, avrebbero potuto leggerne l’ipocrisia. Non riesco a scoprire, né dagli storici né nei giornali governativi, se la madre del principe, Antonia, abbia preso parte in modo significativo alle cerimonie, anche se, oltre ad Agrippina, Druso e Claudio, gli altri suoi consanguinei sono citati per nome.
Può darsi che l’ostacolo sia stato la salute, o che uno spirito distrutto dal dolore si sia tirato indietro di fronte alla prova visibile della sua grande afflizione; ma trovo più credibile che Tiberio e Augusta, che non lasciarono il palazzo, l’abbiano tenuta lì, per dare l’impressione di una unione nel dolore, di una nonna e di uno zio trattenuti a casa per fedeltà all’esempio di una madre.
(Ann. 3.3.) Pisone, giunto a Roma, fu accusato davanti al Senato di aver tolto la vita a Germanico. C’erano forti sospetti, ma poche o nessuna prova; tuttavia Pisone, vedendo che Tiberio non gli dava alcun appoggio, si liberò con una morte volontaria, o forse fu messo a morte per ordine dello stesso Tiberio.
Sua moglie Plancina, che poteva essere considerata colpevole così come lo era il marito, si salvò grazie all’influenza di Livia. Vi erano certamente delle forti ragioni per credere che nella questione della morte di Germanico e di Pisone, Tiberio fosse coinvolto (Tac. Ann. 3.16), anche se Tacito, notoriamente ostile a Tiberio, non si pronuncia a riguardo.
Ricordo di aver sentito i miei anziani parlare di un documento visto più di una volta nelle mani di Pisone. Egli stesso non ne rivelò mai il contenuto, ma i suoi amici affermarono sempre che conteneva una lettera di Tiberio con le sue istruzioni relative a Germanico; e che, se non fosse stato ingannato dalle vuote promesse di Seiano, era deciso a produrla davanti al Senato e a costringere l’imperatore a difendersi. La sua morte, secondo loro, non fu autoinflitta: un assassino era stato lasciato libero di compiere l’opera. Esiterei a sostenere l’una o l’altra teoria: allo stesso tempo, era mio dovere non sopprimere una versione data da contemporanei che vivevano ancora nei miei primi anni di vita.
Tiberio diede Giulia, la figlia di suo figlio Druso, in sposa a Nerone, il figlio maggiore di Germanico, gesto questo che ebbe il favore popolare. Moderò anche le pene previste dalla Lex Papia, approvata al tempo di Augusto, che tassava il celibato, con il duplice scopo di incoraggiare il matrimonio e di riempire l’aerarium. (Tac. Ann. 3.25.)
Una rivolta
L’anno 21 d.C. fu il quarto consolato di Tiberio e il secondo di suo figlio Druso Cesare, ma fu considerato di cattivo auspicio per Druso, perché tutti coloro che erano stati colleghi del padre nel consolato erano morti di morte violenta. Quest’anno scoppiò una grande rivolta capeggiata da Giulio Floro, a Treves sulla Mosella, e da Giulio Sacroviro, tra gli Aedui. I presunti motivi della rivolta erano le pesanti tasse e l’oppressione dei governatori romani. Sacroviro radunò ad Augustodunum (Autun) in Gallia quarantamila uomini, ottomila dei quali erano dotati delle armi dei soldati legionari, fabbricate di nascosto, mentre gli altri avevano bastoni, coltelli e altri attrezzi da caccia. L’insurrezione non era dissimile da quella che si è spesso manifestata in Francia da quando si sono verificati i motidel 1789. La ribellione fu sedata. Floro e Sacroviro riuscirono a sfuggire ai Romani solo dandosi la morte per loro stessa mano. (Tac. Ann. 3.40.)
La lesa maestà
Il principio del tradimento contro il princeps (laesa maiestas) si era già affermato sotto Tiberio nella sua massima estensione: infatti C. Lutorio Prisco fu condannato dal senato per aver scritto un poema sulla morte di Druso: poiché quest’ultimo infatti era gravemente malato, ma ancora vivo, dare per scontato che sarebbe spirato e, a fatto non ancora avvenuto, scrivere dei versi funebri, deve essere parsa una cosa a metà fra il malocchio e lo svolazzare dei corvi sul capezzale di un moribondo. Quindi un atto contro la corona.
Sembra che il senato in questo caso abbia proceduto in base a un provvedimento di pene e sanzioni, poiché non pare ci fosse alcuna legge specifica applicabile in questo caso. Prisco fu giustiziato e Tiberio, con il suo solito modo di esprimersi perplesso, biasimò il senato; lodò il loro affettuoso zelo nel vendicare gli insulti al princeps, ma disapprovò che venissero inflitte pene così affrettate solo per le parole. (Tac. Ann. 3.49.)
Fu in questa occasione che venne anche emanato un senatus consultum, secondo il quale nessun decreto del senato doveva essere portato all’Aerarium prima del decimo giorno, e così si concedeva una tregua di altrettanti giorni ai condannati (Tac. Ann. 3.51; D. C. 57.20). Nell’anno 22 d.C. il Senato conferì a Druso, su richiesta di Tiberio, la Tribunicia Potestas, il più alto titolo di dignità e l’indicazione che Druso sarebbe stato il successore di Tiberio. Sebbene il Senato avesse conferito l’onore in termini di grande adulazione, Druso, che sembra si trovasse in Campania in quel momento, non ritenne opportuno venire a Roma per ringraziarli. (Tac. Ann. 3.59.)
La morte di Druso, sulla quale nessuno pianse
Nel 23 d.C. morì Druso, figlio di Tiberio, avvelenato da Seiano. La sua morte non fu una perdita per lo Stato, poiché dava segno di non essere assolutamente adatto al governo, come a nessun altra attività utile ad uno scopo qualsiasi; tuttavia aveva vissuto in buoni rapporti con Germanico e dopo la sua morte si era comportato bene con i suoi figli, o almeno non aveva mostrato alcuna ostilità nei loro confronti.
L’imperatore o non provò molto dolore per la morte del figlio oppure lo nascose; e quando gli abitanti di Ilio, l’antica e mitica Troia, qualche tempo dopo gli inviarono un messaggio di condoglianze, egli ricambiò esprimendo il suo cordoglio per la morte del loro concittadino Ettore (Sueton. Tiber. 100.52).
Seiano, un precursore di Jago
L’influenza di Seiano su Tiberio sembrò crescere dopo la morte di Druso, e Tiberio cominciò a mostrare sempre più i vizi del suo carattere. La stessa cosa si verificò anche dopo la morte di Germanico, e di nuovo quando morì sua madre Livia. Tiberio permise alle città dell’Asia di erigere un tempio intitolato a lui stesso e a sua madre a Smirne, il primo episodio di smaccata adulazione cui aveva dato il suo consenso. Ma quando la provincia dell’Hispania Ulterior chiese di poter fare la stessa cosa, l’imperatore si rifiutò ed espose le sue ragioni in un’orazione al senato, caratterizzata da modestia e da buon senso. Quest’uomo singolare aveva un buon giudizio e, se ci formassimo un’opinione su di lui solo dalle sue parole, lo collocheremmo tra i più saggi e i migliori della storia degli imperatori romani. Molte delle sue misure erano spesso prudenti e benefiche; eppure, stando alle fonti, la sua insincerità era tale che difficilmente si riusciva a capire quando gli si poteva dare credito per una buona azione.
Delazioni, calunnie e diffamazione: benvenuti nella Roma di Tiberio e Seiano
Il sistema delle delazioni era ormai in piena attività e Roma assistette allo scandaloso spettacolo di un figlio che accusava il padre, Q. Vibio Sereno, di cospirazione contro l’imperatore, senza poter provare nulla contro di lui. L’abietto senato condannò a morte Sereno, ma Tiberio usò il suo potere tribunizio per impedire l’esecuzione della sentenza capitale e l’uomo, contro il quale non si poteva provare nulla nemmeno sottoponendo i suoi schiavi alla tortura, fu bandito nell’isola di Amorgus.
Cecilio Cornuto, accusato di essere complice di Sereno, si suicidò. In questa occasione fu presentata in senato una mozione che chiedeva di non ricompensare gli informatori, se la persona accusata di tradimento fosse morta di sua mano prima che venisse pronunciata la sentenza; ma Tiberio, vedendo che questo avrebbe indebolito uno dei principali ingranaggi della sua macchina del potere, con termini duri e contrari alla sua prassi, sostenne apertamente la causa degli informatori; una misura come quella proposta dal senato avrebbe, a suo dire, reso inefficaci le leggi e messo in pericolo lo Stato; avrebbero fatto meglio allora a sovvertire tutte le leggi piuttosto che privare il Governo dei suoi custodi.
Tiberio, che temeva sempre i nemici, pensava che la sua sicurezza consistesse nell’incoraggiare i delatori; in questo caso parlò con franchezza e rivelò uno dei segreti del suo sistema di potere.
Lo storico Cremuzio Cordo aveva scritto degli Annali, in cui aveva lodato Bruto e Cassio: fu accusato di tradimento e, poiché aveva deciso di morire, parlò con coraggio in sua difesa. Uscito dalla casa del senato, si lasciò quindi morire di fame; il senato ordinò agli edili di cercare le sue opere e di bruciarle, ma non furono trovate tutte le copie e i suoi Annali erano ancora in circolazione quando Tacito scrisse le sue opere (Ann. 4.35).
L’Autoesilio
Nell’anno 26 d.C. Tiberio lasciò Roma e non vi fece mai più ritorno, anche se a volte si recò vicino alle mura della città. Partì con il pretesto di dedicare dei templi in Campania, ma il veri motivo era che oramai l’atmosfera a Roma era diventata per lui insopportabile, piena solo di molte cose che gli erano sgradite. Inoltre, man mano che avanzava negli anni, cresceva in lui il desiderio di assecondare le proprie pulsioni sessuali in privato.
Seiano potrebbe aver contribuito a questa decisione di lasciare Roma, come si dice, ma in realtà Tiberio continuò a risiedere fuori Roma per sei anni anche dopo la morte di Seiano stesso (Tac. Ann. 4.57).
In questo periodo un grande incendio distrusse tutti gli edifici sul Monte Celio, e l’imperatore risarcì generosamente gli sfollati in proporzione alle perdite subite, misura che gli procurò la benevolenza del popolo. La sua avversione per la pubblicità fu dimostrata durante la sua residenza in Campania, con un editto che ordinava al popolo di non disturbare il suo ritiro; egli impedì anche ogni assembramento collocando soldati in vari posti.
Tuttavia, per assicurarsi l’isolamento che amava, si recò (27 d.C.) nell’isola di Capri (Capreae), che dista circa 15 chilometri dal promontorio di Sorrento. Questo ritiro era ulteriormente adatto per il fatto di avere una costa quasi inaccessibile.
Un povero pescatore tuttavia, che aveva catturato un grosso cefalo, si arrampicò con difficoltà sulle rocce per presentarlo all’imperatore, che lo ricompensò ordinando di grattare bene il viso dell’incauto visitatore autoinvitatosi, proprio con quel pesce. (Sueton. Tiber. 100.60.)
Pochi giorni dopo aver raggiunto Capreae ed essere rimasto da solo, apparve inaspettatamente un pescatore che gli offrì un enorme cefalo; allora, allarmato dal fatto che l’uomo si fosse arrampicato fino a lì dal retro dell’isola su rocce aspre e senza sentieri, fece sfregare il viso del poveretto con il pesce.
E poiché, nel bel mezzo della tortura, l’uomo ringraziò il cielo di non aver dato all’imperatore un enorme granchio che aveva pescato, Tiberio gli fece scorticare la faccia proprio con quel granchio.
Punì con la morte un soldato della guardia pretoriana per aver rubato un pavone dalle sue riserve. Quando la lettiga con cui stava facendo un viaggio fu bloccata dai rovi, fece stendere a terra e fustigare quasi a morte l’uomo che era andato avanti a liberare la strada, un centurione della prima coorte. L’anno nuovo (28 d.C.) si aprì con la morte di Tito Sabino, un amico di Germanico, che Latinio Latiaris aveva indotto in malo modo a pronunciare espressioni molto forti contro Giuliano e Tiberio, mentre questi aveva messo in segreto delle persone come testimoni. I delatori informarono Tiberio delle parole di Sabino. L’imperatore fece sapere al Senato la sua volontà e questo corpo, diventato ormai servile, mise subito a morte Sabino, cosa per il quale ricevette i ringraziamenti di Tiberio. (Tac. Ann. 4.68)
Morte di Livia
In questo anno Tiberio fece sposare Agrippina, figlia di Germanico, con Cn. Domizio Enobarbo, e il risultato di questa unione fu la nascita del futuro imperatore Nerone. La morte di Livia (29 d.C.), madre di Tiberio, liberò quest’ultimo da una delle ragioni delle sue ansie. Da tempo era stanco di lei, perché la donna desiderava esercitare l’autorità imperiale in sua vece, e uno degli obiettivi che Tiberio si era prefissato lasciando Roma era quello appunto di non esserle d’intralcio.
Non andò a trovarla durante la sua ultima malattia, né si recò al suo funerale, giustificandosi, come disse, col pretesto di essere sommerso dagli affari pubblici, lui che invece trascurava tutti le questioni importanti e si dedicava ai suoi piaceri solitari. (Tac. Ann. 5.2; D. C. 58.2)
La morte di Livia lasciò spazio libero a Seiano. Tiberio infatti non si svincolò mai del tutto da una sorta di sudditanza nei confronti della madre (un caso quasi psicoanalitico) e Seiano da parte sua, non si arrischiò mai a tentare di minacciare l’influenza di Livia. L’eliminazione di Agrippina e dei suoi figli era ora lo scopo principale di Seiano, che aveva i suoi progetti ambiziosi da perseguire, come si evince dalla sua vita; alla fine ottenne dal tiranno la ricompensa che gli spettava: una morte ignominiosa.
Vecchiaia e dissolutezza
Nel 32 d.C. fu giustiziato Latinius Latiaris, l’infame accusatore di Sabino. Cotta Messalino, una nota canaglia, fu accusato a sua volta davanti ai Senatori, ma Tiberio scrisse loro in suo favore. Questa memorabile lettera (Tac. Ann. 4.6) inizia con un’ammissione, la cui verità non sorprenderà nessuno; ma è alquanto singolare che un dissimulatore così profondo come Tiberio non sia riuscito a tenere per sé la consapevolezza della propria miseria:
“Cosa scrivervi, Padri Coscritti, o come scrivervi, non lo so; e cosa non dirvi in questo momento, che tutti gli dei e le dee mi tormentino più di quanto io senta di soffrire ogni giorno, se lo so”.
Questo abile tiranno sapeva come sottomettersi a ciò che non poteva evitare: M. Terenzio fu accusato davanti al senato di essere amico di Seiano, ed egli lo dichiarò coraggiosamente. Fu proprio questa sua audacia a salvarlo dalla morte, i suoi accusatori furono puniti e Tiberio approvò l’assoluzione di Terenzio (D. C. 58.19). L’imperatore, inoltre, prudentemente non si curò di un insulto ricevuto da L. Seiano (da non confondere con Elio Seiano, prefetto del pretorio di cui abbiamo già parlato, e del quale era forse parente), il cui scopo era quello di mettere in ridicolo la sua stessa persona.
Tiberio quindi lasciò il suo ritiro per la Campania e giunse fino ai suoi giardini sul Vaticano; ma non entrò in città e pose dei soldati per impedire che qualcuno si avvicinasse a lui. La vecchiaia e la dissolutezza avevano piegato il suo corpo e coperto il suo volto di orribili macchie che lo rendevano ancora più restio a mostrarsi in pubblico. Il gusto per i piaceri, sembra anche perversi, che cresceva in lui, lo portava a coltivare ancora di più la solitudine.
Scoppia la bolla economica dei crediti
Uno dei consoli dell’anno 33 d.C. fu Serv. Sulpicio Galba, che poi diverrà imperatore. In quell’anno un gran numero di informatori fece pressione per perseguire coloro che avevano prestato denaro in contrasto con una legge del dittatore Cesare. I Romani non riuscirono mai a capire che il denaro doveva essere trattato come una merce, e fin dai tempi delle Dodici Tavole avevano sempre interferito con il libero commercio del denaro, senza successo.
La legge di Cesare fu applicata, ma poiché molti senatori l’avevano violata, furono concessi diciotto mesi alle persone per sistemare i loro affari, in modo da liberarsi dalle sanzioni previste della lex. La conseguenza fu una grande confusione nel mercato monetario, poiché ogni creditore premeva per il pagamento e la gente rischiava la rovina a causa della vendita forzata dei propri beni per far fronte agli impegni assunti. L’imperatore alleviò questo disagio con prestiti di denaro pubblico, su garanzia di terreni e senza interessi. (Tac. Ann. 6.17.)
Il circo delle morti e delle atrocità
La morte di Sesto Mario, un tempo amico di Tiberio, è riportata da Dione Cassio (58.22) come esempio della crudeltà dell’imperatore. Mario aveva una bella figlia, che allontanò per sottrarla agli appetiti sessuali dell’amico. Per questo fu accusato di commercio incestuoso proprio con la figlia e venne messo a morte; l’imperatore si impossessò delle sue miniere d’oro, nonostante fossero state dichiarate di proprietà pubblica. Le prigioni, che erano piene di amici o presunti tali, furono svuotate da un massacro generale di uomini, donne e bambini, i cui corpi furono gettati nel Tevere.
In questo periodo, mentre l’imperatore tornava a Capri, diede in sposa Claudia, figlia di M. Silano, a C. Caesare, figlio di Germanico, un giovane i cui primi anni di vita non promettevano ciò che sarebbe diventato poi : il futuro l’imperatore Caligola. Asinio Gallo, figlio di Asinio Pollione e marito di Vipsania, moglie divorziata di Tiberio, morì quest’anno di fame, volontariamente o per costrizione. Anche Druso, figlio di Germanico, e sua madre Agrippina morirono in questo periodo.
La morte di Agrippina provocò anche quella di Plancina, moglie di Cn. Pisone. Poiché infatti Livia, che la proteggeva, e Agrippina, che le era nemica, erano morte, non c’era più motivo perché la giustizia non facesse il suo corso; tuttavia non si sa quali prove ci fossero contro di lei. Plancina sfuggì comunque alla pubblica esecuzione dandosi volontariamente la morte. (Tac. Ann. 6.26.)
Al tempo di Tiberio era di moda punire sia l’accusato che l’accusatore, e forse, visto come si erano ormai messe le cose, era giusto che fosse così. Abudio Rufo accusò L. Getulico, sotto il quale aveva servito, di aver progettato di dare sua figlia al rampollo di Seiano. Abudio fu bandito dalla città. Getulico che era a quel tempo al comando delle legioni nella Germania superiore, si dice che abbia scritto una lettera a Tiberio contenente una velata minaccia: gli diceva che nel momento in cui un generale a capo di un esercito, dal quale era amato, veniva accusato di qualche colpa davanti all’imperatore, questi non doveva trattarlo come un uomo qualsiasi che si trovasse all’interno delle mura di Roma.
Intanto l’Urbe era ancora teatro di tragici avvenimenti. Vibuleno Agrippa, condotto davanti al Senato, dopo che i soliti delatori ebbero pronunciato accuse contro di lui, prese del veleno nella sala del Senato e morì; tuttavia fu trascinato in prigione e strangolato nonostante fosse già cadavere. Anche Tigrane, un tempo re d’Armenia, che si trovava a Roma, fu accusato e messo a morte. Nello stesso anno (36 d.C.) un incendio a Roma distrusse una parte del Circo adiacente all’Aventino e anche le case sull’Aventino; ma l’imperatore risarcì i proprietari dei beni per l’intero ammontare delle loro perdite.
Tiberio, ormai settantottenne, aveva goduto fino ad allora di buona salute; era solito ridere dei medici e ridicolizzare coloro che, dopo aver raggiunto l’età di trent’anni, richiedevano il consiglio di specialisti per sapere cosa fosse utile o dannoso per la loro salute. (Tac. Ann. 6.46.)
Morte finta e morte vera
Ma ora venne attaccato da una lenta malattia, che lo colse ad Astura, da dove si recò prima al Circeo e poi a Miseno, per concludere la sua vita nella villa di Lucullo. Nascose le sue sofferenze il più possibile e continuò a mangiare e a concedersi piaceri d’ogni tipo come al solito. Ma Caricle, il suo medico, colse l’occasione per tastare il polso al vecchio e disse a chi lo circondava che non avrebbe resistito due giorni.
Non era ancora stato nominato un successore. Tiberio aveva un nipote, Tiberio Nerone Gemello, che aveva solo diciassette anni ed era troppo giovane per dirigere gli affari dello stato. Caio, figlio di Germanico, era più anziano e amato dal popolo, ma a Tiberio non piaceva. Pensò a Claudio, fratello di Germanico, come successore, ma Claudio sembrava inetto. Di conseguenza, dice Tacito, non fece alcuna dichiarazione di volontà, ma lasciò che fosse il destino a determinare il suo successore. Dione Cassio scrive invece (58.23) che nominò C. Caligola, perché conosceva il suo cattivo carattere; ma questa è solo un’affermazione di Dione.
Svetonio (Suet. Tib. 100.76) sostiene che due anni prima di morire fece un testamento in cui istituì Caio e Tiberio Gemello suoi coeredi, con sostituzione reciproca; questo testamento potrebbe essere stata una disposizione dell’impero oltre che per i suoi beni privati. Caio aveva da tempo messo in atto tutti i suoi stratagemmi per conquistare il favore dell’imperatore e anche quello di Macrone, che era ormai onnipotente presso il sovrano. Sembra che Tiberio non amasse certo Caio e che, se fosse vissuto più a lungo, lo avrebbe probabilmente messo a morte, consegnando l’impero invece al nipote.
Il sedici marzo del 37 d.C., Tiberio ebbe uno svenimento e fu dato per morto; Caio si presentò e fu salutato come imperatore, ma fu allarmato dalla notizia che Tiberio si era ripreso e che aveva chiesto qualcosa da mangiare. Caio era così spaventato che non sapeva cosa fare e si aspettava di essere messo a morte; ma Macrone, con maggiore presenza di spirito, diede ordine soffocare Tiberio sotto un cumulo di coperte e di lasciarlo agonizzare. Alla fine il vecchio imperatore finalmente spirò.
Sic transit…
Così Tiberio terminò la sua vita. Svetonio, citando Seneca, dà un resoconto un po’ diverso della sua morte.
“Intanto, avendo letto negli Atti del Senato che erano stati rilasciati senza nemmeno essere ascoltati alcuni imputati, a proposito dei quali egli aveva scritto succintamente soltanto il fatto che erano stati nominati da un delatore, furibondo di essere stato disprezzato, decise di ritornare ad ogni costo a Capri, poiché difficilmente avrebbe osato qualcosa se non dal suo rifugio sicuro. Ma trattenuto dal cattivo tempo e dall’aggravarsi della malattia, morì poco dopo nella villa già appartenuta a Lucullo, a settantasette anni, nel ventitreesimo anno d’impero, il 16 marzo sotto i consoli Gneo Acerronio Proculo e Gaio Ponzio Nigrino.
C’è chi crede che gli fu propinato da Gaio un veleno lento e devastatore; altri, che in un momento in cui la febbre era calata, gli fu negato il cibo che egli chiedeva; altri ancóra, che fu soffocato con un cuscino, quando, dopo che gli era stato tolto l’anello in un momento in cui aveva perso conoscenza, egli, ripresosi, chiese di riaverlo.
Seneca scrive che Tiberio, rendendosi conto che stava per morire, si tolse l’anello e lo tenne per un po’ in mano come se intendesse consegnarlo a qualcuno, poi se lo rimise al dito e, tenendo chiusa la mano sinistra, giacque a lungo così, immobile; poi, improvvisamente, chiamò i servi, e poiché nessuno gli rispondeva, si alzò e, venutegli meno le forze, crollò non lontano dal letto.”
Svetonio – Vite dei dodici Cesari (trad. Francesco Casorati) Tiberio regnò ventidue anni, sei mesi e ventisei giorni. Il suo corpo fu portato a Roma e la cerimonia funebre si svolse con la consueta pompa. Il suo successore Caligola pronunciò l’orazione commemorativa, ma parlò meno di Tiberio che di Augusto, di Germanico e di sé stesso.
Tiberio non ricevette onori divini, come Augusto. Tacito (Tac. Ann. 6.51) descrive in poche parole il suo carattere, la cui vera natura si manifestò solo quando fu liberato da ogni vincolo. Probabilmente era uno di quegli uomini che, in una posizione privata, avrebbero potuto essere buoni come lo sono la maggior parte delle persone, perché è in realtà una fortuna per l’umanità che pochi abbiano l’opportunità di ottenere un potere illimitato con tutte le tentazioni che questo offre.
Al tempo di Tiberio vissero Valerio Massimo, Velleio Patercolo, Fedro, Fenestella e Strabone; ma anche il giurista Massurio Sabino, M. Cocceio Nerva e altri.
Tiberio scrisse un breve autobiografia (Sueton. Tiber. 100.61), l’unico libro che l’imperatore Domiziano studiò: Svetonio lo utilizzò per scrivere la propria biografia di Tiberio, servendosi anche di varie lettere di Tiberio stesso a dei principi e ad altre persone, e delle sue Orationes al Senato. Tiberio tenne infatti diverse orazioni pubbliche, come quella in onore di suo padre, pronunciata quando aveva nove anni, ma dobbiamo supporre che sia stata scritta invece da qualcun altro; scrisse anche l’orazione funebre di Augusto; quella su Maroboduus, pronunciata davanti al senato nel 19 d.C. che circolava ancora al tempo di Tacito (Ann. 2.63). Tiberio compose anche delle poesie in greco e una lirica sulla morte di L. Cesare.
Le ville inimitabili di Tiberio
Nonostante il suo carattere ombroso, Tiberio era un esteta gaudente e decadente, un amante del lusso e dell’ostentazione, sebbene prediligesse la solitudine e l’isolamento. Questo aspetto del suo carattere ci viene rivelato dalle due ville sfarzose che si fece costruire, una a Sperlonga, dove in una grotta fu rinvenuto anche il magnifico gruppo scultoreo ispirato all’Odissea che l’imperatore fece erigere, e quella ancora più splendida e leggendaria di Capri. Probabilmente solo i magnati dell’industria e dell’alta finanza dei nostri tempi o il D’Annunzio del Vittoriale, possono gareggiare con tanta megalomania
La villa di Tiberio a Sperlonga
La villa di Tiberio a Sperlonga era una grande villa romana, appartenuta appunto nel I secolo all’imperatore romano Tiberio; si trova appunto nel comune di Sperlonga, in provincia di Latina, (l’antico Latium adiectum). L’imperatore vi risiedette dal 14 al 27, anno in cui si trasferì poi a Villa Jovis a Capri.
I resti della villa sono stati in gran parte erosi dal mare. Ma anche così, rimangono alcune sottostrutture e una grotta dove sono state scoperte alcune sculture.
La villa fu fatta costruire da Tiberio nell’anno 4 d.C. in un luogo dove la famiglia di sua madre, Livia Drusilla, possedeva una proprietà. Qui si svolse probabilmente l’episodio narrato da Svetonio e Tacito: nel 26 Seiano salvò la vita all’imperatore, proteggendolo con il suo corpo, durante un incidente in cui franarono alcune pietre durante un banchetto, e che uccisero alcuni servi. Sin dalla sua costruzione la villa fu adornata con altre opere scultoree, che vennero arricchite alla fine del periodo tardo imperiale.
La villa fu definita una “spettacolare decorazione marittima”, con un triclinio costruito su un podio davanti alla grotta principale, al centro di una laguna. Un colonnato veniva utilizzato per arrivarci in barca.
C’erano due piscine di fronte alla grotta, una rettangolare e l’altra circolare. Una pietra era scolpita a forma di imbarcazione e portava il nome della nave Argo.
Nella grotta principale si trovano citazioni di episodi dell’Odissea. Ci sono due stanze in questa grotta. Una grotta secondaria aveva il pavimento in marmo e fungeva da sala da pranzo.
Villa Jupiter a Capri
Villa Jupiter o Villa Jovis (“Villa di Giove“) è un palazzo romano situato a Capri, fatto costruire dall’imperatore Tiberio e completato nel 27 d.C. Tiberio governò Roma principalmente da questa reggia fino alla sua morte nel 37 d.C.
Villa Jovis è la più grande delle dodici ville tiberiane capresi citate da Tacito. L’intero complesso, che si estende su più terrazze e un dislivello di circa 40 m, copre circa 7.000 m² (1,7 acri). Mentre i restanti otto livelli di mura e scale denotano solo l’imponenza che l’edificio avrebbe dovuto avere a suo tempo. Recenti ricostruzioni hanno dimostrato che la villa è una notevole testimonianza dell’architettura romana del I secolo.
Oggi, in gran parte distrutta, è caratterizzata da una massiccia costruzione a pianta quadrata in muratura di opus reticulatum in tufo flegreo risalente al secolo di Augusto, poi in opus incertum in calcare locale, alternativamente di terracotta, modificata all’epoca di Tiberio.
L’Insieme della struttura dell’edificio, copre diversi terrazzi di 7.000 m² (sotto i quaranta metri) a cui devono essere aggiunti oltre 13.000 m² di giardini e ninfee. Il complesso imperiale è incentrato su un importante impluvium costituito, tra l’altro, da quattro grandi cisterne con una capacità di oltre 8.000 m³. Le ali nord ed est dell’edificio ospitavano gli appartamenti privati dell’imperatore, sulla costa occidentale, su tre livelli, c’erano gli ambienti della servitù, mentre l’ala sud ospitava lo spazio termale. Più a sud, isolata dal paese, si erge la torre faro, utilizzata indubbiamente per le comunicazioni tramite segnali visivi con la flotta imperiale di base a Miseno.
Vicino al paese si trova anche il luogo del famoso “Salto di Tiberio”, sulla sommità della rupe dove, secondo la leggenda popolare, l’imperatore avrebbe gettato gli schiavi e gli ospiti troppo sgraditi.
Nel corso dei secoli, il sito è stato spogliato di tutti i suoi elementi architettonici per decorare palazzi reali e sale museali. Nel 1937, sotto la direzione di Amedeo Maiuri, fu condotta una campagna di scavi archeologici.
Apparentemente le motivazioni principali per il trasferimento di Tiberio da Roma a Capri, furono la sua diffidenza nei confronti delle manovre politiche a Roma e un persistente timore di essere assassinato. Il complessoo è situato in un punto molto isolato dell’isola e le caserme di Tiberio a nord e ad est del sontuoso complesso erano particolarmente difficili da raggiungere e fortemente sorvegliate.
Villa Jovis è anche, almeno secondo Svetonio, il luogo in cui Tiberio si abbandonò ad una vita di piaceri e selvaggia dissolutezza. Gli storici moderni considerano questi racconti puro sensazionalismo, ma essi ci illustrano almeno un quadro di come la figura di Tiberio fosse percepita dal popolo romano all’epoca.
(Libero adattamento e rimaneggiamento da A Dictionary of Greek and Roman biography and mythology William Smith, 1848, con aggiunte e integrazioni)
Nel prossimo episodio – > : Caligola (Gaio Giulio Cesare Augusto Germanico, 31 agosto 12 – 24 gennaio 41) fu il terzo imperatore romano. Regnò a partire dal 37 d.C. Dopo soli quattro anni, fu assassinato dai membri della sua guardia del corpo, del Senato romano e della corte imperiale. Dopo la morte di Caligola, i cospiratori cercarono di riportare in vita la Repubblica romana, ma senza successo. La Guardia Pretoriana dichiarò imperatore lo zio di Caligola, Claudio, al suo posto.Durante il regno di Caligola, molte persone innocenti furono uccise senza un giusto processo. Nonostante tutto ciò, fu popolare tra il pubblico romano del suo tempo.