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LA TRAGEDIA GRECA

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Rilievo con maschere teatrali
Rilievo con maschere teatrali

Le origini del teatro greco

Fin dall’inizio, il teatro greco è stato uno spettacolo religioso di portata nazionale. Ecco come ne parla Victor Hugo, nella sua Prefazione al Cromwell:

Il teatro degli antichi è, come il loro dramma, grandioso, solenne, epico. Può contenere trentamila spettatori; si recita all’aperto, in pieno sole; le rappresentazioni durano tutto il giorno. Gli attori alzano la voce, mascherano i loro lineamenti, aumentano la loro statura;

Diventano giganti, come i loro ruoli […] Architettura e poesia, tutto ha un carattere monumentale.

Tragedia, commedia, dramma satirico

"Il destino dei mortali è crudele. È meglio abituarsi ad esso".
- Euripide, "Medea"
“Il destino dei mortali è crudele. È meglio abituarsi ad esso”. – Euripide, “Medea”

Etimologicamente, la parola tragedia significa “canto del capro”. Sappiamo che i cantori di ditirambi travestiti da satiri (compagni di Dioniso) erano rappresentati come uomini dai piedi caprini.

La parola commedia si riferisce al canto dei comos, un corteo di allegri festaioli.

Il dramma satiresco, un genere che secondo alcuni ha avuto origine con le prime rappresentazioni teatrali, mentre altri lo attribuiscono a un’origine molto più recente, presenta un coro sempre composto da satiri, con code e orecchie da cavallo, guidati da Sileno. Il soggetto è un episodio mitologico, di solito legato alle tragedie che lo precedono nella trilogia presentata alle competizioni teatrali. Ma il tono è burlesco, persino grossolano, sia nelle parole che nei gesti

 

La tragedia: tra lacrime e punizioni…

La tragedia è la forma principale del teatro greco. Apparso già nel 550 aC, verrebbe da inni tradizionali che i greci intonavano durante le feste religiose. Questi inni conosciuti come ditirambi (inni appassionati in onore di Dioniso) erano basati su temi mitologici e religiosi cantati da un unico personaggio. Poi una seconda voce si è unita alla prima per dargli la risposta, trasformando il monologo in un dialogo. Gli inizi di un dramma vero e proprio ora c’erano davvero, se dobbiamo credere ad Aristotele e soprattutto a un testo del grammatico Polluce (II secolo dC), i poeti dell’Attica eliminarono gradualmente le scene buffonesche e diedero alla tragedia il fascino maestoso che avrebbe assunto nei secoli successivi. La più antica delle opere teatrali del repertorio greco è I persiani di Eschilo, datato nel 472 a.C.

La tragedia greca comprende parti liriche o cantate dal coro e parti dialogate (ma sempre con una dizione ritmica, grazie all’accompagnamento musicale del flauto).

Lo schema delle cinque parti dialogate è all’origine dei cinque atti della tragedia classica: ma questi atti erano molto disuguali (da 30 a 500 versi).

Le parti del dialogo – il prologo o l’esposizione, gli episodi o gli atti, l’exodos o uscita o epilogo, sono detti dagli attori da soli o durante un dialogo tra un attore e il capo del coro, il corypheus.

Le parti cantate sono cantate da tutto il coro, o da questo e dal corifeo in eco, o talvolta dal coro e da un attore.

Le prime tragedie

Ricostruzione di un teatro antico
Ricostruzione di un teatro antico

Sappiamo molto poco dei predecessori dei tre grandi tragici greci, Eschilo, Sofocle ed Euripide, per presentarli in ordine cronologico. Secondo Suida, un certo Epigene di Sicione sarebbe stato “il primo autore di tragedie”. Si ritiene piuttosto, che sia stato Tespi il vero padre della tragedia, che ritroviamo al culmine della sua gloria intorno al 534 aC, all’epoca della creazione delle grandi gare tragiche. Viene spesso rappresentato su un leggendario carro che lo conduce di demo in demo, di villaggio in villaggio.

È a Pratina di Fliunte si attribuisce il merito di aver introdotto il dramma satiresco ad Atene..

Aristofane nella commedia Gli uccelli , parlare de “l’ambrosia delle melodie di cui Frinico [l’immediato predecessore di Eschilo], come un’ape, distillava il succo, cantando sempre con voce soave”. Secondo Erodoto, sarebbe riuscito a far piangere l’intero teatro di Atene dopo la sua rappresentazione della Presa di Mileto, suonato intorno al 492 a.C.

Tre eccezionali autori tragici

Ritratti dei tre più grandi drammaturghi dell'antichità: Eschilo, Sofocle, Euripide
Ritratti dei tre più grandi drammaturghi dell’antichità: Eschilo, Sofocle, Euripide

La “nascita della tragedia greca”, per usare l’espressione di Nietzsche, ebbe luogo ad Atene, teatro di una congiunzione unica di geni assoluti. Eschilo, Sofocle ed Euripide, ciascuno nel proprio genere, incarnarono lirismo, nobiltà ed emozione.

Eschilo

Ed era un soldato fedele, questo Eschilo
la cui tomba non dice una parola, secondo i suoi desideri:
Era ben noto ai Medi dai capelli lunghi.

Nutritosi dei versi di Omero e cresciuto presso il santuario delle due dee di Eleusi (Core e Demetra), Eschilo partecipava alle gare tragiche molto volentieri. È stato infatti molto spesso incoronato vincitore in esse. Questo Eupatride, nato nel 525 a.C., diede grandezza al proprio teatro, dominato da una fatalità travolgente e da un’ira divina chiamata “nemesi”.

Per dare un’idea del tono religioso del suo teatro, rileggiamo l’incipit della sua tragedia Le Eumenidi, dove la Pizia parla così:

La mia preghiera invoca colei che tra gli dei pronunciò i primi oracoli, Gaia (la Terra); dopo la sua Themis […]

A questo si aggiunge l’orgoglio nazionale; Eschilo fa intonare per bocca del nemico vinto la lode del popolo vincitore:

“Per il numero delle navi, nostra
la vittoria sarebbe stata, perché
i Greci ne avevano trecento,
oltre a un’altra decina di speciali,
quelle di Serse erano un migliaio,
duecento delle quali assai veloci.
Un demone ha distrutto nostra flotta
per far salva la città di Pallade»

I persiani

Immagine da I Persiani di Eschilo, video della Open University
Immagine da I Persiani di Eschilo, video della Open University

Lo stesso Eschilo combatté a Maratona. Nel 472 a.C. egli scrisse  il dramma che raffigura la lotta tra i persiani e gli ateniesi. Pur essendo di nazionalità greca, Eschilo riesce a rappresentare i persiani con una certa empatia, soprattutto quando il coro parla di Dario, loro re:

Ahimé! Quando Dario, il nostro vecchio monarca onnipotente, innocente e invincibile, governava la Persia, conoscevamo gloria, felicità e armonia. Poi, abbiamo iniziato a formare eserciti, incaricati di amministrare imponenti città-stato […].

La tragedia di Eschilo è poco movimentata. Tuttavia è animata da un grande respiro epico, contemporanea com’è alle gloriose vittorie di Atene. La sua struttura è ancora semplice, ma in essa emergono già grandi passioni, lontane da ogni complicazione psicologica.

Sofocle

Edipo re, Figurina Liebig
Edipo re, Figurina Liebig

Questo ateniese nacque nel demo di Colono, intorno al 495 a.C. da una famiglia benestante.

Sofocle ha cercato di conciliare le antiche tradizioni del teatro antico con le esigenze della sua coscienza. I temi del suo teatro riguarda la moralità. L’atto materiale è nulla, la volontà fa tutto. La nobiltà di un Neottolemo nel suo Filottete, la pietà filiale di un’Antigone che difende una legge morale imprescrittibile che ella afferma essere superiore agli ingiusti decreti dei tiranni, ne fanno una paladina di una concezione alta del dovere e dell’elevazione dei sentimenti.

Edipo re non può che ispirare in noi un “orrore sacro”, il successivo Edipo a Colono riconcilia tradizioni religiose e aspirazioni morali senza violenza, perché Sofocle ha fede nella giustizia divina.

Con una calma olimpica, porta nelle sue rappresentazioni, qualunque sia il soggetto, la magnificenza della sua poesia. Il suo linguaggio elegante lo distingue da tutti gli altri drammaturghi.

Euripide

L'addio di Medea, incisione dal quadro di Anselm Feuerbach
L’addio di Medea, incisione dal quadro di Anselm Feuerbach

Nato a Salamina, intorno al 480 a.C., questo figlio di gente umile (padre locandiere, madre commerciante di ortaggi) fu comunque educato “alla musica e alla ginnastica”. Gareggiò per la prima volta nel 455 a.C., ottenendo il suo primo successo solo quindici anni dopo, e poi vinse solo cinque volte, l’ultima delle quali postuma.

Condusse una vita ritirata, dedicata allo studio ed è stato uno dei primi teniesi a possedere una propria biblioteca.

In amore, collezionò ben due fallimenti. Basta questo per spiegare che quasi tutto il suo teatro che sviluppa il tema dell’amore infelice con estrema sensibilità?

Il tono delle sue tragedie rasenta l’amarezza – non fa dire forse  alle Troiane: Il dolore segue il dolore? – o addirittura la mancanza di rispetto per la tradizione e gli dei.

Di lui si è detto che ha superato i suoi predecessori, tanto la pittura della passione trova in lui accenti di rara potenza. La tragedia abbandona con essa la sua antica maestà, ma guadagna in umanità.

Poche tragedie antiche sono sopravvissute. Ecco una breve guida per ricordarne al meglio:

Tragedie: The Greatest Hits

Quasi tutte le più grandi tragedie greche sono sopravvissute fino a noi. Ecco una guida approssimativa su alcune delle migliori da approfondire:

 

La tragedia o la Soap opera dell’antichità

Due grandi famiglie condividono il paesaggio mitologico dell’Antichità: i Labdacidi sono i discendenti del signore Labdaco, mentre gli Atridi hanno come antenato Atreo. La prima appartiene alla leggenda beota, la seconda a quella tebana.

Gli Atridi: parenti, serpenti

Albero genealogico degli Atridi (da Wikipedia)
Albero genealogico degli Atridi (da Wikipedia)

Nella prolungata assenza del marito Agamennone, partito per la guerra di Troia, Clitennestra si lasciò sedurre da Egisto. Al ritorno del vittorioso generale, tutto coronato della sua gloria e accompagnato dalla schiava Cassandra, Egisto riesce a convincere Clitennestra a liberarsi del marito per fargli pagare il sacrificio della figlia Ifigenia, nonché i suoi slanci d’amore. Rossa del sangue della sua vittima, assassinata nel suo bagno, Clitennestra è quasi orgogliosa di questo delitto. Sua figlia Elettra se la prende con lei e aspira solo alla vendetta.

In Sofocle, Elettra dà sfogo in presenza di sua madre al proprio odio:

Ma tu non sei una madre per me, sei un tiranno, e io trascino una vita dolorosa, in mezzo ai mali con cui entrambi mi colpite. […] Dopodiché proclama ovunque che sono un’ingrata, una lingua di vipera, un’impudente: se queste sono le mie qualità, evidentemente ho qualcosa a cui aggrapparmi.

In Eschilo, Oreste, fratello di Elettra, si prepara a uccidere sua madre:

 

Clitennestra: Fermati, figlio mio! Rispetta questo seno sul quale ti sei spesso addormentato mentre succhiavi il latte nutriente tra le labbra. […]

– Oreste: Seguimi, voglio tagliarti la gola vicino a lui [Egisto]; vivo, lo hai preferito a mio padre: vai a dormire con lui nella morte, poiché lui, tu lo ami, e colui che avresti dovuto amare, lo odi.

 

(Le Coefore)

Crudele ma giusta vendetta dopo l’assassinio di un consorte, padre di famiglia. Ma stanno davvero così le cose? Perché che direte, quando saprete che Agamennone voleva sacrificare sua figlia, Ifigenia, che Euripide rappresenta, condotto all’altare di Aulide:

 

Ifigenia: Stai versando lacrime, stanno scorrendo dai tuoi occhi!

Agamennone : Sì, perché la separazione che seguirà è lunga!

(Ifigenia in Aulide)

 

Che ne è della famiglia? I giovani assumono il ruolo di testimoni in un universo spietato!

In molte delle sue tragedie, Euripide descrive i legami travagliati che uniscono – e lacerano – i membri di questa famiglia. Tuttavia, offre anche di essi un doppio ritratto che consente ai genitori di riabilitarsi ai nostri occhi. Si può dire che il grande e glorioso Agamennone sia un re irreprensibile? E sua moglie, Clitennestra, l’adultera, non ha delle attenuanti? Nulla è tutto bianco o tutto nero.

I Labdacidi, una famiglia davvero maledetta

Genealogia dei Labdacidi (da Wikipedia)
Genealogia dei Labdacidi (da Wikipedia, clicca sull’immagine per ingrandire)

Edipo, un caso complesso

Edipo e la sfinge, François-Xavier Fabre
Edipo e la sfinge, François-Xavier Fabre

Indiscutibilmente, il dramma più famoso del repertorio greco, che dobbiamo a Sofocle, è Edipo Re. Per Aristotele fu la tragedia più esemplare mai scritta, soprattutto per la sua costruzione.

Ecco la storia di questo re di Tebe:

Edipo, bambino molto piccolo, deve lasciare la città di Tebe: infatti, un oracolo annunciò ai suoi genitori che egli avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre. I suoi genitori quindi lo fecero esporre sul monte Citerone, proprio per sbarazzarsi di lui. Ma passa un pastore, lo prende e lo porta alla corte del re di Corinto.

Edipo, divenuto adolescente, venuto a conoscenza dell’oracolo, decide di lasciare Corinto per paura di compiere il suo disastroso destino. Qui, sulla sua strada, incontra suo padre senza saperlo. Nasce un banale litigio sul diritto di precedenza stradale… ne segue una lite ed Edipo uccide colui uno sconosciuto!

Arrivato alla città di Tebe, riesca a risolvere l’enigma della Sfinge che tanto atterrisce le popolazioni: al prezzo di questa impresa sposa la regina Giocasta, che altri non è che sua madre e diventa a sua volta re.

L’enigma della sfinge

La Sfinge, mostro dal corpo leonino e la testa umana
La Sfinge, mostro dal corpo leonino e la testa umana

Questo mostro favoloso, di cui non sappiamo se sia uomo o donna, è il più delle volte rappresentato con il corpo di leone, le ali di aquila, la coda di drago, una testa e seni di donna. Non siamo sicuri del suo pedigree: deve essere nata da qualche creatura spaventosa, Echidna la vipera o Chimera la sputafuoco. Discendenza maledetta, sicuramente.

All’ingresso di Tebe, essa sottoponeva tutti i passanti al seguente indovinello: “Cos’è che cammina su quattro zampe al mattino, su due a mezzogiorno e su tre la sera? » e divorava tutti quelli che facevano scena muta. Edipo non dovette riflettere molto prima di trovare la risposta: è l’uomo alle tre età della sua vita: egli infatti cammina gattoni, a quattro zampe, quando è in fasce, su de gambe quando è nella maturità e su tre, i suoi piedi più il bastone, quando è nella vecchiaia. Disperata, la Sfinge si suicidò e i grati Tebani offrirono a Edipo la regalità e come bonus la regina in sposa…

Ma ecco che Tebe è afflitta da una terribile pestilenza. Edipo manda il suo veggente Tiresia a consultare l’oracolo di Delfi: la risposta è che egli deve punire l’assassino del re Laio.

Edipo scopre di aver ucciso lui stesso per strada Laio, suo padre, quella volta che litigò per strada con uno sconosciuto per un diritto di precedenza ad un incrocio: lo sconosciuto era Laio! E si rende conto che ha sposato sua madre, dalla quale ha avuto ben quattro figli. Sopraffatto dal dolore, Edipo si cava gli occhi per non vedere in faccia la terribile realtà e pronuncia queste parole che sono diventate famose:

Oh Dei! Oh dei! Tutto è vero e deve essere conosciuto! Rendi questo giorno l’ultimo che vedo la luce del giorno. Maledetti i miei genitori! Maledetto sia il mio matrimonio! Maledetto il sangue che ho versato!

Peggio ancora: la sventura di Edipo verrà trasmessa alla generazione successiva; tutto resta più che mai in famiglia:

Ho generato figli che erano miei fratelli, e li ho fatti perire sotto le maledizioni ereditate da Laio e trasmesse ai miei figli.

Era previsto che i suoi due figli, Eteocle e Polinice, regnassero alternativamente sulla città di Tebe. Eteocle, il primo, rifiuterà questa spartizione e scaccerà Polinice, che tornerà ad assediare Tebe con sei re alleati. La macchina infernale è in movimento. Non importa quanto Giocasta faccia per riconciliare i suoi due figli, l’ultima possibilità di colloquio si trasformerà in uno scontro.

Polinice: Mi metterò davanti a te per ucciderti.

Eteocle: Lo stesso desiderio abita in me.

Giocasta: Infelice che sono! Cosa avete intenzione di fare, figli miei?

Polinice: I fatti lo dimostreranno.

Giocasta: Perché non fuggi dalle Erinni di un padre?

Eteocle: Perisca tutta la casa!

E l’intera famiglia a morire! Giocasta si impiccherà per la disperazione. I due fratelli si uccideranno a vicenda. Edipo vagherà a lungo prima di terminare il suo viaggio a Colono, dove Antigone ha condotto quel vecchio smarrito dai capelli bianchi!

EdipoRe dimostra che gli esseri umani non possono sfuggire a ciò che sono e soprattutto non al destino che li travolge. La “colpa tragica ” di Edipo risiede nell’orgoglio e nell’arroganza che gli hanno impedito di ascoltare gli avvertimenti degli altri. A differenza di Edipo, tuttavia, Oreste alla fine viene purificato dai suoi crimini e la maledizione finisce con lui.

Nomen, Omen: Nome, presagio

C’è un detto latino che, giocando sulla paronimia dei due termini, attribuisce al nome un influsso sul destino di chi lo porta.

Il nome stesso di Edipo, significa “colui che ha i piedi gonfi”, non designa forse l’infermità che rivela la sua passaggio ? Altri prendono in considerazione una etimologia più favorevole e lusinghiera: “colui che sa” – alludendo alla sua soluzione dell’enigma, ma pur sapendo egli è “inconsapevole”, dirà più tardi Freud, del destino che gli è toccato.

In questa luce, Eteocle è “l’uomo che è la vera gloria”, mentre Polinice è “colui che fa molti cadaveri”, Antigone “colei che è nata contro”. E Aiace, tanto per cambiare famiglia, è colui  che esclama Aaaah (“Ahimè”): “Chi avrebbe mai pensato che questo nome rispondesse così bene ai mali a me riservati? »

L’ ironia tragica

Maschera teatrale greca
Maschera teatrale greca

Noi chiamiamo ironia tragica il fatto che un personaggio non capisca il significato delle parole che pronuncia o che sente dire. Si distinguono anche tra due tipi di ironia tragica:

L’ironia tragica eschilea: l’esempio più noto di questa è Medea che racconta ai suoi figli un’altra vita, sapendo che sta per ucciderli. Solo Medea è consapevole del significato da dare alle sue parole, a differenza dei suoi figli.

L’ironia tragica Sofocle: Edipo scaglia contro sè stesso inconsapevolmente delle maledizioni, sua moglie Giocasta si prende gioco di oracoli che si stanno già avverando. Nessuno dei personaggi controlla le proprie parole; solo lo spettatore può comprenderne il vero significato, da qui la sua superiorità sugli attori del dramma.

La struttura della tragedia

Ecco la famosa definizione data da Aristotele nella Poetica:

La tragedia è dunque imitazione di una azione nobile e compiuta, avente grandezza, in un linguaggio adorno in modo specificamente diverso per ciascuna delle parti, di persone che agiscono e non per mezzo di narrazione, la quale per mezzo della pietà e del terrore finisce con l’effettuare la purificazione di cosiffatte passioni.

Le molle psicologiche tradizionali sono il terrore e la pietà, ma soprattutto, la catarsi, o purificazione delle passioni, dal greco kathairein, “pulire”, “purificare”. Lo spettatore viene a teatro per impressionarsi suo malgrado. La virtù terapeutica del teatro è liberare gli affetti e liberarne definitivamente lo spettatore. Gli viene dato un esempio dei conflitti umani per meglio comprenderli nei personaggi. L’anima turbata raggiunge così la calma.

Un’altra parola chiave in questa definizione è il termine azione. Anche se Aristotele presenta sei parti costitutive della tragedia: “la favola, i personaggi, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e il canto”, prosegue in questi termini:

È necessario dunque che le parti dell’intera tragedia siano sei, a seconda delle quali la tragedia viene ad essere qualificata, e queste sono il racconto, i caratteri, l’elocuzione, il pensiero, lo spettacolo e la musica. Due di queste parti infatti sono i mezzi con cui si imita, una il modo in cui si imita, tre gli oggetti che vengono imitati, ed oltre a queste non ce n’è più nessuna. Di queste differenze specifiche in generale non pochi di essi hanno fatto uso, e infatti il tutto contiene spettacolo, carattere, racconto, elocuzione, canto e pensiero allo stesso modo.

Ma la parte più importante di tutte è la composizione delle azioni. La tragedia infatti è imitazione non di uomini ma di azioni e di un’esistenza, e dunque non è che i personaggi agiscono per rappresentare i caratteri, ma a causa delle azioni includono anche i caratteri, cosicché le azioni e il racconto costituiscono il fine nella tragedia, e il fine è di tutte le cose quella più importante. 

“La più importante di queste parti è l’insieme delle azioni compiute, perché la tragedia non imita gli uomini, ma un’azione e la vita, la felicità e la disgrazia […] e la principale fonte di piacere per l’animo dello spettatore è nelle parti della favola, cioè i colpi di scena e i riconoscimenti.

Rappresentazione moderna della Medea di Euripide
Rappresentazione moderna della Medea di Euripide

Possiamo contare diverse primavere drammatiche nell’antica tragedia:

L’ attesa; la gratitudine; il confronto; L’intervento divino.

Ecco alcuni esempi notevoli:

L’attesa

Come quella del guardiano nel dramma di Eschilo, Agamennone. I capi greci sono partiti da tempo per assediare la città di Troia, sotto il comando del re di Argo, Agamennone. Un segnale luminoso deve annunciare la notizia della vittoria. Una sentinella veglia ogni notte, per ordine della regina Clitennestra, la tanto attesa e temuta luce allo stesso tempo.

 

Dèi, vi chiedo: sollievo da questo mio soffrire! Un anno intero, lungo, di guardia. Notti bianche, qui sul castello dei figli di Atreo, rannicchiato, da cane. Ormai, distinguo l’adunarsi di stelle nel buio: queste che portano gelo sul mondo, altre calura, sovrane di luce che vibrano vive nell’aria. Vicenda di stelle, tramonti e levate. Così monto la guardia all’avviso di luce, lama di fuoco che trasmette notizia da Troia, e squillo di conquista. L’ordina cuore di donna: da uomo decide, fremente. E quando mi stendo quassù, sul mio covo di brina – notti sconvolte, senza affacciarsi di sogni; invece del sonno mi fa da scudiera l’angoscia che le palpebre piombino ferme nel sonno – io canto, se voglio, note basse, tra i denti – stemperando un motivo combatto il sopore – e allora singhiozzo, piango il destino di questo palazzo: non è retto col polso d’un tempo. Se in quest’istante avvenisse felice sollievo al mio soffrire… balenare di fuoco, gioioso corriere nell’ombra.

La gratitudine

Un solo esempio basterà ai fini del caso: la scena del riconoscimento tra fratello e sorella, Oreste ed Elettra, modello del genere. Oreste, che si finse morto a Clitennestra ed Egisto, desideroso di infiltrarsi nuovamente nel palazzo, viene a consegnare a Elettra in persona un’urna contenente le sue presunte ceneri. Soccombe al dolore di sua sorella e le confessa la sua identità:

 

ELETTRA:
No: quei che v’era, tu mel rechi in cenere.

ORESTE:
Quanto a vederti io ti compiango, misera!

ELETTRA:
E il solo sei, finor, che mi compianga.

ORESTE:
Perché solo io dei mali tuoi pur soffro.

ELETTRA:
Sei tu, d’onde che sia, mio consanguineo?

ORESTE:
Risponderei, se queste amiche fossero.

ELETTRA:
Amiche sono: a fidi cuori parli.

ORESTE:
Lascia quell’urna, e tutto apprenderai.

ELETTRA:
Ospite, a ciò, pei Numi, non costringermi!

ORESTE:
Fa’ ciò ch’io dico, e tu non sbaglierai

ELETTRA
Non tòrmi ciò ch’ho piú caro, ti supplico!

ORESTE:
Lasciartela non posso.

ELETTRA:
Oh, per te misera
sarò, priva del tumulo d’Oreste.

ORESTE:
Fauste parole di’: ché gemi a torto.

ELETTRA:
Il fratello defunto a torto io gemo?

ORESTE:
Tali parole a te mal si convengono.

ELETTRA:
A tal punto del morto io sono indegna?

ORESTE:
No; ma quell’urna a te non appartiene.

ELETTRA:
Sí, se il corpo ch’io reggo è pur d’Oreste.

ORESTE:
Tranne a parole, no, non è d’Oreste.

ELETTRA:
E dov’è mai la tomba di quel misero?

ORESTE:
Non c’è: tombe di vivi non esistono.

ELETTRA:
Figlio, che dici?

ORESTE:
Il vero, e tutto il vero.

ELETTRA:
Oreste è vivo?

ORESTE:
Se pur vivo io sono.

ELETTRA:
Quello sei tu?

ORESTE:
Questo sigillo guarda
del padre, e vedi s’io ti dico il vero.

ELETTRA:
Oh carissimo giorno!

 

Eschilo ed Euripide rivisitano questa stessa scena. Alla prima Elettra scopre una ciocca di capelli, abbandonata volontariamente dal fratello. Nella seconda, è da una cicatrice vicino al sopracciglio che Elettra riconosce il fratello nascosto sotto le spoglie di uno sconosciuto.

Il confronto

Coro di una tragedia greca
Coro di una tragedia greca

Molto spesso, la dimensione agonistica (da agon “la lotta”) consente al drammaturgo di confrontare l’eroe o l’eroina con forze che sono superiori a lui – gli dei come spesso accade con Eschilo, o esempi di autorità come un re, un indovino, un portavoce degli dei , una madre, ecc.

Edipo contro Tiresia: Nella tragedia di Sofocle, Edipo Re, la peste devasta Tebe. Su consiglio del coro, Edipo decide di convocare il veggente Tiresia. Questa scena di consultazione si trasformerà stranamente in uno scontro.

TIRESIA:

Ahi, ahi! Sapere quanto è duro, quando
a chi sa nulla giova! Io ben sapevo,
ed obliai. Venir qui non dovevo.

ÈDIPO:

Che c’è? Cosí scorato fra noi giungi?

TIRESIA:

Lasciami andare! Ci sarà piú facile
compier cosí tu ed io la nostra sorte.

ÈDIPO:

Non parli giusto; e la città non ami
che ti nutrí, se tal responso neghi.

TIRESIA:

Inopportuno giunge il tuo discorso
anche per te: lo stesso non m’accada.

ÈDIPO:

Tu che sai, per gli Dei, non ti schermire:
c’inginocchiamo tutti innanzi a te!

TIRESIA:

E tutti siete dissennati! I mali
miei non dirò: ché i tuoi svelar dovrei!

ÈDIPO:

Che parli? Sai, ma non vuoi dire, e noi
tradir disegni, e la città distruggere!

TIRESIA:

Né te né me crucciare voglio. A che
dimandi invano? Io nulla ti dirò.

ÈDIPO:

Un cuor di pietra moveresti a sdegno,
tristo fra i tristi! Vuoi dunque parlare?
Non ti commovi? Resti inesorabile?

TIRESIA:

L’ostinatezza mia biasimi! Quella
che alberghi in cuor, non vedi, e me rampogni.

ÈDIPO:

Chi le parole udendo con cui spregi
questa città, non salirebbe in ira?

TIRESIA:

Il male, anche s’io taccio, esito avrà.

ÈDIPO:

Quello che seguirà svelami dunque!

TIRESIA:

Oltre non parlerò! Sappilo, e accenditi,

sin che tu vuoi, dell’ira piú selvaggia.

ÈDIPO:

Nulla posso tacer, tanta ira m’arde,
di ciò che sento. Io penso che il misfatto
abbia tu concepito, ed eseguito,
tranne che di tua man colpire, in tutto!
Ché se avessi la vista, io ben direi
ch’opera di te solo è questo scempio.

TIRESIA:

Davvero? Io d’obbedir t’intimo al bando
ch’ài promulgato, e che da questo giorno
non rivolga parola a me né a questi:
ché tu di Tebe sei l’empia sozzura.

ÈDIPO:

Queste parole spudoratamente
cosí tu lanci; e speri irtene salvo?

TIRESIA:

Salvo già sono! È la mia forza il vero.

ÈDIPO:

Chi te l’apprese? L’arte tua non già!

TIRESIA:

Tu: che contro mia voglia a dir m’hai spinto.

ÈDIPO:

Che mai? Vo’ meglio apprenderlo. Ripetilo!

TIRESIA:

Che mi cimenti a dir? Non hai compreso?

ÈDIPO:

Non tanto ch’io creda sapere. Parla!

TIRESIA:

Dico che tu sei l’uccisor che cerchi.

ÈDIPO:

L’oltraggio addoppi? Ah, non ti farà pro’!

TIRESIA:

Vuoi sdegnarti ancor piú? Ti dico il resto?

ÈDIPO:

Fin che tu vuoi: saran parole al vento!

TIRESIA:

Coi tuoi piú cari in turpe intimità

vivi, e nol sai: né il male ove sei scorgi.

ÈDIPO:

Pensi ancora insultarmi, e andarne lieto?

TIRESIA:

Certo: se pure ha qualche forza il vero

 

Antigone contro Creonte: Cosa sono le leggi umane scritte rispetto alle leggi divine non scritte? Da una parte il potere assoluto e divino, dall’altra il potere politico dei mortali. Dov’è la verità? Antigone deve decidere e affronta suo zio Creonte:

CREONTE: No, quello che odiamo, anche morto, non diventa mai un amico.

ANTIGONE: No, la mia natura non è condividere l’odio ma l’amore.

CREONTE: Allora scendi e amali, se proprio devi amare. Io vivo, non è una donna che mi comanderà.

Antigone contro Ismene: Antigone incontra sua sorella, la timida Ismene. Due sorelle che sono l’uno l’opposto dell’altra: 

SMENE: Non commetterò alcun atto proibito. Sono incapace per natura di infrangere le leggi della città.

ANTIGONE: PUOI seguire questo tuo proposito: io andrò a seppellire il mio carissimo fratello.

ISMENE: AHIMÈ! Povera disgraziata! Quanto temo per te!

ANTIGONE: Non temere più per me: abbi cura di assumere il tuo destino.

L’intervento degli dei

Struttura di una macchina teatrale
Struttura di una macchina teatrale

Molto spesso, questo intervento è un espediente, per risolvere una crisi tragica. I posteri non hanno mantenuto l’espressione greca (ἀπὸ μηχανῆς θεός, “apò mēchanḗs theós), ma il suo equivalente latino: Deus ex machina (letteralmente “divinità – che scende – dalla macchina”).

Con un sistema di carrucole, gli dei scendevano sul palco da una gabbia trasportata da sorta di gru sul retro della skéné. L’espressione è usata ancora oggi per designare il modo improbabile in cui si dipana una trama.

Gli dèi giocano tutta la loro parte nello spettacolo, facendo volta in volta da protettori o complici dei personaggi, oppure agendo in maniera ostile ai progetti umani. L’ultima parola, nella tragedia, spetta sempre alle divinità.

Il pathos nella tragedia

Dimenticate il significato contemporaneo dell’aggettivo “patetico”, troppo spesso inteso in senso peggiorativo. Tra i Greci, il pathos regna sovrano sul palco, nel senso migliore della parola.

Coro di una tragedia greca
Coro di una tragedia greca

L’antico pathos

Nel suo dizionario del teatro (Paris, Dunod, 1996), P. Pavis ce ne dà un’ottima definizione:

Pathos si riferisce alla qualità dell’opera teatrale che suscita emozione (compassione, tenerezza, autocommiserazione) nello spettatore. Deve essere distinto dal drammatico e dal tragico. Il dramma è una categoria 

letteraria che descrive l’azione, il suo svolgimento e i suoi colpi di scena. Il tragico è legato all’idea della necessità della fatalità, ma liberamente provocata e accettata dall’eroe. Pathos è una modalità di ricezione dello spettacolo che provoca compassione. Vittime innocenti sono abbandonate al loro destino senza alcuna difesa.

Il pathos permette di mettere in stretta correlazione palcoscenico e pubblico. Nello scambio di impressioni e tutto ciò che riguarda il corpo oltre che l’anima, un reale em-patia. Lo spettatore si identifica con la situazione vissuta dai personaggi.

Ma ci può essere un legame ancora più forte: una comunione con la sofferenza dell’altro, sim-patia. Le lamentazioni, quelle dolorose canzoni degli eroi che si autocommiserano, trovano così il loro posto nel teatro.

Perché al di là di quello che facciamo lì, dovremmo anche interessarci a come ci sentiamo…

Terrore e pietà nella tragedia greca

Tra gli Atreidi e i Labdacidi, l’orrore è di casa:

[Edipo] si colpì più volte le palpebre rovesciate; e gli occhi insanguinati gli colarono sulle guance; e non solo qualche goccia di sangue uscì, ma schizzò fuori come una pioggia nera, una grandine di sangue.

Le lamentazioni, i rimpianti e le altre afflizioni sono altrettanto spettacolari, e non meno strazianti. Dopo i lamenti di Andromaca e Oreste, le parole di disperazione di Medea sono forse le più toccanti di tutto il teatro antico. Perché Medea è una donna:

Di tutti gli esseri viventi e pensanti, noi donne siamo la razza più sfortunata; […] si dice di noi che conduciamo una vita sicura a casa, mentre loro combattono con le lance; questo è un ragionamento molto stupido, perché preferirei stare dietro uno scudo tre volte che partorire una volta.

Perché è una madre, e sta per compiere un infanticidio. Abbandonata ben presto dal marito, la maga Medea decide di vendicarsi di lui e, per farlo, considera il crimine più efferato per una madre: uccidere i propri figli. E per lamentare il suo destino e quello della sua prole:

Oh figli miei, figli miei, avete una città dove, abbandonandomi alla mia sventura, vivrete per sempre senza vostra madre.
Andrò in esilio in una terra straniera prima di avervi goduto e visto la vostra felicità.

Altro luogo, altra disgrazia: Agamennone radunò ad Aulide la flotta greca, pronta ad andare in battaglia contro i Troiani. Attende venti migliori per la partenza delle truppe. L’indovino Calcante lo informa che il sacrificio di una delle sue figlie assicurerebbe un lieto fine all’impresa… Ifigenia, che aspira solo alla felicità, cerca di far riconsiderare la sua decisione ad Agamennone e di impedire il sacrificio espiatorio che la attende:

Se avessi, o padre mio, il potere di conquistare i cuori dei padri con il canto […] e di addolcire, con le mie parole, chiunque volessi, vi ricorrerei, ma per tutta risposta, io non posso portare altro che le mie lacrime. Questo è tutto ciò che ho.

L’agnizione

L’agnizione, o “anagnorisis” in greco antico, è un concetto chiave nella tragedia greca. Si tratta di un momento di rivelazione o scoperta improvvisa in cui un personaggio principale, di solito il protagonista, giunge a conoscenza di una verità fondamentale, spesso legata alla propria identità, alla situazione o agli eventi che circondano la trama della storia. Questa rivelazione può avere un impatto profondo sulla trama e sul destino del personaggio.

L’agnizione è una delle componenti essenziali della trama tragica secondo il modello aristotelico. In molte tragedie, il protagonista è spesso coinvolto in un percorso di errore o inganno che li porta a vivere una vita basata su false convinzioni o informazioni incomplete. L’agnizione rappresenta il momento in cui queste illusioni vengono svelate e il protagonista comprende la verità. Questo riconoscimento può portare a una drammatica inversione della situazione e a un cambiamento nel corso degli eventi.

Un esempio celebre di agnizione si trova nell’opera “Edipo re” di Sofocle. Il protagonista, re Edipo, scopre con orrore che lui stesso è il colpevole dell’omicidio del precedente re di Tebe, nonché suo padre, e che è sposato con sua madre, la regina Giocasta. Questa rivelazione sconvolgente lo spinge a compiere azioni drastiche e tragiche.

In breve, l’agnizione è un momento cruciale nella struttura della tragedia greca in cui il protagonista raggiunge una comprensione profonda e talvolta dolorosa della sua situazione e delle sue relazioni, portando a un drastico cambiamento di direzione nella trama e spesso a un tragico destino.

Certamente, ecco alcuni esempi di agnizione tratti da famose tragedie greche:

1.  “Edipo re” di Sofocle: 
L’agnizione avviene quando Edipo scopre che lui stesso è il colpevole dell’omicidio del precedente re di Tebe, e che ha sposato sua madre. Questa rivelazione lo conduce a un’angoscia profonda e tragica, culminando nel suo autoesilio e nella cecità autoinflitta.

2.  “Medea” di Euripide: 
Nella tragedia “Medea”, l’agnizione si verifica quando Medea, dopo aver ucciso i suoi figli per vendicarsi del tradimento di suo marito Giasone, si rende conto della terribile portata delle sue azioni. Questo momento di rivelazione la costringe ad affrontare le conseguenze della sua vendetta.

3.  “Agamennone” di Eschilo: 
Nella trilogia “Orestea” di Eschilo, l’agnizione giunge nella seconda parte, “Le Coefore”, quando Oreste, figlio di Agamennone, riconosce sua sorella Elettra. La rivelazione spinge Oreste a pianificare la vendetta contro sua madre Clitennestra e il suo amante Egisto per l’assassinio di suo padre. Nella versione di Sofocle, contenuta nell’Elettra, l’agnizione è unilaterale: Oreste riconosce Elettra, ma Elettra non riconosce Oreste. Questo crea un senso di suspense e di attesa, perché il pubblico sa che Elettra deve riconoscere Oreste prima che i due possano mettere in atto il loro piano di vendetta.

4.  “Le Baccanti” di Euripide: 
In questa tragedia, Penteo, re di Tebe, scopre con orrore che le donne bacchiche che ha imprigionato sono in realtà donne della sua famiglia, tra cui sua madre Agave. Questo momento di agnizione è seguito da un tragico epilogo in cui Penteo viene smembrato dalle donne in uno stato di furia.

5.  “Le Troiane” di Euripide: 
Nell’opera “Le Troiane”, l’agnizione si verifica quando Andromaca, prigioniera troiana, scopre che suo figlio è stato ucciso dagli Achei vincitori. Questa rivelazione è un momento di grande dolore e disperazione per il personaggio.

Questi sono solo alcuni esempi di agnizione tratti dalle tragedie greche. In ciascuna di queste opere, l’agnizione svolge un ruolo cruciale nel determinare il destino dei personaggi e nell’intreccio complessivo della storia.

La hybris

La “hybris” (anche scritta come “hubris”) è un concetto cruciale nella tragedia greca e nella cultura dell’antica Grecia in generale. Si riferisce a un eccesso di orgoglio, arroganza o comportamento insolente da parte di un individuo che sfida gli dèi o supera i limiti umani e sociali accettati. Questo atteggiamento audace e spesso sfidante è spesso seguito da conseguenze disastrose, portando all’abbassamento o al castigo del colpevole.

Nella tragedia greca, la “hybris” spesso svolge un ruolo centrale nella motivazione degli eventi e nella definizione delle trame. Ecco alcuni aspetti chiave della “hybris” nella tragedia greca:

 Trasgressione dei Limiti: 
La “hybris” rappresenta il superamento dei limiti umani e sociali. Gli individui che cadono nella trappola della “hybris” cercano di sfidare il destino o la natura stessa, cercando di diventare come gli dèi. Questo atteggiamento arrogante è inaccettabile nell’ordine cosmico greco e spesso porta a conseguenze tragiche.

 Mancanza di Rispetto per gli Dèi: 
La “hybris” implica una mancanza di rispetto e devozione verso gli dèi. Gli antichi Greci credevano che gli dèi potessero punire coloro che osavano sfidarli o sdegnarli. Quando un personaggio si lascia trasportare dalla “hybris,” solitamente accade una reazione negativa da parte degli dèi, che possono infliggere punizioni terribili.

 Destino e Punizione: 
Nelle tragedie greche, i personaggi che cadono nella “hybris” spesso attirano su di sé una punizione o una disgrazia che è proporzionale alla loro trasgressione. Questo è un modo per dimostrare l’ordine universale e la giustizia divina. La “hybris” non può passare impunita, e la sofferenza o la caduta del colpevole sono spesso presentate come inevitabili.

 Esiti Tragici: 
La “hybris” è spesso associata a esiti tragici nelle tragedie greche. I personaggi che cadono nella “hybris” possono perdere il rispetto della comunità, la posizione sociale, l’amore, la vita stessa o qualsiasi altra cosa preziosa. Le tragedie spesso esplorano le conseguenze emotive e sociali di tali comportamenti, dimostrando come l’arroganza possa portare al fallimento e al dolore.

Un esempio noto di “hybris” è il mito di Icaro, che si avvicinò troppo al sole con le ali fatte di piume e cera, ignorando gli avvertimenti di suo padre Dedalo. La sua sfida agli dèi gli costò la vita quando la cera si sciolse e cadde in mare.

In sintesi, la “hybris” nella tragedia greca rappresenta l’orgoglio e l’arroganza e sottolinea la necessità di rispettare gli ordini divini e sociali. Questo concetto è centrale nel modo in cui gli antichi Greci comprendevano la relazione tra gli uomini, gli dèi e il destino.

Esempi di “hybris”

1.  “Prometeo incatenato” di Eschilo: 
Nell’opera di Eschilo, Prometeo sfida Zeus rubando il fuoco divino e donandolo agli uomini. Questo atto di disobbedienza agli dèi e di elevazione dell’umanità è una manifestazione di “hybris.” Come punizione, Prometeo viene incatenato su una montagna, dove un’aquila gli mangia il fegato ogni giorno.

2.  “Edipo re” di Sofocle: 
Edipo è il protagonista che cerca di fuggire da una profezia che lo condanna a uccidere suo padre e sposare sua madre. Tuttavia, le sue azioni e le sue indagini lo portano a scoprire che è stato lui stesso a commettere questi crimini inconsapevolmente. Il suo tentativo di sfuggire al destino porta a conseguenze tragiche, rappresentando una forma di “hybris.”

3.  “Antigone” di Sofocle: 
Creonte, re di Tebe, emana un editto che vieta la sepoltura del fratello di Antigone, Polinice, che aveva tradito la città. Antigone sfida apertamente l’editto di Creonte e seppellisce il fratello, sostenendo che le leggi divine sono superiori a quelle umane. La sua disobbedienza a un decreto reale è un esempio di “hybris,” che porta a una serie di eventi tragici.

4.  “Ifigenia in Aulide” di Euripide: 
Agamennone, re di Micene, viene costretto dagli dèi a sacrificare sua figlia Ifigenia per permettere alla flotta achea di partire per la guerra di Troia. La sua scelta di sacrificare la figlia per ragioni politiche è una forma di “hybris” nei confronti degli dèi e dell’ordine naturale.

5.  “Medea” di Euripide: 
Medea è una maga che si vendica del tradimento di suo marito Giasone uccidendo i suoi figli e la sua nuova moglie. Il suo atto di vendetta estrema rappresenta una forma di “hybris,” poiché supera i limiti umani e sfida la morale e gli dèi.

Questi sono solo alcuni esempi di “hybris” nelle tragedie greche classiche. In ciascun caso, il comportamento e le scelte dei personaggi sfidano l’ordine divino o sociale, portando a conseguenze tragiche e spesso distruttive.

Friedrich Nietzsche, dipinto di Curt Stoeving
Friedrich Nietzsche, dipinto di Curt Stoeving

La Nascita della Tragedia di Friedrich Nietzsche: Esplorazione dell’Arte e del Mito

Storia Editoriale:

“La Nascita della Tragedia” (in tedesco “Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik”) è un saggio scritto dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche. Pubblicato nel 1872, rappresenta il primo lavoro importante dell’autore e offre una prospettiva originale sull’arte tragica e il suo significato nella cultura greca antica. Quest’opera inaugurò il percorso intellettuale di Nietzsche, che avrebbe in seguito esplorato una vasta gamma di temi filosofici.

Contenuto e Idee Principali:

Nel saggio “La Nascita della Tragedia,” Nietzsche esplora le origini e la natura della tragedia greca, mettendo in luce le tensioni creative tra due forze contrapposte: l’Apollineo e il Dionisiaco. Questi concetti derivano dalle divinità greche Apollo e Dioniso, che rappresentano due aspetti diversi dell’esperienza umana e artistica.

L’Apollineo: Nietzsche identifica l’Apollineo con l’arte plastica, l’ordine, la misura, la forma e la bellezza. È associato alla razionalità, alla chiarezza e alla forma visibile. L’arte apollinea si esprime attraverso la creazione di immagini idealizzate, che portano l’individuo a contemplare l’armonia e l’equilibrio del mondo.

Il Dionisiaco: D’altro canto, il Dionisiaco è legato alla musica, all’ebbrezza, al caos e all’irrazionalità. È rappresentativo dell’istinto primordiale, della passione e dell’estasi. L’arte dionisiaca si manifesta attraverso la musica e la danza, permettendo all’individuo di entrare in contatto con l’energia vitale e travolgente dell’universo.

Nietzsche sostiene che la tragedia greca fonde questi due principi opposti per creare un’opera d’arte di straordinaria potenza. Egli vede l’origine della tragedia come la risultante dell’armoniosa interazione tra l’Apollineo e il Dionisiaco, dove il dramma tragico rappresenta l’unione dell’illusione ottica apollinea e dell’intensità emotiva dionisiaca. In tal modo, l’arte tragica offre un mezzo di catarsi, in cui lo spettatore può sperimentare e liberare le proprie emozioni recondite.

Conclusioni:

“La Nascita della Tragedia” è un saggio che riflette le prime riflessioni di Nietzsche sulla filosofia dell’arte e sull’essenza umana. La dicotomia tra l’Apollineo e il Dionisiaco, e l’idea che la tragedia tragga la sua forza dalla fusione di queste due forze contrastanti, avranno un impatto duraturo sul pensiero di Nietzsche e continueranno a influenzare i dibattiti filosofici e artistici in tutto il mondo.

Dagli autori greci a quelli latini… e poi a quelli moderni!

Da Euripide a Racine, la storia di Ifigenia, immolata dal padre, non ha perso nulla della sua carica emotiva. Rimane la sublime incarnazione dell’ingiustizia del sacrificio per ragioni di Stato. Lo stesso vale per Andromaca. E così via… La Medea di Euripide diventa ancora più disumana in Seneca; l’Ippolito coronato di Euripide diventa Fedra in Seneca, Racine e D’Annunzio; il Prometeo incatenato di Eschilo diventa “liberato” nel poeta romantico inglese Shelley.

L’Antigone di Sofocle si reincarna nella pièce di Vittorio Alfieri e poi di Jean-Anouilh e l’Elettra di Sofocle viene fatta rivivere da Giraudoux e da Hofmannsthal. A volte il titolo contemporaneo nasconde la sua fonte: Le Mosche di Jean-Paul Sartre rivisita sia l’Elettra di Sofocle che L′Orestea di Eschilo. Al contrario, Il lutto si addice ad Elettra, opera del drammaturgo americano Eugène O’Neill (1931), ha tra i suoi personaggi una Lavinia, ma nessuna Elettra.

Sia ad Atene, a Epidauro come a Siracusa nel teatro greco omonimo, così come negli anfiteatri di tutto il mondo, i più grandi registi continuano ad adattare le opere antiche al gusto del momento e a riproporre all’attenzione di noi contemporanei, questi drammi universali.

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